FRANCO MANESCALCHI – ELISA GRADI, POESIA TOSCANA DEL ‘900, CON ILLUSTRAZIONI DI ALDO FRANGIONI

Da Nuova Antologia, aprile/giugno 2007

 

L’elegantissima cartella raccoglie i testi poetici di quarantuno poeti toscani a fronte di altrettante illustrazioni di Aldo Frangioni. La prefazione è di Franco Ma­nescalchi, egli stesso autore di rilievo ma che da anni antepone a se stesso – con un lavoro enorme, accurato, assolutamente obiettivo – l’intento di far conoscere e storicizzare la poesia toscana del secondo Novecento anche per fronteggiare la non sufficiente valorizzazione che questa ha subito a livello nazionale.
Del resto – come egli stesso ricorda nella prefazione – nella realtà fiorentina c’è una lunga tradizione di convergenze editoriali ed espositive tra arte e poesia. Già nel 1961, alla galleria «L’Indiano», ebbe luogo una mostra con testi dei mi­gliori scrittori fiorentini illustrati da artisti di valore. Grazie a Manescalchi l’espe­rienza proseguì con una esposizione alla galleria «Il Fiore»; nonché con altre mostre e cartelle d’arte, anche grazie alla collaborazione di Fernando Farulli, basate sull’incontro tra la parola e l’immagine.
Le voci poetiche presenti in questa antologia rappresentano diverse genera­zioni e diverse tendenze; le costanti che le accomunano sono l’estrema serietà della ricerca stilistica e contenutistica, che le sostanzia. Esse inoltre sono tenute insieme – per citare la prefazione – «da un visibile umanesimo che ha radici nell’entità dell’uomo, del suo linguaggio, anche nei più ‘giovani’ in cui sono evi­denti interazioni europee già peraltro insite nei Maestri del Novecento».
Quanto ai disegni che intessono l’antologia, essi costituiscono un vero e pro­prio «racconto» in cui segno e parola s’incontrano, si contaminano, e nel quale reinventano, uniti, un nuovo viaggio fra visibile e immaginario. Ne risulta una sin­tesi efficace, molto suggestiva: e non stupisce dato che Frangioni è un artista molto raffinato che fonda la sua cultura figurativa proprio sul racconto poetico. Fin dagli esordi, infatti, la poesia è stata al centro dei suoi pensieri e ha influen­zato e arricchito il suo itinerario artistico.

Renzo Ricchi

EFFEMERIDI DELLA POESIA CONTEMPORANEA A FIRENZE

Da Attestature: Letteratura italiana tra Novecento e nuovo millennio, Pier Luigi Ferro, Il Ponte Editore, Perugia, aprile 2002

Agli albori degli Anni Settanta è Firenze la città dove con maggiore convin­zione e coerenza si tenta di elaborare l’idea e la prassi di una letteratura che, dando ormai per scontato l’esaurimento della ventata neoavanguardistica con tutto quello che aveva comportato di rifiuto conclamato o mascherato dell’impegno civile, intendeva ritornarvi in modo dichiarato e cosciente. Era necessario però reinventare un linguaggio che non ricalcas­se i moduli neorealistici e che fosse per sua nuova virtù aderente alla realtà di fatto e alla sensibilità letteraria mutate, e per questo la lezione delle neoavanguardie non veniva del tutto accantonata, almeno come stimolo alla consapevolezza teorica e ad operare con lucida e costante sorvegliatezza senza cadere nel facile trabocchetto di un troppo acritico contenuti­smo. Ma si trattava pur sempre […] di tornare alla prevalenza delle cose sulle parole, della comunicazione sull’espressione, dei problemi della polis su quelli individuali.
Così scriveva G. Manacorda riferendosi evidentemente alla sta­gione di «Collettivo R», di «Quartiere», di «Quasi», etc.; ora, per chi volesse gettare uno sguardo non superficiale sugli eventi successivi agli Anni Settanta nel laboratorio fiorentino potrà far riferimento a un recente lavoro come Nostos. Poeti degli Anni Novanta a Firenze, curato da Franco Manescalchi, un intellettuale nato da quella che Ramat chiamò «la piccola scuola luziana» e attivo da oltre un trentennio; dunque nelle condizioni migliori per offrire un disegno ac­curato e corretto dell’attività poetica nell’ambito cittadino dal 1985 ai giorni nostri, come, di fatto, si propone con questa antologia. O potrà rivolgersi al circuito della poesia, minuto rendiconto in pri­ma persona sulle attività di M. Mori per “Ottovolante”, associazio­ne culturale della quale è stato fondatore e presidente dal 1983 al 1987, organizzando nel capoluogo toscano una serie di festival e di incontri che lo hanno reso noto operatore nell’ambito della cosid­detta poesia totale.
L’antologia di Manescalchi, «viaggio postmoderno nei segni della Storia e nell’universo ontologico della poesia», manifesta fin nella sua partizione interna l’intento di non proporsi quale opera selettiva di tendenza, quanto piuttosto come un’attenta ricognizione critica dell’esistente, magari nelle sue manifestazioni meno note e appari­scenti. Se, infatti, contiene anche qualche gustosa sorpresa per il lettore comune – tra tutte, per esempio, le liriche sobrie ed amare di Antonio La Penna, uno tra i nostri massimi latinisti – è sostanzialmente fondata su esperienze di scrittura note al più agli specialisti o solo in ambito locale. Occorre però specificare che la sistemazione critica del materiale, seria e rigorosa per quanto è utile, ossia senza indulgere in accanimenti classificatori, rimanda a categorie che po­trebbero essere adattate alla generalità della produzione nazionale, e ciò, nei fatti, costituisce uno dei maggiori riscontri di merito del­l’operazione, per quanto il curatore si preoccupi di avvertire che «la trama dell’intero palinsesto risente della fragilità delle distinzioni possibili nell’attuale a cui partecipa poeticamente, con l’allusività delle titolazioni interne, tanto più che la scrittura oggi segue itinera­ri individuali più che di gruppo o di tendenza».
Il volume è organizzato su due grandi parti, ciascuna a sua volta suddivisa in quattro sezioni; nella prima «è documentata una linea neolirica dallo stile comunicativo che cerca le sue radici nella Tradi­zione autoctona», essenzialmente nella lezione ermetica, espliciterei, «corroborata da influenze e confluenze moderniste». Le sue prime due sezioni – intitolate rispettivamente II segno lirico e Verso e Verbo – sono abitate da scritture di segno più intimista, nel primo caso, o se si preferisce affidate all’evidenza dell’«esperienza interiore» capace però di riscattare «la dimensione del privato nel prospetto di una possibile catarsi»; nel secondo i versi assumono spesso un taglio più levigato, classicheggiante, dall’andamento talvolta quasi oracolare, data la costante presenza di problematiche spiritualiste, nel segno dell’irrisolta tensione tra essere ed esistere. Nelle ultime due sezioni di questa prima parte — Nel segno del logos e Con-senso orfico — «i poeti escono dal circuito lirico per affidarsi al pensiero poetante a un senso e un consenso orfici connotati dall’univocità del discorso e dal­l’evidenza del dettato». Latamente e con qualche approssimazione è dunque possibile riferire i poeti qui compresi alle esperienze derivate dalla Parola innamorata, su su fino ai mitomodernisti e alla poesia neosimbolistica benché alcuni di essi si pongano su posizioni affatto personali, penso per es. a Fornaretto Vieri nel quale la tensione misti­ca si coniuga a una tendenza al pastiche plurilinguistico, con inserti culti, rapide accumulazioni, tipiche dell’area neosperimentale.
Divide l’antologia una sezione intermedia intitolata L’agorà e la polis, riferita a esperienze di orientamento civile, con «poeti diversi ma aperti all’individuazione di una tematica in cui natura e società sono al centro del discorso poetico», tra i quali si segnala per origina­lità di posizione Evaristo Righi (Vaghi Sto rieri), una sorta di moder­no, ruvido e popolare joculator, ma in bilico tra tradizione orale, citazionismo e modi spavaldamente mutuati dalla poesia culta.
Chiudono il libro le quattro sezioni della seconda parte «in cui l’impegno linguistico si fa più arduo e il significante chiede la cen­tralità del laboratorio», si tratta insomma di scritture meno transiti­ve o affatto autoreferenti, in cui la ricerca sul dato linguistico si fa in ultima analisi preminente, anche se i modi qui presentati offrono davvero un’ampia gamma di cifre stilistiche e di modelli: nella prima sezione (Verso – la langue) si passa da una scrittura materialistica di ascendenza riconosciuta addirittura come leopardiana a modi che denunciano «una delusione storica che giustifica la ripresa epico-lirica», tratto che caratterizza anche in parte i poeti compresi nel terzo gruppo, raccolto sotto la sigla Verso – il significante. La più mescidata tra le sezioni è però forse la seconda (La trasgressione del se­gno) in cui si va dal plastico barocco linguistico di Liliana Ugolini alla franta epigrammaticità di Laura Leoni, allo sperimentalismo iperletterario di Massimiliano Chimenti, forse il più vicino alle re­centi esperienze che si richiamano alla neoavanguardia; mentre un ultimo gruppo di scritture, che appare sotto la sigla de L’oltranza del senso, ospita giovani poeti (E.Beneforti, S.Loria, L.Oldani e G.Trinci) appartenenti al gruppo formatosi sotto la sigla pessoiana «Pioggia Obliqua», la rivista radiofonica di poesia dell’Arci-Nova fondata ne­gli Anni Novanta: a questi «rappresentanti di una poesia reificata nel proprio fissarsi e nel divenire oltre ogni riferimento plausibile» s’ag­giungono L.Giachi e M.Migliarino «ugualmente liberati in un’ol­tranza di senso o per la dominanza lirico-onirica sul dettato o per la tessitura di un linguaggio giunto al limite estremo della metamorfo­si fonico-iconica».
Ultimo frutto di una lunga presenza e di un’intelligente attenzio­ne, ricordiamo se non altro il volume curato con Lucia Marcucci su La poesia in Toscana dagli Anni Quaranta agli Anni Settanta (D’Anna, 1983) o quelli generazional-regionali curati per le edizioni Forum di Forlì (1984/85), Nostos traccia dunque un quadro vivo e piuttosto interessante, sorretto com’è dalla riconosciuta «passione documen­taria, organizzativa e prima ancora maieutica e propiziatoria di Manescalchi», che riesce a interessare anche per le sue generose apertu­re, per la sua disposizione autentica alla valorizzazione di esperienze altrimenti appartate e di scarsa risonanza; e forse questo più ci im­porta, rispetto al lamento per i bei tempi andati o alla perdita di centralità fiorentina, a quell’«ombra di insoddisfazione» e a quell’at­tivismo frutto di una volontà di riscatto, questa sì provinciale se si sostituisse all’urgenza e alla novità delle cose da dire.

Pier Luigi Ferro

LA POESIA DEL NOVECENTO IN TOSCANA: ANALISI E ANNOTAZIONI ARTISTICO-LETTARARIE IN UN VOLUME

Da Puglia, 17 dicembre 2009

Franco Manescalchi non è nuovo a fatiche come il recentissimo reper­torio Poesia del Novecento in Tosca­na, in quanto nel suo itinerario di critico militante bisogna risalire al 1981 quando per le edizioni D’Anna, con Lucia Marcucci, pubblica gli atti del convegno Poesia in Toscana dagli Anni Quaranta agli Anni Sessanta; poi nel 1985, con Alberto Frattini, per la Forum Poeti della Toscana; nel 1997, per le edizioni Polistampa, Nostos; an­cora La città scritta, per i tipi Edifir (2005) e da ultimo Poesia Toscana del Novecento, firmato insieme a Gennaro Oriolo, per le edizioni d’ar­te della Bezuga (2007). Con questo bagaglio d’esperienze alle spalle, que­sto regesto costituisce un punto fermo per una molteplicità di ragioni, fra le quali va ancora una volta riafferma­ta la grande capacità di Manescalchi di aver saputo filtrare con compe­tenza filologica-documentaristica, non­ché semantica-linguistica tutto il mag­matico materiale che negli anni si è sviluppato attorno al fare poesia nella regione. Tutto il lavoro è concentra­to su alcune direttrici di metodo e di valutazione, che per comodità lo stes­so Manescalchi ha racchiuso in cin­que punti: “poeti e poetiche”; “la polis”; “stanze e distanze”; “la poe­sia poematica e l’ars brevis”; “all’om­bra delle muse, voci di fine secolo”. Questo organigramma pone lo stu­dioso in una condizione privilegiata e favorisce l’analisi testuale, cioè accompagnando quasi mano nella mano il percorso dei singoli prota­gonisti. Le direzioni di marcia sono multiple, ma Manescalchi sa tenere bene la rotta, e non si limita a regi­strare quant’anche a indirizzare e scegliere. Ogni capitolo, poi, si arricchi­sce di ulteriori annotazioni e distin­guo per cui nello stesso ambito, ponia­mo, del paragrafo “poeti e poetiche” la temperie si svolge in ambiti diffe­renziati partendo dai “Testimoni del tempo” e passando dalle “Tendenze” e le “Corrispondenze” giungere ai “Confronti”. Questo per dire che Manescalchi non si è limitato a organiz­zare un Novecento sui generis, ma ha puntato sull’organicità dei risultati, cioè le prove scrittorie che nei decen­ni hanno poi finito per divenire con­cretezza e storia letteraria. Manescalchi ha altresì arricchito il suo compendio, offrendo di ogni auto­re un testo poetico, per cui il lettore può benissimo muoversi all’interno delle tante situazioni senza smarrir­si nella giungla storica della critica, anzi può ricercare da solo il senso e le ragioni di una scelta o di una appar­tenenza. E per finire, una lode alla Direzione della Biblioteca Marucelliana, che ha sostenuto la pubblicazione del volume di Manescalchi “che docu­menta, la presenza di un vasto tes­suto letterario” nella regione Toscana.

Angelo Lippo

QUEI GIORNI D’INQUIETUDINE

Da Il Popolo, domenica-lunedì 16-17 febbraio 1986

Da anni Alberto Frattini per­corre idealmente lo Stivale dalle Alpi allo Ionio, come di­rebbe Manzoni, allo scopo di incontrare poeti giovani e non da considerare e da annoverare in quella sorta di grande antologia dell’italica arte poetica che viene costruendo in vario mo­do e in tomi successivi, prezioso documento d’una realtà letteraria di questo nostro tempo. Poeta sensibile lui stesso oltre che appassionato studioso di poesia e di questa particolare forma d’espressio­ne maestro accorto dalle cattedre univer­sitarie, egli è testimone singolare del com­piuto in versi e, insieme, sollecitatore di versi da venire, non tanto per amore delle lettere quanto per fede incorruttibile nei valori dello spirito che per tradizione tro­vano efficace strumento di mediazione nel lavoro del verseggiatore. E dopo tanti approdi più o meno appaganti nella pro­pria visione quasi missionaria di tanto viaggiare, approdi via via documentati in altrettanti libri di grande interesse e di uti­lità indiscussa, per invito della Forum, che tiene in vita una specifica collana di volumi dedicala a I poeti della Quinta Ge­nerazione nelle regioni d’Italia, e in compagnia del non meno illustre collega in poesia esegesi e magistero Franco Manescalchi, Frattini è sbarcato adesso nella fertile terra di Dante per indagare e poi documentare sulle realtà dei nostri con­temporanei eredi dell’Alighieri, i più gio­vani e protesi verso il prossimo domani, che si sapeva essere molti e meritevoli del­la massima attenzione. Ne è derivato un nuovo compendio documentario-critico, assai vasto se non proprio completo, arri­vato sui banchi dei librai con il titolo Poe­ti della Toscana nell’ambito della citata serie Forum/Quinta Generazione.
Nel presentare l’antologia i curatori Frattini e Manescalchi precisano innan­zitutto di avere rivolto l’attenzione ai poeti della regione nati fra gli anni 1930 e 1955 e che rappresentano pertanto le voci toscane degli ultimi trenta anni. Co­storo, spiegano poi gli autori, hanno do­vuto fare i conti con realtà ostili alla poe­sia, e il loro discorso si svolge essenzial­mente sul discrimine degli Anni Settanta, in una stagione fortemente permeata di tensioni politiche e sociali e ai spinte rinnovative. Ne discende, affermano i cura­tori del libro a questo punto, che la poesia rappresentata in queste pagine antologiche è poesia passata al condizionante se­taccio della storia, con risultati sempre ri­messi in discussione dagli stessi autori e tuttavia sempre apprezzabili. Apprezza­bili, se non per altro, per il valore indiscu­tibile di documento vivo, e drammatico talvolta, dell’inquietudine di un tempo colmo di fervori e di speranze, ma anche di errori e di amarezze per i giovani e non soltanto per loro. Infatti, Frattini e Manescalchi concludono la presentazione del lavoro con giudizi complessivi, se tali possono essere per un contesto così vasto e eterogeneo, di poesia del malessere, af­fannosamente, forse disperatamente vol­ta alla ricerca d’una condizione opposta, vagamente intravveduta in quella difficile stagione e mai raggiunta. In definitiva, aggiungerei, poesia della speranza, nell’aspettativa, direi ancora, della irrinuncia­bile riappropriazione, da parte del poeta e quindi dell’uomo, di quei valori dello spirito perenne cui per un momento sem­brò si potesse rinunciare. E in ciò risiede, a mio parere, il pregio maggiore di questo lavoro di ricerca e di documentazione let­teraria compiuto, come sempre con luci­dità pari alla passione, da Frattini e, in questo caso, dal collega Manescalchi.

Franco Fano

POESIA IN TOSCANA

Da Altra città, mercoledì 25 settembre 1985

Nell’ambito del progetto varato nel 1979 dalla Forum/Quinta Generazione, diretta da Giampaolo Piccari, che prevede di creare una ‘mappa regionale’ della poesia italiana, è uscita a fine agosto l’an­tologia dei ‘Poeti della Toscana’ (Forlì, pp. 238, L. 18.000). Il volume, curato da Alberto Frattini e da Franco Manescalchi, raccoglie una scelta di liriche di quaranta poeti della Quinta e Sesta generazione, quelli cioè che hanno pub­blicato negli ultimi trent’anni ed offre un ampio panorama di tendenze e stili derivanti da esperienze letterarie di diversa ma­trice. Un’antologia, quin­di, che, pur non potendo essere onnicomprensiva, presenta uno spaccato se­lettivo non condizionato da pregiudizi di poetica, ideologici o metodologici ma privilegia quei poeti che hanno dimostrato di conoscere il senso del nuovo senza rinnegare l’u­mano.
Abbiamo voluto ascoltare dalla viva voce di Franco Manescalchi, operatore culturale (come ama definirsi) critico e poeta lui stesso (ma non antologizzato), quali elementi sono emersi dalla sua indagine sulla poesia toscana e quali i criteri di fondo di questo lavoro. Riguardo ai giovani poe­ti toscani ha parlato nell’introduzione all’antologia di caratteri culturali molto marcati. Può dirci in cosa consistono questi caratteri?
«I giovani poeti toscani sono tutti quanti, volenti o nolenti, poeti della co­municazione letteraria, poeti di rapporto, anche quando si negano la lette­ratura. Ad un recente convegno Paolo Ruffilli, riguardo ai poeti toscani anche della neoavanguar­dia, parlava di struttura chiusa, non dinamica, non destrutturante rispetto alla composizione a sonetto. Secondo me in Toscana ci sono state delle mode e dei modi di rottura che però non hanno procedu­to molto nel senso della costruzione della poesia. Questa tradizionalità, que­sto modo di comporre strofico, poematico, que­ste strutture chiuse debbo­no essere considerate dai giovani poeti un punto di partenza da superare dall’interno, senza rompere cioè le strutture per una sorta di bricolage che poi ci porta fuori dalla comu­nicazione. Se Firenze rap­presenta per i poeti mila­nesi un Sud con dei limiti negativi, che poi in realtà non sono tali, per i poeti del Sud rappresenta invece una linea di sperimenta­zione, laddove sperimen­tare non significa entrare in certi formalismi che, in quanto destrutturano, cre­dono di rinnovare». Come mai in un’antolo­gia di poeti toscani trovia­mo un buon 50% di poeti di importazione come il laziale Ricchi, il siciliano Mezzasalma, il pugliese Baldassarre?
«Credo che Firenze sia città di confine dove ci sono giovani di tutto il mondo: Nord per il Sud, Sud per il Nord. Prima degli anni ’50 in Toscana esisteva una poesia di po­tere, cioè il potere cultura­le generava una poesia che era riconosciuta come tale. Con il salto della società dal tipo contadino a quello industriale (la poesia ha sempre rapporto con queste profonde real­tà), cominciò a nascere qualcosa di più democrati­co: non più la poesia di potere, ma il potere della poesia di nascere dalle persone e dalle cose. Gio­vani come Ricchi, Mezzasalma, Baldassarre che ar­rivavano a Firenze credendo di trovare que­sto grande clima culturale, questa grande lezione, in realtà la trovarono più nelle opere che nelle per­sone. Certamente subiro­no l’influenza dei maestri fiorentini, però rimaneva questa loro componente specifica, quella che io chiamo la componente dello sradicamento e Firenze ha visto radicarsi una nuova cultura proprio attraverso il dolore e la ricomposizione degli sra­dicamenti. Questa è la cosa bella che Firenze ha ritrovato: se non é più centro di potere, è centro di poesia pulsante».
Che senso dare al pro­getto della Forum di sud­dividere la poesia per re­gioni?
«No so quale sia l’inten­zione di Piccari, ma penso che questa esplorazione sia giusta perché anzitutto realizza sulla pagina presenze che finora sono state sempre ai margini, fa riemergere onestamente sopra il pelo dell’acqua certe voci per un dibatti­to. Tra i poeti che ho antologizzato ce ne sono alcuni di alta levatura che l’editoria e la critica non hanno rilevato per una sorta di nazismo delle idee. Basti pensare che in Toscana negli ultimi 40 anni non un solo poeta è stato definito ufficialmen­te dalla critica e dall’edi­torìa ed io non credo che in 40 anni non sia potuto nascere e formarsi un poe­ta. I pochi che sono riu­sciti a raggiungere una notorietà più o meno grande, come Viviani, Pi­gnotti, Ramat sono dovuti fuggire da Firenze e dalla Toscana. Poi naturalmen­te, sul piano più propria­mente poetico, ogni regio­ne ha delle caratteristiche ben precise, anche se poi in poeti di altre aree re­gionali, come le Marche, l’Umbria, la Basilicata, sento lo stesso nostro amore e umore verso la terra, le case e le cose. D’altra parte viviamo in un paese aperto, di in­fluenze reciproche, e se è vero che in poeti come Ricchi e Baldassarre è ri­conoscibile la lezione rice­vuta dalla poesia toscana, la paratassi di Onore del vero e di Primizie del deserto di Luzi, è pure vero che nella scrittura della fiorentina Bettarini o del senese Lolini si ricono­scono componenti di scuola romana. Resta che la Toscana ripropone quella misura, detta anche ‘professoralita della poe­sia’, che credo sia una misura giusta: la comuni­cazione di quel dentro che si è salvato».
Definisce la Quarta e Quinta generazione di poeti ‘ge­nerazioni del malessere’. Cosa intende dire? «Le nostre generazioni hanno due radici ‘aeree’: una è quella della guerra, una faglia tellurica che è rimasta in chi allora era ragazzo; quindi la brusca esplosione della civiltà tecnologica e del capitalismo che ha inserito un secondo malessere a quello preesistente. Le nostre mani non sono tecnologiche, sono portate agli alberi. Abbiamo un piede sulla terra e uno sul cemento e molto divaricanti, necessariamente ne deriva del malessere. Un malessere che dobbiamo portare con coraggio e verità perché è quello che ci caratterizza. Per chi è nato dopo il ’40 c’è il malessere di una società che poggiava il proprio ottimismo su un benessere di vernice, ed era necessario perché po­tesse nascere un benessere diverso, quello che, a mio avviso, la poesia di questi anni sta costruendo. Oggi il poeta noti si interessa più delle varie scuole, del di fuori, ma dice tutto ciò che sente e sente di dover dire delle cose necessarie: parla di emarginazione, della pace, del movimento per la vita. Il suo è diventato un discorso che va a recuperare delle veri­tà che possono servire a tutti. Secondo me, vivia­mo uno dei momenti più felici della storia della poesia».
Nella produzione dei poeti toscani sono ricono­scibili i germi di una ripresa, oppure ritiene che ormai la cultura fiorentina sia relegata in un’area marginale?
«Penso che Firenze sia uno dei capisaldi della poesia in Italia. Ha vera­mente un contesto di ope­ratori culturali fra i più ricchi d’Italia e questa antologia vuole appunto essere una provocazione in risposta a chi dice che Firenze è ai margini. È certamente al margine di quella che è la cultura di potere, dei grandi editori, ma è veramente marginale solo chi non ha un’etica, chi non ha un substrato umano, chi fa soltanto professione di cultura con intenzioni di potere. L’ombelico del mondo è pur sempre l’uomo e mol­ti tra i poeti da me anto­logizzati hanno eticamente ben più di un merito».

Matilde Jonas

DALLA LIRICA NEOPLATONICA AI VERSI SPERIMENTALI

Da L’osseravtore romano, mercoledì 22 luglio 1998

Nella complessità quasi pulviscolare della produzione poetica di oggi è assai difficile individuare perfino le moltepli­ci linee di tendenza, raccogliere e docu­mentare l’esistente, mettere insieme an­tologie e storie letterarie che possano fornire un quadro completo e appagan­te della situazione, dello status della poesia.
Ci aveva, sì, tentato, con esiti notoriamente importanti, uno storico e critico letterario come Stefano Lanuzza (Lo sparviero sul pugno – guida ai poe­ti italiani degli Anni Ottanta, Spirali, 1987) ormai più, di dieci anni fa, ma quasi per attestare, insieme, l’impossi­bilità dell’impresa.
È difficile pensare che in questa sterminata, fluviale produzione «sommer­sa» vi sia qualche Rimbaud o un Leo­pardi, e neppure, forse, un Parini. E tuttavia qualche dubbio è legittimo, se è vero che ormai gli storici della lette­ratura, gli antologisti, i curatori e com­pilatori di guide e repertori sembrano cedere alla tentazione di lasciare sem­pre le cose come stanno, di raccogliere il già noto, di scegliere ciò che viene, in qualche misura, imposto dalle camaril­le, dalle consorterie, dalle piccole o grandi mafie letterarie, dall’industria culturale, dall’establishment e, insom­ma, dai piccoli e grandi poteri che det­tano la loro legge e impongono i «loro» nomi, cancellando ogni altro che non rientri nelle loro grazie e simpatie.
Talvolta lo ignorano senza colpa, tanto vasta e, anzi, imponente è la pro­duzione di questi anni e perciò tanto più difficile la ricerca e la scoperta de­gli autori validi, delle opere durevoli. Ma la ricerca degli autori e la scoperta dei testi è il lavoro fondamentale dello storico della letteratura: guai se non lo fosse. Ma, oggettivamente, quasi mai lo è. Escono, perciò, a ritmo continuo, or­mai quasi in parallelo ai testi che via via si pubblicano, antologie e storie let­terarie che si riproducono per parteno­genesi o sarebbe meglio dire sulla falsa­riga delle precedenti, di cui riproduco­no nomi e giudizi pressoché identici, così che è difficile ricordare a chi deb­ba ascriversene il catalogo.
È mai possibile che nessun antologista, nessuno storico della letteratura sia sfiorato dal dubbio? È mai possibile che il tempo, supremo giudice, non im­ponga una considerazione diversa di opera e autori? A questo punto i casi sono due: o gli antologisti e quant’altri si decidono a raccogliere questi materiali operando una scelta rigorosa, selezionando i nomi e facendo onore alle antologie (e alla loro floreale etimologia); oppure operando una raccolta indiscriminata di tutto l’esistente, lasciando che i critici futuri facciano la loro scelta, quando i tempi saranno maturi per una selezione sottratta, fi­nalmente, alle mode del tempo e degli uomini.
In questo senso va, mi pare, un fitto e ricco repertorio (Nostos poeti degli Anni Novanta a Firenze — a cura di Franco Manescalchi — introduzione di Marco Marchi — Ediz. Polistampa Fi­renze, pagg. 283, Lire 30,000) che segue, a dieci anni esatti, quello di Lanuzza, e integra una precedente pubblicazione in quattro volumi (La poesia in Tosca­na) curata da Alberto Frattini e dallo stesso Manescalchi. Nostos è proprio un repertorio (altri, pur essendolo, ne rifiutano il nome) e registra la produ­zione poetica a Firenze negli Anni Novanta ormai giunti quasi a compimen­to.
Il repertorio parte dalla fondamenta­le premessa, che è anche di chi scrive, che «un’antologia di poeti non è… automaticamente, storia della poesia, ma concorre a renderla possibile; ne è — come “storia per exempla” — la base preliminare».
Un lavoro, dunque, propedeutico ad altro da venire, un’opera in progresso di continuo aggiornata (e da aggiornare) e che, insomma, cammin facendo, rac­coglie come fiume che scorre tutte le acque che vi affluiscono e che, più che a intorbidarlo, tendono a illimpidirlo. Ma più ancora sottoscriviamo ciò che Manescalchi scrive in La poesia in To­scana (Forum, Quinta Generazione) e che vale certamente anche per questo suo lavoro di incessante e intrepida ricerca sul campo, ossia l’esigenza di pri­vilegiare «una poesia che sia sempre meno intesa come personale esibizione, raffinato divertimento, esercizio di bra­vura e sempre più come strumento di penetrazione e rivelazione dell’uomo nella sua concreta… realtà; dall’altro il desiderio di tutelare le ragioni della fantasia, indispensabile a illuminare dall’interno quella realtà, salvaguardando l’impegno di autenticità, come via alla rigenerazione radicale dell’uomo…».
Nasce su queste (solide) basi il reper­torio di Manescalchi; su fondamenti umani, mi verrebbe voglia di dire, che diventano, naturalmente, il minimo comun denominatore di tutta questa gran messe di poesia che, proprio in questi Anni Novanta, è andata fermentando come un buon vino nei variegati conte­nitori delle riviste letterarie, soprattut­to, ma anche in tutta una serie di ini­ziative culturali e, più strettamente, let­terarie, supportate volentieri dai nuovi strumenti di comunicazione di massa. Si va dall’esperienza di «Quartiere» che ha avuto proprio in Manescalchi il suo intelligente promotore e diffusore a quella, sempre molto viva dal punto di vista culturale e religioso, dei giovani di Feeria, guidati dall’instancabile Car­melo Mezzasalma. Il repertorio è strut­turato in modo da offrire un ventaglio di proposte che, pur nel comune fonda­mento che s’è detto, privilegiano diver­se e, talvolta, lontane linee di tendenza, dalla poesia (strictu sensu) lirica a quel­la orfica, neoermetica, sperimentale etc. e, insomma, esperienze che attesta­no, se ve ne fosse bisogno, la multidirezionalità della poesia di questi anni. Difficile, se non impossibile, ricordare tutti i nomi. Ma qualche prelievo dalle diverse sezioni bisogna pur farlo, per ri­cordare almeno, tra i più noti e affer­mati, Alberto Caramella, che s’è impo­sto in questi anni all’attenzione nazio­nale col suo Mille scuse pere esistere e poi subito con I viaggi del Nautilus, ap­pena uscito e già subito oggetto di mol­ta attenzione, Sauro Albisani, poeta di forte ispirazione religiosa, cui si deve anche un’approfondita conoscenza di Betocchi; Giovanna Fozzer, che coniuga felicemente limpidezza e profondità; Alessandro Dell’Anno, Gianfranco Cia­batti, Mario Lena, Alba Donati, Paolo Fabrizio Iacuzzi, che fa rivivere il mito in una scansione lirica perfetta, Luca Giachi, prematuramente scomparso ma ben presente con la sua opera, Luigi Oldani, Elisabetta Benforti, padrona, sempre, della “sua” lingua poetica fun­zionante e funzionale, così come Fornaretto Vieri, il cui plurilingusimo si spo­sa a un uso sapientissimo della rima, con grandi effetti di potenziamento del senso. Ho citato un po’ alla rinfusa, af­fidandomi, più che al giudizio, alla me­moria dei nomi e dei versi, ai depositi del cuore, e ben sapendo che tant’altri (Franco, Fontanelli-Lisi, Samà, Salvadori, Trombetti etc.) meriterebbero d’essere citati, au pair. Sono tutti esem­pi che la poesia cammina.

Angelo Mundula

LINEE E TENDENZA DELLA POESIA TOSCANA D’OGGI

Da L’osservatore romano, 14 marzo 1986

 

Il catalogò dei poeti contempo­ranei è tanto folto da richiedere, indipendentemente da ogni giudizio dì qualità, un criterio ordinatore o per lo meno un’ipotesi di classifi­cazione: che può essere di scuola o di gusto, dì orientamento ideolo­gico o di ascendenze culturali, di mezzi espressivi o di destinatari del messaggio, o di qualunque al­tro modulo d’intelligenza che ap­prodi a quel tanto (o a quel poco) di storicizzazione possibile per il secolo affannato e vorticoso in cui viviamo.
Due di questi criteri sembrano oggi prevalere nella conversazione critica, bilanciandosi e compensan­dosi a vicenda: uno è quello diacronico-generazionale, per cui, per esempio la generazione ermetica (che visse gli anni tragici ma spi­ritualmente fecondi dell’opposizione al fascismo e della rinascita de­mocratica) è da identificarsi come terza del nostro secolo dopo la crepuseolare-futurista e la rondista-solariana, quella dell’immediato do­poguerra è già stata definita la Quarta e quella della contestazione e del riflusso la Quinta, ed ora ci troveremmo agli incerti margini della Sesta; l’altro criterio è quello diacronico-regionale per cui, pur nell’attuale livellamento dei mass media, spetterebbe alla poesia più che alle altre forme di cultura l’espressione dei legami degli arti­sti, istituzionalmente liberi e ma­gari anarchici, con l’area municipa­le e linguistica in cui maturarono le loro invenzioni.
Entrambi i criteri hanno suscita­to discussioni e riserve. Ma occor­re prendere atto che, tra i mille possibili, essi hanno riscosso la più alta frequenza di applicazioni, se non altro per l’impossibilità di togliere alle coordinate diacroniche e sincroniche l’evidente primato lo­gico di disegnare quanto appartie­ne all’uomo. Il criterio generaziona­le è stato dibattuto positivamente da critici come Pampaloni e Macrl; e quanto alla differenziazione regio­nalistica nell’unità della Nazione, essa è stata proclamata con ardore progettuale da Binni e Sapegno fin dal 1968 (Storia letteraria delle re­gioni d’Italia) prendendo poi vigo­re dal convegno degli italianisti a Bari nel 1970, anche se poi non ha avuto i desiderati sviluppi. La du­plice metodologia si ritrova ora sul frontespizio della raccolta an­tologica di Alberto Frattini e Fran­co Manescalchi Poeti della Toscana (Ed. Forum, Forlì 1985, pp. 240, L. 18.000), nonché nei fascoli di Quinta Generazione (mensile di poesia, nn.125-130, novembre 1984-aprile 1985), la rivista forlivese dove i medesimi autori hanno raccolto le poesie e, insieme, le dichiarazioni di poetica dei migliori poeti operanti in Toscana nelle tre genera­zioni del dopoguerra.
Per maggiore chiarezza dirò che l’antologia accoglie testi apparsi nell’ultimo trentennio, di autori cioè nati tra il 1930 e il 1955, che hanno come comun denominatore non tanto l’anagrafe toscana — qualcuno è nato altrove — quanto l’educazione a certi nuclei aggre­gativi espressi da riviste autogesti­te: Quartiere, la più antica, da cui sono germinate Quasi, Collettivo R.., Salvo Imprevisti Hellas, Erba d’Ar­no, tutte radicate ideologicamente nella sinistra di cui hanno espresso di volta in volta il vigore della denuncia civile, il dubbio delle invo­luzioni autoritarie e l’angoscia del fallimento politico. Del fiorentini­smo tradizionale quei periodici e quei poeti hanno accolto (ma non tutti) l’esigenza intellettualistica, il nitore del segno verbale, la carica deformatrice (satirica o autoironi­ca), ma si sono anche aperti ad esperimenti e ricerche extravaganti, criptografiche, antiletterarie.
La linea più marcata, nelle ascen­denze dei giovani, è quella che si riaggancia all’ultimo ermetismo di Luzi e di Bigongiarì: ma i due volti del loro spiritualismo cosmico-religioso nel primo, esistenziale nel secondo si complicano in un vortice di simboli e di sogni in cui si dilata, pur nell’innegabile suggestione del frammento, un ampio margine di gratuità. Scrive Mario Graziano Parri, uno dei più dotati: «… Si ricordi / ognuno alla sua ul­tima cena di spezzare il pane / e assaporarlo nel vino / qualcuno è già designato / al tradimento / vittima-carnefice della speranza / eucaristica luna che solca / la clandestinità della nostra fede ». È un momento religioso, ma quanto lon­tano dalla tensione inquieta e forte che aveva esaltato altre voci della penultima generazione, quelle cioè di un Fabiani, di una Guidacci, di un Barsacchi, e Silvio Bamat, devoto come pochi altri alla poesia (se non altro per un ventennio d’in­tenso lavoro critico e per gli ormai classici volumi su Montale e sugli ermetici) affaccia angoscianti inter­rogativi sulla durata della propria voce, e sui «forti diritti che ha l’afasia, di reimpossessarsi di noi, un bel giorno e senza tanti preavvisi», quando fatalmente «la scrit­tura consumerà le cose / e se stes­sa». Ma di quali gotici incanti è tramata la sua attesa senza speran­za: «L’angelo taciturno del merig­gio / entra nella locanda, contiene / in un’occhiata la luce saliente / dalle stalle polverose, dai pagliai, / squallide insegne del suo ricorso / da un ieri lacunoso e profondo…». Anche la ricerca à rebours di Paolo Manetti verso gli archetipi della vita si tinge d’elegia: «Per quanto lontano scruti nel tempo / fra il mormorio e le ombre del mondo / prima che i mari e la terra si cur­vassero, / la vita non è che un soffio / increspa appena l’immane bacino della materia; / vento le frondi e le stagioni / gli animali in caccia e in amore / le squame l’uomo ».
In questi canzonieri cosi diversi da quelli tradizionali; così lacerati e informi, ma spesso più autentici, qualunque incontro è possibile, anche lo scoppio d’un grido nella classica dimensione ungarettiana: «E se tutto veramente corresse / verso Dio / questo Dio sconosciu­to / improbabile e sperato?». E’ di Renzo Ricchi: e conferma ancora una volta, se mai ve ne fosse bisogno, che il fascino della poesia non consiste nella cifra della rispo­sta, ma nell’apertura infinita della domanda.

Franco Lanza

Questa è il sito del poeta Franco Manescalchi, che è venuto a mancare il 29 settembre 2023.

La famiglia vuole lasciare visibili i contenuti del sito, come testimonianza della sua attività culturale che ha coltivato nel corso di tutta la sua vita fino alla fine.