CANTI POPOLARI TOSCANI
“La Barriera”, una raccolta illustrata di Vallecchi. La protesta contadina e l’accorato accento di questi canti narrativi in ottave sono storia viva, vera, sofferta.
Da Il Lavoro, mercoledì 18 settembre 1974
Nella collana «Il bisonte» delle nuove edizioni Enrico Vallecchi, Ivo Guasti e Franco Manescalchi presentano La Barriera, una raccolta di canti popolari toscani del mondo contadino.
L’opera, illustrata da sei litografie originali di Fernando Farulli, ha il duplice pregio di offrire al lettore una vivace testimonianza sugli aspetti più salienti del mondo contadino ed un’elegante veste tipografica che rende il libro in se stesso un oggetto d’arte.
È, infatti, un’arte incisiva e dolente quella delle figure di Farulli, figure che balzano dal mondo operaio e contadino nelle bicromie rosso-nere, nero-azzurre con una violenza che richiama le asperità e la protesta del discorso artistico di Guttuso.
A queste sei litografie inserite nel contesto del volume, seguono in appendice una serie di schizzi dello stesso autore e arricchiscono la documentazione diverse fotografie che ritraggono aspetti di vita contadina in Toscana; i testi musicali delle canzoni ed un lessico delle espressioni idiomatiche completano la ricerca nel modo più rigoroso ed esauriente.
Ma illustrare soltanto l’aspetto estetico e filologico della raccolta sarebbe fargli torto in quanto la ricerca tende piuttosto a sensibilizzare, per gli anni che vanno dal Risorgimento al fascismo, quegli aspetti sociopolitici che troppo spesso nel discorso sulla cultura popolare sono stati negletti ed evasi per dare piuttosto risalto ad accenti di carattere folkloristico.
Lo stesso titolo della raccolta, La Barriera, anticipa quelle considerazioni sulla condizione contadina che la raccolta ci offre l’occasione di fare: la barriera è, infatti, quella del dazio e delle gabelle che assoggettano la civiltà contadina emarginandola dallo sviluppo storico e dai mutamenti che lo determinano.
Non a caso nel loro commento Guasti e Manescalchi pongono particolare attenzione all’atteggiamento contadino nei riguardi del fenomeno dell’urbanesimo che, proprio negli anni considerati nell’opera, si va formando ed affermando come ultima, definitiva dissoluzione di quella civiltà di tipo agreste – pastorale delineata nel primo gruppo di canti epico – lirici quali «Donna Mondana», «n pecoraro», «La pastora».
Dai contrasti tra il cittadino e il contadino che si trovano, per lo più tra il gruppo dei canti narrativi in ottave, emerge, con una indiscussa vivacità, la frattura fra due classi sociali che non trovano nelle strutture economiche e nel sistema sociale loro contemporaneo uno sviluppo armonico ed un dialogo reciproco: la città, agli occhi del contadino, vive con i mezzi offerti dalla campagna, ma si sviluppa sostanzialmente contro di essa; mentre la figura del cittadino si staglia come l’agognata e, ad un tempo, invidiata antitesi ad una condizione di vita che ha largamente superato i limiti della umana sopportazione.
Il dramma della emigrazione verso la città e l’abbandono delle terre non tarda, infatti, a farsi sentire nel gruppo dei canti monostrofici di cui fanno parte i rispetti e gli stornelli che, cantati in prevalenza da soggetti femminili, pongono l’accento su quest’ultimo dolente aspetto della questione.
Così ne «La fatica», dove i versi: «Non posso più cantar dalla vecchiaia perché son mamma di tanti figlioli. — E sette n’ho mandati a guardar l’aia e sette l’ho mandati a guardar buoi», sintetizza in pochi ma efficaci tratti quelle condizioni che presuppongono il rifiuto che informa i canti successivi. In questo quadro di miseria e sconforto, infatti, ai versi: «E in questo posto non ci voglio stare, non ci sono nata e non ci vo morire, neppure mi ci voglio maritare» fanno eco quelli di «Senza amore», dove la durezza delle condizioni di vita e l’abbrutimento che ne segue nullificano la spontaneità dei sentimenti.
Ma se la drammaticità della condizione femminile delle campagne viene sensibilizzata da questo atteggiamento di rifiuto, la sottolineano nondimeno i sentimenti di nostalgia e rimpianto che riecheggiano ne «il lavoro stagionale» e ne «La coscrizione», dove i versi: «Oh porto di Livorno traditore! — m’hai portato il mi’ amore in alto mare, — me l’hai portato al porto di Tolone» e «Vittorio Manuelle cosa fai? — La meglio gioventù tutta la voi — E l’amor mio quando me lo ridai?», sottolineano quanto le cattive condizioni di lavoro e certe contraddizioni della politica piemontese abbiano contribuito a quell’abbandono dei campi di cui la donna fu vittima indiretta.
La durezza delle condizioni di vita, i soprusi di una amministrazione parassitaria non tardano a far maturare nell’animo dei contadini sentimenti di rivolta che si possono definire come i prodromi di una latente coscienza di classe; i canti narrativi in ottave quali «Il bandito», «Il lamento dei mestieranti» e gli stornelli quali «Oh prete, oh prete », portano il germe di questo nuovo atteggiamento.
Il rabbioso anticlericalismo alla base di queste ultime canzoni dimostra, infatti, quanto la triade «Chiesa – Re – Padrone » della paternalistica società ottocentesca fosse ormai dissacrata agli occhi dei lavoratori che ne avevano individuato le finalità.
Va da sé che la ribellione non raggiunge né la sistematicità, né la piena comprensione delle cause che l’hanno mossa, ma rimane, come ben definiscono gli autori di questa ricerca «una forma embrionale di coscienza civile ed un sostanziale anarchismo vitalistico» ed «una sorda resistenza contro il clericalismo, la piccola borghesia parassitaria e la aggregazione urbana».
Il quadro storico – sociologico si chiude così con queste immagini dense di rabbia e sofferenza che ci portano ad affermare, assieme a Giorgio Luti, prefatore di ricerca «Di questa situazione storica l’antologia offre una persuasiva testimonianza, per giunta sostenuta dal fascino dell’evocazione poetica, per cui la miseria e il dolore, l’ansia del riscatto e l’anelito ad una vita diversa assumono di frequente il volto della autentica evocazione d’arte».
Marina Quaglia
CANTI POPOLARI TOSCANI
Da Rinascita, 19 aprile 1974
Nel raccogliere i canti popolari toscani del mondo contadino (La Barriera, Firenze, Nuovedizioni E. Vallecchi, 1973, pagine 173, L. 10.000; il volume, di grosso formato, è corredato dei testi musicali e di ventitré tavole fotografiche sui diversi aspetti del mondo contadino in Toscana), i due curatori Ivo Guasti e Franco Manescalchi hanno deliberatamente, e giustamente, compiuto un’operazione su due piani, letterario e politico. Appartiene al piano letterario la divisione dei testi a seconda del genere e delle soluzioni strofiche (canti epico-lirici, rispetti e stornelli, canti in ottave, canzoni) con la distinzione fra i canti anonimi e quelli creati dai cantastorie, e le indicazioni storico-geografiche e delle fonti, fornite in testa ai capitoli e in calce alle singole poesie; ma è subito chiaro che a Guasti e Manescalchi poco interessa fare un lavoro di mera e agnostica filologia, mentre il loro intento è di predisporre certi testi con un’adeguata chiave di
lettura. In questo senso si spiega già il titolo della raccolta che, alludendo alla barriera daziaria, colloca questi canti popolari in un preciso momento del tempo e in una precisa situazione conflittuale; gli ultimi decenni dell’Ottocento dopo la proclamazione dell’unità, e la condizione di separazione-scontro fra città e campagna.
In simile contesto anche gli accenti «reazionari» non infrequenti nei canti possono assumere una diversa prospettiva e riguardarsi come «testimonianza della non partecipazione contadina all’affermarsi e al consolidarsi dell’ordine borghese»; e il carattere indiretto e velato del discorso sociale che essi contengono (prevalendo piuttosto la protesta spontanea) può a sua volta esser visto come « la prima forma di coscienza di classe, il primo embrione da cui scaturirà poi il folklore di protesta novecentesco ». E’ questa l’idea portante nella scelta dei testi e nella presentazione: la loro sottrazione ad una talora sin troppo facile, ma erronea, lettura odierna in chiave pseudo-romantica, individualistica e qualunquistica, che riduce il folklore popolano toscano a cultura omologa di un’acquiescienza reazionaria. Al contrario, essa conteneva un’inconscia e inquieta premessa alla coscienza di classe che, dati i caratteri economici della regione ben differenziati da quelli di altre regioni del nord già in via di industrializzazione, si concreta eminentemente o in motivi campagnoli legati ancora ad una situazione semifeudale o a motivi civili generali (la coscrizione obbligatoria, i dazi, l’invadenza del clero, etc.).
A questo punto, ci si potrebbe chiedere se una visione così intenzionata possa assolvere in pieno anche le desiderate pretese scientifiche; risponderemmo di sì anzitutto per le note particolari che connettono i testi letterari alle situazioni concrete che li hanno generati, ai temi della letteratura d’appendice, alla produzione dei più illustri poeti-contadini, e richiamano le coincidenze dei temi musicali diffusi in varie regioni su testi simili o diversi; per quanto riguarda il senso generale che ne vien ricavato, esso non intende evidentemente forzare il significato immediatamente leggibile nei versi, ma indicare una massa di valori ancora amorfa e tuttavia potenzialmente tesa a risolversi su livelli ideologici più coscienti.
Giuliano Manacorda
LA RABBIA CONTADINA NEI CANTI DELL’800
Da L’Unità, 21 maggio 1975
le meglio ragazzine le son del prete. Oh prete, oh prete, oh prete non baciar le donne non t’hanno messe nemmeno a guardarle, t’hanno messo a guardare le madonne». E’ l’inizio di uno dei tanti stornelli che, insieme a canzoni, rispetti e canti epici, formano la raccolta forse più interessante dèi canto popolare toscano. Il libro si intitola «La Barriera» (Nuove edizioni Vallecchi – il bisonte) ed è stato scritto da Ivo Guasti e Franco Manescalchi. La scelta, di tipo ideologico, ci offre la visione di un mondo contadino lontano ma non sepolto.Varrebbe la pena, da parte degli organismi culturali pubblici, che ci si dedicasse una buona volta a diffondere questo patrimonio culturale nell’ambito dei giovani, delle scuole in particolare, anche se è da prendere che ci vorrà del tempo prima che qualche assessore regionale, o di più modesto livello, si senta preparato ad impostare un programma di educazione musicale. Paolo Lucchesini e Luciano Gabrielli hanno ricavato da «La Barriera» uno spettacolo che è stato presentato alla S.M.S Rifredi per iniziativa dell’ARCI – UISP nell’ambito del convegno nazionale «Cinema, teatro, musica, sviluppo culturale di massa – partecipazione, programmazione sul territorio».
Lo spettacolo si articola in due parti: nella prima le canzoni descrivono il rapporto tra il contadino e il cittadino; nella seconda parte il contadino prende coscienza del suo ruolo nei confronti della società, del lavoro, dello stato, della famiglia. Sono canzoni nate nell’Ottocento, in bilico tra la protesta e la rassegnazione, fra la coscienza di classe, ancora non maturata compiutamente e l’individualismo più schietto della gente toscana.
E’ uno spettacolo popolare che fa presa immediatamente sul pubblico. Gli autori e i cantanti – attori, in particolare il duo Bettini e Grazia Maria Fei, sono stati applauditi a lungo.
E’ uno spettacolo che forse non piacerà a coloro che del folk apprezzano soltanto i risvolti snobistici e, in ultima analisi, consumistici, a coloro, insomma, che apprezzano soltanto la canzone di protesta fine a se stessa, non legata ad un mondo e ad una cultura autentica. Ma lo spettacolo è costruito per chi sa avvertire in quei testi i contenuti più genuini e schietti. E in questo senso l’esperimento è senz’altro riuscito.
Giovanni Errera
LA VEGLIA LUNGA
Da La Nazione, 20 dicembre 1978
cinque anni di distanza dalla pubblicazione de La Barriera, lvo Guasti e Franco Manescalchi hanno dato alle stampe La veglia lunga, che raccoglie canti contadini e del movimento popolare toscano. I due autori riprendono il laro profondo discorso sulla funzione del canto come espressione creativa è comunicativa nelle cosiddette classi subalterne, esattamente dove l’avevano lasciato con La Barriera, cioè allo scoppio della prima guerra mondiale, individuati i primi fermenti sociali e i rari momenti di aggregazione — e di conseguenza prese di coscienza collettive — nei contadini, verificato anche l’innato senso anarcoide di una categoria, aggiogata allora a disumani rapporti di mezzadria, ma più propensa al mugugno e alla rivalsa personale che alla lotta di classe.
Ne La veglia lunga sono gli eventi immanenti per tutta la nazione a far assumere ai contadini una posizione politica, ideologica più avanzata e a cercare elementi comuni di difesa. Prima la «grande guerra», poi il fascismo (la lunga veglia, appunto), infine la ribellione al regime e la liberazione, sono i grandi eventi che cambiano la fisionomia del contadino toscano e lo inducono prima ad una propria resistenza silenziosa, personale e testarda, per passare poi ad una partecipazione attiva.
Questo cammino dei contadini toscani — in particolare del Mugello che è il territorio familiare agli autori — verso una più responsabile coscienza collettiva si segue attraverso le controcanzoni del ventennale e, per la prima volta, le scritte murali apparse soprattutto in città, a Firenze. Il materiale raccolto e classificato cronologicamente con amore e rigore non è ricco come ne La Barriera, che spaziava in tempi e temi più vasti, ma riesce ad esprimere con intensa drammaticità i sentimenti di libertà e di democrazia di una «fronda» che, pur avendo rinnovato nel periodo fascista la sofferenza di un’atavica oppressione, è riuscita a mantenersi viva culturalmente e a preparare gli animi alla Resistenza. In questo senso La veglia lunga assume il valore di essere il primo testo organico – ampiamente documentato – sull’esistenza di un folclore alternativo nel periodo fascista.
Semmai si potrebbe obiettare sull’originalità musicale degli «altri canti» del ventennio, quasi nessuno sorretto da una propria ispirazione: le parole sono adattate su vecchi motivi tradizionali popolari o patriottici o, meglio ancora, sulle note delle canzonacce del regime, presente una vena satirica dirompente. E non si tratta di una scelta banale, a portata di mano, ma di un’operazione sottile di appropriazione di codici di comprensibilità familiari, quindi più efficaci per far circolare il messaggio. Ne La veglia lunga, infine, non mancano accenni polemici verso chi ebbe a disconoscere un impegno ideologico ne La Barriera. La risposta è chiara in questa seconda ricerca operata in un diverso periodo storico: attribuire al contadino toscano, a cavallo fra i due secoli, la stessa identità politica di quello fra le due guerre sarebbe stato solo una mistificazione di comodo.
Paolo Lucchesini
CHI SFOTTE LA GENTE BONINA
Da Il Mattino di Napoli, 1 aprile 1986
«Cicerenella teneva ‘nu gallo, / tutt’e nnotte nce jeva a cavallo…» Quaggiù; e in Mugello («Cicerenella teneva teneva», già, «e nisciuno», cca, «’o ssapeva»…), in Mugello «gli aveva un podere, / tutti i giorni l’andava a vedere», «pan biscotto e mortadella, / viva la moglie di Cincirenella» (così gli aggraziano lassù quel nome, da risatella). Dunque tutto il mondo è paese, puranco di Cicerenella, nonché di Pulicenella e di Cenerentola-Cinderella.
Lumina conclude la felice trilogia di Guasti e Manescalchi sul canto popolare toscano. Della quale il primo volume, La barriera, ha inteso documentare la complessità della struttura di quel canto, dai tre versi dello stornello e dall’unica ottava del rispetto «spicciolato» ai componimenti di ben minor risparmio epico-lirici. Nel secondo volume, La veglia lunga, si è voluto in particolar modo dimostrare come nel ‘900 e anche durante il ventennio del «silenzio», una sana e ferma coscienza politica contadina «si sia espressa mediante il sottile, sotterraneo (ma neanche poi troppo) filo rosso del canto popolare». In Lumina, dice Marino Biondi prefatore, «si attraversa, il repertorio magmatico delle massime e dei proverbi di vita contadina», e la «ricerca tende a compiersi con riscontri di sapienza amara, ma anche con la gioia dei canti, delle ninne nanne ai giochi infantili, dai canti narrativi agli stornelli, dalle ballate dei cantastorie alle canzoni».
Il cantamaggio e la lettera del soldato, il cacciatore e l’emigrante, il «diritto di maggioranza» e il contrasto in ottava rima fra la ricca e la povera sulla guerra libica. C’è Cincirinella e c’è Madama Dorè, Marcellina «giù per le scale / con le mani sotto al grembiule / passa un giovane ufficiale…», e Fedora, che «no, no, e la disse la bella, / se tu m’ami con te vo’ venire / da queste pene ne voglio sortire / anderemo a goderci nel ciel. / Tira fuori il suo lungo braccìno / con in mano una vecchia pistola / il primo colpo lo spara a Beppino / il secondo lo spara per sé. // Genitori se avete dei figli / non li fate patir nell’amore, / che succedono tanti perigli / e la colpa è di voi genitor». Ma voi altre poi, benedette figliole mie, «ragazze buonasera / non date retta ai preti / se no i vostri segreti / scopriranno / … / L’ha fatto un bel bambino / somiglia tutto il prete / tra poco lo vedrete / se gli è vero…» Oh le saran bischerate: linguacce risapute; che però subito poi anche si purgano cantando «i tre miracoli della Madonna di Lourdes» o la storia della Madonna del Sasso. «Mamma mia mi sento male / per la cosa che in orto ci sta», e la mamma dagli a enumerare – cicoria, lattuga, carote… – e la su’ figliolona a pestar «no e no, / quella ‘un fa bene pel male che ho»; e finalmente: «c’è l’ortolano, / se tu lo vuoi io te lo do»; ci siamo! sì e sì e sì / quello fa bene pel male che ho qui».
Sezioni massime e proverbi. «Il mal della caviglia / il sabato va via / e il lunedì ripiglia»: «lavoro di donna e concio di vacche / ci se ne accorge quando si batte». Che non è affatto rampogna di villanzon maschilista alla compagna sua, se ecco poi viene «Chi lavora mangia / chi non lavora mangia e beve», e, giunta alla derrata, «È meglio tremare un anno / che lavorare un giorno». Tutto il mondo è paese: «Non rimandar mai a domani quel che si può fare dopodomani»; «il lavoro è la maledizione delle classi che bevono…»: gli è il signorino Oscar (Wilde). Il buttero maremmano e il leggiadro dandy, sottobraccio, per via de’ Cerretani o via dell’Ariento a sfottere la gente bonina che corre per via dell’Ariento (= argento).
Alberto Mario Moriconi
IVO GUASTI E FRANCO MANESCALCHI: IL PRATO AZZURRO
Da Toscana Folk, anno 2 n.2, maggio 1997
Guasti e Manescalchi sono due fra i più esperti ed autorevoli studiosi del mondo popolare toscano, soprattutto profondi conoscitori di quella tradizione orale che attraverso le storie, i canti, i proverbi è giunta fino a noi intatta e che la civiltà cosiddetta dei consumi ha devastato irrimediabilmente fino quasi a farne perdere le tracce. E tuttavia attraverso la conservazione di documentazioni come queste che speriamo di poter tramandare a chi verrà dopo di noi la memoria del passato, quel mondo contadino così ricco di cultura e di valori che oggi sembra, anche a noi che lo abbiamo vissuto, lontano anni luce. Chi scrive ricorda ancora LA BARRIERA (1973), il primo libro di Guasti-Manescalchi, come uno dei più stimolanti approcci al mondo delle tradizioni popolari toscane; La Barriera era anche uno spettacolo itinerante che abbiamo più volte applaudito nelle piazze toscane, uno dei meglio impostati e che ancora oggi potrebbe figurare degnamente nel calendario delle più serie manifestazioni folkloristiche. A questo seguirono LA VEGLIA LUNGA (1978) una raccolta di canti contadini composti nell’arco di tempo fra le due guerre mondiali, la documentazione, come dicono gli autori di un “folclore alternativo al regime fascista”, un mondo che finora era restato chiuso all’interno del podere e/o del paese e che ora con la nascita dei partiti popolari, dell’attività sindacale “si apre, muta le sue tradizioni concretandole in momenti di lotta e di battaglia politica”.
Nel 1984 esce LUMINA, memorie massime e canti popolari nel mondo contadino toscano; “Troppo spesso, si legge nell’introduzione, oggi si lega il concetto di cultura contadina con un naturalismo festaiolo, privo totalmente di coscienza storica…si torna alle radici del canto, ma anche dell’uomo di oggi. La famiglia, l’amore, l’infanzia, il lavoro, la guerra, la religiosità, le feste, il rapporto di classe, le forme dell’antica saggezza sono temi qui riproposti come problemi del tempo”.
L’eterna saga del canto popolare non è finita (non può finire) ed ecco l’ultimo lavoro IL PRATO AZZURRO, “l’ascolto del tempo”, fiabe e storie tramandate da generazione mentre le ore trascorrevano lente davanti al canto del fuoco. Gli autori sono ancora a ricordarci questo mondo magico, popolato di fate e di principi, di maghi e di streghe, il silenzio religioso che si faceva intorno al narratore…e ancora il rincorrersi dello stornello da poggio a poggio, l’antica saggezza delle massime e dei proverbi, questo è l’ascolto del tempo, un tempo remoto che viene da civiltà antiche e che ha portato fino a noi la voce della storia. In questa quadrilogia si ritrova l’anima più vera e genuina di una regione toscana, il Mugello, una terra antica, ricca di tradizioni e di memorie che Guasti e Manescalchi non hanno ancora finito di indagare. IL PRATO AZZURRO è un “lavoro che è l’ultimo, “e non lo è”. Il libro è stato presentato il 21 dicembre a Barberino di Mugello, da Carlo Lapucci e Paolo Bagnoli, nella sala consiliare del Comune. Lapucci ha sottolineato come la rivisitazione di ciò che con troppa fretta avevamo abbandonato, come vecchi mobili, si presenti simile con i resti della tradizione orale che ci è stato restituita con questo libro, che è qualcosa di più che una curiosità letteraria.
Avere questi testi, ha detto ancora, significa avere i confronti con l’identità di una comunità che qui lascia impresso la sua fisionomia, il suo ritratto. Non abbiamo il diritto di sottrarli a coloro che verranno. Sullo stesso piano si è espresso Paolo Bagnoli che ha mostrato di apprezzare questo libro della memoria collettiva, una metafora di civiltà, un libro piacevole ed educativo e anche un po’ malinconico. Anche secondo gli autori IL PRATO AZZURRO è una metafora del rapporto che esiste fra cielo e terra. Ognuno di noi è dentro il prato azzurro, il nostro è un mondo aggredito che scompare di fronte alla civiltà industriale, ma rimane la cultura di questa civiltà, la favola, il proverbio, il modo di dire, il canto.
Aggiungiamo anche qualcosa sulla forma oltre che sul contenuto di questo libro, che è bello, con una ricca documentazione fotografica tutta inedita, le piacevoli xilografie di Sirio Midollini, un ampio glossario sul parlar toscano nel Mugello e nella Val di Sieve, le trascrizioni musicali dei canti. Un libro elegante, con una solida rilegatura, fatto per durare nel tempo come tutti i libri importanti devono essere. È importante infine ricordare che questa pubblicazione è stata resa possibile per il contributo concreto di un’ampia schiera di patrocinatori (la Banca di Credito Cooperativo del Mugello ma anche negozi al dettaglio, piccole imprese, studi tecnici), questo dimostra come anche gli imprenditori locali abbiano a cuore le memorie storiche della terra in cui operano.
Alessandro Bencistà
La Saga dei Manescalchi
come esempio di microstoria monografica dilatata
Si può dire che quanto connota quest’opera è la sua indefinibilità e corrisponde alla sua originalità essendo un’opera narrativa, impostata sulla documentazione storica, fortemente caratterizzata di etnologia, che ha come struttura portante un’ampia, secolare, sviluppata genealogia. È una ricerca nata intorno al suo argomento e al suo presupposto, dai quali ha preso la sua forma inusitata.[1]
Ci sono stati certamente studi riguardanti dinastie di famiglie più o meno illustri, ma hanno in genere un motivo dominante, una caratterizzazione dovuta al tipo di attività, imprese, figure dedicate a una più o meno definita funzione nella società o nella storia.
La saga dei Maniscalchi è la vicenda storica di una famiglia che partendo da Villore del Mugello, per successivi trasferimenti in poderi, attività artigianali e altro si espande e cammina fino ad arrivare alle periferie fiorentine per insediarsi nella città. Sulla struttura apparentemente lineare della vicenda s’innestano l’analisi e la descrizione delle vicende individuali, o di rilevanza sociale, come l’economia, le usanze, le forme di produzione e di lavoro, il corredo di testi, storie, proverbi, tradizioni canti, vita religiosità, feste, riti, cerimonie, pellegrinaggi, nascite, matrimoni, morti, in modo tale che l’opera si presenta come un testo composito di storia e documenti, vita e sociologia, forme di convivenza e al tempo stesso ricerca del pensiero inespresso, ma sotteso, di uno strato sociale che sostiene materialmente le trasformazioni, gli sviluppi e le crisi generali.
L’idea di ricostruire un’intera genealogia di una famiglia dalle più o meno umili origini e come tale rimasta nei secoli, dimostra come il passato aveva conservato le tracce del passaggio anche delle esistenze che non disponevano né di beni, né di ascendenze, né di meriti, imprese o altre distinzioni: il passato non ha cancellato brutalmente il passaggio sulla terra di coloro che vissero col lavoro delle proprie mani e il sudore della propria fronte. Lo possiamo considerare un tratto di civiltà.
La memoria infatti è il primo atto di civiltà, a cominciare da quella dei morti. L’umanità intera ha levato le braccia al cielo in una corale invocazione per implorare la salvezza dall’annientamento della propria vita. La storia mostra i tentativi patetici che sono stati fatti di fronte a questa minaccia. I potenti hanno risposto alla sfida del tempo, più che con le loro imprese che solo pochi elementi delle molte famiglie distinte hanno compiuto, per mezzo della distinzione delle loro ascendenze con alberi genealogici, con la conservazione delle proprie spoglie in monumenti, fastose tombe e sepolcreti. Per altri meno fortunati c’era la possibilità della sepoltura in un tumulo; per tutto il rimanente la fossa comune sena nome.
Questo riservava agli esseri umani sia il prima che il dopo della vita la quale non si presentava come un atto compiuto e limitato all’esistenza individuale, ma era vista come una catena che proveniva dagli antenati e si prolungava nella memoria affidata per i grandi alle loro imprese e per i potenti alle loro tombe.
Poi la civiltà ha concesso a ciascuno la propria tomba, mentre la globalizzazione ora la toglie a tutti dopo trenta anni perché, per quanto sia grande il globo e prodigiose le conquiste della scienza, sulla terra non c’è posto neppure per i morti.
Il volume, insieme alla vicenda umana, offre anche un grande contributo etnologico perché collega alla realtà vissuta, alle figure situate nei luoghi della loro vita e nel tempo collegato a questi, la materia che in larga parte conosciamo, ma avulsa dal suo contesto e quindi disposta in un’arida e muta classificazione poco avvicinabile soprattutto dal lettore comune.
Qui abbiamo in una serie di prospetti sincretici il modo con cui l’essere umano viveva gli istituti della propria società, della sua esistenza, ricomponendo la storia nella sua vera consistenza e organicità.
Le colture, i tipi di frutta, addirittura le piante che crescevamo nei vari terreni e qualificavano le zone, costituivano beni conosciuti e ricercati, ben individuati dalle forme, dai sapori, dalle caratteristiche ben note anche ai ladri di frutta che sono stati una presenza se non gloriosa, certamente eroica della nostra tradizione.
Emergono appunto anche loro, ingiustamente dimenticati, con il corredo di usanze che comportarono: quando i frutteti erano in produzione occorreva proteggerli dalle incursioni dei ragazzi e dai furti dei ladri di professione, che spogliavano i frutteti come le carciofaie, gli orti, le cocomeraie, vanificando il lavoro assiduo dell’annata. Si assoldavano vagabondi per la stagionale custodia notturna nei campi come quella più continua dei pollai. La storia ufficiale non si cura di tali particolari che questa saga riporta in luce, permettendo di considerare meno episodica ed estemporanea la vicenda di Pinocchio che viene assunto proprio per questa delicata mansione.
Volendo il volume, soprattutto se unito al lavoro di Giovampaolo Trotta: Da Villore al Pellegrino – Sette secoli di vicende territoriali attraverso i luoghi di residenza in Toscana della “stirpe” dei Manescalchi[2], può aprire la strada a numerose ricerche di questo genere perché insieme all’esempio che abbiamo fatto, si prospettano un’infinità d’attività che oggi non solo sono dimenticate, ma addirittura inimmaginabili e collocano la casata del Maniscalchi nella loro vera luce: la funzione di coloro che erano parte della struttura portante dell’economia nei secoli passati. Intorno alle cascine d’una volta si svolgevano attività marginali di cui il contadino, o nella sua bottega l’artigiano, godevano o soffrivano essendo, soprattutto il colono per certi aspetti, un privilegiato, collegato direttamente alla famiglia di un potente o di un’istituzione e disponendo della fonte primaria dell’alimentazione.
Nella cascina c’era sempre qualcosa di cui sfamarsi, anche nelle invasioni e nelle carestie: i poveri facevano tappa nelle aie dove anche i cittadini andavano a chiedere durante le epidemie, la guerre e i tempi di penuria. C’erano poi mestieri ammessi e non ammessi, leciti e illeciti, che davano di che vivere ai veri poveri, quelli che esercitavano il lavoro nero dei tempi passati: pescatori e cacciatori di frodo, raccoglitori stagionali di frutti e alimenti spontanei, ladri d’orti e di polli, cacciatori di volpi e faine, operai a giornata, gramolatori, spaccalegna, spazzacamini, magnani, stagnini, conciavasi, ombrellai, spigolatori e spigolatrici, fungaioli, granchiaioli, cenciaioli, pellai, cacciatori di nidi, perfino raccoglitori di concime lungo le strade, di cui parla una celebre scenetta Renato Fucini.
La famiglia contadina era un elemento fondante dell’economia e della società: i carri del lavoro portavano spesso le insegne padronali e belle figure dipinte col nome del podere che spesso per lunghi periodi s’identificava con una famiglia, la quale aveva vantaggi nel far parte di una grande fattoria collegata a un proprietario potente. Questo comportava la protezione in qualunque difficoltà, non per altro che il padrone considerava il contadino, come il podere, roba sua.
Ecco allora perché è stato possibile delineare questa genealogia nei secoli per una famiglia legata alla terra, cosa che oggi per noi non costituisce una rilevante particolarità. A differenza della popolazione minuta e senza radici, che esercitava lavori dubbi o occasionali (ma in questa rientravano anche i braccianti che lavoravano a chiamata giornaliera ed erano detti opere o opre e rientravano più o meno nel vasto numero di coloro che si dicevano pigionali) il contadino era sempre incardinato nella filiera produttiva e quindi appariva nell’amministrazione d’una fattoria, o d’un possedimento, aveva proprie carte di colonìa, iscrizioni, permessi, diritti, passaggi che spesso erano connessi colla terra che coltivava.
Particolare significativo di questa opera è l’aver messo in luce il particolare rapporto che si formava tra l’agricoltore e la sua casa, la sua terra le quali non erano indicate di solito col nome del proprietario, ma con quello del coltivatore che non di rado diventava un toponimo ripetendo lo schema di quanto avveniva talvolta per la nobiltà.
Purtroppo noi vediamo il mondo della campagna solo nell’immagine che ci è rimasta nell’ultimo scorcio dell’esistenza della mezzadria: periodo di decadenza, di crisi, di penuria, una delle fasi più negative attraversate dalle popolazioni delle campagne. La vita reale prima della rivoluzione industriale nel mondo agricolo fu altra cosa dall’immagine vulgata che ha preso i connotati dalla realtà sconvolta dovuta alle depauperazioni, le recinzioni, le migrazioni, il mondo delle periferie e poi dalla frammentazioni delle grandi tenute andate in pezzi: due, tre poderi divennero possesso di notabili cittadini come avvocati, medici, commercianti, industriali, bottegai che operarono solo nello sfruttamento del fondo, senza avere né visioni di ammodernamento, né capitali d’investimento.
Non che nel Settecento e nei secoli anteriori la vita nella campagna fosse tutta un idillio, ma erano più attenuate le frizioni delle categorie sociali, meno sistematico lo sfruttamento, meno opprimente la burocrazia, meno invadente e brutale la trasformazione di mezzi e sistemi di produzione e il trasferimento della mano d’opera dai campi alle fabbriche. L’agricoltore comunque aveva in questo sistema il suo posto e la sua funzione e poteva mantenere una certa dignità e anche un orgoglio.
Così la fiumana del tempo ha disceso i secoli: quest’opera segue fedelmente attraverso i documenti le varie fasi e le metamorfosi dove i Manescalchi passano anche attraverso la mobilità sociale a modi diversi di vita mutando poderi e attività, passando dai campi alle forge e alle tenaglie, rivelando un’inquietudine positiva verso modi migliori di vita, e il cognome ne è un eloquente documento.
La piena della narrazione, portando con se tutti gli elementi della vita passata, fa rivivere anche mediante la vivacità delle immagini, di cui il testo, come quello citato del Trotta, è ricchissimo, dei reperti, delle descrizioni: tutti quei particolari di cui la storia, per una malintesa essenzialità e serietà della ricognizione, non si cura o quasi, ma alla resa dei conti sono la parte più consistente e interessante per afferrare lo spirito di un tempo, d’un nodo storico. Sono appunto le usanze, le ritualità, i canti, le ricorrenze, le credenze, i modi con cui ad esempio si arrivava a un matrimonio, con le forme obbligate, le parti di ciascuno alle quali non erano ammesse deroghe.
Le vicende approdano infine ai tempi recenti dove la ricostruzione storica cede il posto ai ricordi, alle memorie, alle fotografie che documentano molto bene il violento trauma dell’avvento della società industriale, la cancellazione di una qualità della vita, operazione di soppressione anestetizzata e nascosta dall’offerta d’indubbi miglioramenti materiali e vantaggi sociali prodotti dalle nuove forme di produzione, che cambiavano i rapporti di convivenza con l’automazione, la meccanizzazione e l’organizzazione razionale del lavoro, ma che chiedevano in cambio grosse rinunce, come la scomparsa del lavoro a domicilio sostituito da quello di fabbrica.
Un grande affresco e una saga dunque, scaturiti da una scommessa: che il lavoro paziente di indagine storica potesse ricostruire la vita di un’umile dinastia attraverso i secoli, illuminandone le vicissitudini con la documentazione delle carte e dei reperti.
[1] Richiama alla mente un celebre studio di Vittorio Sereni (1907-1977) Storia del paesaggio agrario italiano, in cui, attraverso l’iconografia, si ricostruiscono le varie fasi storiche che hanno segato nei secoli la società con le sua strutture, le sue crisi, le invasioni e le metamorfosi.
[2] 2 voll. Masso delle Fate Firenze 2017. Il lavoro verte sullo stesso tema con grande apertura sul paesaggio l’edilizia storica, le opere d’arte custodite nelle varie località, o che a queste hanno riferimento. Le due opere, ricche di una copiosa e accurata iconografia, permettono una ricognizione geografica e storica del territorio e del periodo percorso dagli spostamenti della famiglia.