FRANCO MANESCALCHI – ELISA GRADI, POESIA TOSCANA DEL ‘900, CON ILLUSTRAZIONI DI ALDO FRANGIONI
Da Nuova Antologia, aprile/giugno 2007
L’elegantissima cartella raccoglie i testi poetici di quarantuno poeti toscani a fronte di altrettante illustrazioni di Aldo Frangioni. La prefazione è di Franco Manescalchi, egli stesso autore di rilievo ma che da anni antepone a se stesso – con un lavoro enorme, accurato, assolutamente obiettivo – l’intento di far conoscere e storicizzare la poesia toscana del secondo Novecento anche per fronteggiare la non sufficiente valorizzazione che questa ha subito a livello nazionale.
Del resto – come egli stesso ricorda nella prefazione – nella realtà fiorentina c’è una lunga tradizione di convergenze editoriali ed espositive tra arte e poesia. Già nel 1961, alla galleria «L’Indiano», ebbe luogo una mostra con testi dei migliori scrittori fiorentini illustrati da artisti di valore. Grazie a Manescalchi l’esperienza proseguì con una esposizione alla galleria «Il Fiore»; nonché con altre mostre e cartelle d’arte, anche grazie alla collaborazione di Fernando Farulli, basate sull’incontro tra la parola e l’immagine.
Le voci poetiche presenti in questa antologia rappresentano diverse generazioni e diverse tendenze; le costanti che le accomunano sono l’estrema serietà della ricerca stilistica e contenutistica, che le sostanzia. Esse inoltre sono tenute insieme – per citare la prefazione – «da un visibile umanesimo che ha radici nell’entità dell’uomo, del suo linguaggio, anche nei più ‘giovani’ in cui sono evidenti interazioni europee già peraltro insite nei Maestri del Novecento».
Quanto ai disegni che intessono l’antologia, essi costituiscono un vero e proprio «racconto» in cui segno e parola s’incontrano, si contaminano, e nel quale reinventano, uniti, un nuovo viaggio fra visibile e immaginario. Ne risulta una sintesi efficace, molto suggestiva: e non stupisce dato che Frangioni è un artista molto raffinato che fonda la sua cultura figurativa proprio sul racconto poetico. Fin dagli esordi, infatti, la poesia è stata al centro dei suoi pensieri e ha influenzato e arricchito il suo itinerario artistico.
Renzo Ricchi
EFFEMERIDI DELLA POESIA CONTEMPORANEA A FIRENZE
Da Attestature: Letteratura italiana tra Novecento e nuovo millennio, Pier Luigi Ferro, Il Ponte Editore, Perugia, aprile 2002
Agli albori degli Anni Settanta è Firenze la città dove con maggiore convinzione e coerenza si tenta di elaborare l’idea e la prassi di una letteratura che, dando ormai per scontato l’esaurimento della ventata neoavanguardistica con tutto quello che aveva comportato di rifiuto conclamato o mascherato dell’impegno civile, intendeva ritornarvi in modo dichiarato e cosciente. Era necessario però reinventare un linguaggio che non ricalcasse i moduli neorealistici e che fosse per sua nuova virtù aderente alla realtà di fatto e alla sensibilità letteraria mutate, e per questo la lezione delle neoavanguardie non veniva del tutto accantonata, almeno come stimolo alla consapevolezza teorica e ad operare con lucida e costante sorvegliatezza senza cadere nel facile trabocchetto di un troppo acritico contenutismo. Ma si trattava pur sempre […] di tornare alla prevalenza delle cose sulle parole, della comunicazione sull’espressione, dei problemi della polis su quelli individuali.
Così scriveva G. Manacorda riferendosi evidentemente alla stagione di «Collettivo R», di «Quartiere», di «Quasi», etc.; ora, per chi volesse gettare uno sguardo non superficiale sugli eventi successivi agli Anni Settanta nel laboratorio fiorentino potrà far riferimento a un recente lavoro come Nostos. Poeti degli Anni Novanta a Firenze, curato da Franco Manescalchi, un intellettuale nato da quella che Ramat chiamò «la piccola scuola luziana» e attivo da oltre un trentennio; dunque nelle condizioni migliori per offrire un disegno accurato e corretto dell’attività poetica nell’ambito cittadino dal 1985 ai giorni nostri, come, di fatto, si propone con questa antologia. O potrà rivolgersi al circuito della poesia, minuto rendiconto in prima persona sulle attività di M. Mori per “Ottovolante”, associazione culturale della quale è stato fondatore e presidente dal 1983 al 1987, organizzando nel capoluogo toscano una serie di festival e di incontri che lo hanno reso noto operatore nell’ambito della cosiddetta poesia totale.
L’antologia di Manescalchi, «viaggio postmoderno nei segni della Storia e nell’universo ontologico della poesia», manifesta fin nella sua partizione interna l’intento di non proporsi quale opera selettiva di tendenza, quanto piuttosto come un’attenta ricognizione critica dell’esistente, magari nelle sue manifestazioni meno note e appariscenti. Se, infatti, contiene anche qualche gustosa sorpresa per il lettore comune – tra tutte, per esempio, le liriche sobrie ed amare di Antonio La Penna, uno tra i nostri massimi latinisti – è sostanzialmente fondata su esperienze di scrittura note al più agli specialisti o solo in ambito locale. Occorre però specificare che la sistemazione critica del materiale, seria e rigorosa per quanto è utile, ossia senza indulgere in accanimenti classificatori, rimanda a categorie che potrebbero essere adattate alla generalità della produzione nazionale, e ciò, nei fatti, costituisce uno dei maggiori riscontri di merito dell’operazione, per quanto il curatore si preoccupi di avvertire che «la trama dell’intero palinsesto risente della fragilità delle distinzioni possibili nell’attuale a cui partecipa poeticamente, con l’allusività delle titolazioni interne, tanto più che la scrittura oggi segue itinerari individuali più che di gruppo o di tendenza».
Il volume è organizzato su due grandi parti, ciascuna a sua volta suddivisa in quattro sezioni; nella prima «è documentata una linea neolirica dallo stile comunicativo che cerca le sue radici nella Tradizione autoctona», essenzialmente nella lezione ermetica, espliciterei, «corroborata da influenze e confluenze moderniste». Le sue prime due sezioni – intitolate rispettivamente II segno lirico e Verso e Verbo – sono abitate da scritture di segno più intimista, nel primo caso, o se si preferisce affidate all’evidenza dell’«esperienza interiore» capace però di riscattare «la dimensione del privato nel prospetto di una possibile catarsi»; nel secondo i versi assumono spesso un taglio più levigato, classicheggiante, dall’andamento talvolta quasi oracolare, data la costante presenza di problematiche spiritualiste, nel segno dell’irrisolta tensione tra essere ed esistere. Nelle ultime due sezioni di questa prima parte — Nel segno del logos e Con-senso orfico — «i poeti escono dal circuito lirico per affidarsi al pensiero poetante a un senso e un consenso orfici connotati dall’univocità del discorso e dall’evidenza del dettato». Latamente e con qualche approssimazione è dunque possibile riferire i poeti qui compresi alle esperienze derivate dalla Parola innamorata, su su fino ai mitomodernisti e alla poesia neosimbolistica benché alcuni di essi si pongano su posizioni affatto personali, penso per es. a Fornaretto Vieri nel quale la tensione mistica si coniuga a una tendenza al pastiche plurilinguistico, con inserti culti, rapide accumulazioni, tipiche dell’area neosperimentale.
Divide l’antologia una sezione intermedia intitolata L’agorà e la polis, riferita a esperienze di orientamento civile, con «poeti diversi ma aperti all’individuazione di una tematica in cui natura e società sono al centro del discorso poetico», tra i quali si segnala per originalità di posizione Evaristo Righi (Vaghi Sto rieri), una sorta di moderno, ruvido e popolare joculator, ma in bilico tra tradizione orale, citazionismo e modi spavaldamente mutuati dalla poesia culta.
Chiudono il libro le quattro sezioni della seconda parte «in cui l’impegno linguistico si fa più arduo e il significante chiede la centralità del laboratorio», si tratta insomma di scritture meno transitive o affatto autoreferenti, in cui la ricerca sul dato linguistico si fa in ultima analisi preminente, anche se i modi qui presentati offrono davvero un’ampia gamma di cifre stilistiche e di modelli: nella prima sezione (Verso – la langue) si passa da una scrittura materialistica di ascendenza riconosciuta addirittura come leopardiana a modi che denunciano «una delusione storica che giustifica la ripresa epico-lirica», tratto che caratterizza anche in parte i poeti compresi nel terzo gruppo, raccolto sotto la sigla Verso – il significante. La più mescidata tra le sezioni è però forse la seconda (La trasgressione del segno) in cui si va dal plastico barocco linguistico di Liliana Ugolini alla franta epigrammaticità di Laura Leoni, allo sperimentalismo iperletterario di Massimiliano Chimenti, forse il più vicino alle recenti esperienze che si richiamano alla neoavanguardia; mentre un ultimo gruppo di scritture, che appare sotto la sigla de L’oltranza del senso, ospita giovani poeti (E.Beneforti, S.Loria, L.Oldani e G.Trinci) appartenenti al gruppo formatosi sotto la sigla pessoiana «Pioggia Obliqua», la rivista radiofonica di poesia dell’Arci-Nova fondata negli Anni Novanta: a questi «rappresentanti di una poesia reificata nel proprio fissarsi e nel divenire oltre ogni riferimento plausibile» s’aggiungono L.Giachi e M.Migliarino «ugualmente liberati in un’oltranza di senso o per la dominanza lirico-onirica sul dettato o per la tessitura di un linguaggio giunto al limite estremo della metamorfosi fonico-iconica».
Ultimo frutto di una lunga presenza e di un’intelligente attenzione, ricordiamo se non altro il volume curato con Lucia Marcucci su La poesia in Toscana dagli Anni Quaranta agli Anni Settanta (D’Anna, 1983) o quelli generazional-regionali curati per le edizioni Forum di Forlì (1984/85), Nostos traccia dunque un quadro vivo e piuttosto interessante, sorretto com’è dalla riconosciuta «passione documentaria, organizzativa e prima ancora maieutica e propiziatoria di Manescalchi», che riesce a interessare anche per le sue generose aperture, per la sua disposizione autentica alla valorizzazione di esperienze altrimenti appartate e di scarsa risonanza; e forse questo più ci importa, rispetto al lamento per i bei tempi andati o alla perdita di centralità fiorentina, a quell’«ombra di insoddisfazione» e a quell’attivismo frutto di una volontà di riscatto, questa sì provinciale se si sostituisse all’urgenza e alla novità delle cose da dire.
Pier Luigi Ferro
LA POESIA DEL NOVECENTO IN TOSCANA: ANALISI E ANNOTAZIONI ARTISTICO-LETTARARIE IN UN VOLUME
Da Puglia, 17 dicembre 2009
Franco Manescalchi non è nuovo a fatiche come il recentissimo repertorio Poesia del Novecento in Toscana, in quanto nel suo itinerario di critico militante bisogna risalire al 1981 quando per le edizioni D’Anna, con Lucia Marcucci, pubblica gli atti del convegno Poesia in Toscana dagli Anni Quaranta agli Anni Sessanta; poi nel 1985, con Alberto Frattini, per la Forum Poeti della Toscana; nel 1997, per le edizioni Polistampa, Nostos; ancora La città scritta, per i tipi Edifir (2005) e da ultimo Poesia Toscana del Novecento, firmato insieme a Gennaro Oriolo, per le edizioni d’arte della Bezuga (2007). Con questo bagaglio d’esperienze alle spalle, questo regesto costituisce un punto fermo per una molteplicità di ragioni, fra le quali va ancora una volta riaffermata la grande capacità di Manescalchi di aver saputo filtrare con competenza filologica-documentaristica, nonché semantica-linguistica tutto il magmatico materiale che negli anni si è sviluppato attorno al fare poesia nella regione. Tutto il lavoro è concentrato su alcune direttrici di metodo e di valutazione, che per comodità lo stesso Manescalchi ha racchiuso in cinque punti: “poeti e poetiche”; “la polis”; “stanze e distanze”; “la poesia poematica e l’ars brevis”; “all’ombra delle muse, voci di fine secolo”. Questo organigramma pone lo studioso in una condizione privilegiata e favorisce l’analisi testuale, cioè accompagnando quasi mano nella mano il percorso dei singoli protagonisti. Le direzioni di marcia sono multiple, ma Manescalchi sa tenere bene la rotta, e non si limita a registrare quant’anche a indirizzare e scegliere. Ogni capitolo, poi, si arricchisce di ulteriori annotazioni e distinguo per cui nello stesso ambito, poniamo, del paragrafo “poeti e poetiche” la temperie si svolge in ambiti differenziati partendo dai “Testimoni del tempo” e passando dalle “Tendenze” e le “Corrispondenze” giungere ai “Confronti”. Questo per dire che Manescalchi non si è limitato a organizzare un Novecento sui generis, ma ha puntato sull’organicità dei risultati, cioè le prove scrittorie che nei decenni hanno poi finito per divenire concretezza e storia letteraria. Manescalchi ha altresì arricchito il suo compendio, offrendo di ogni autore un testo poetico, per cui il lettore può benissimo muoversi all’interno delle tante situazioni senza smarrirsi nella giungla storica della critica, anzi può ricercare da solo il senso e le ragioni di una scelta o di una appartenenza. E per finire, una lode alla Direzione della Biblioteca Marucelliana, che ha sostenuto la pubblicazione del volume di Manescalchi “che documenta, la presenza di un vasto tessuto letterario” nella regione Toscana.
Angelo Lippo
QUEI GIORNI D’INQUIETUDINE
Da Il Popolo, domenica-lunedì 16-17 febbraio 1986
Da anni Alberto Frattini percorre idealmente lo Stivale dalle Alpi allo Ionio, come direbbe Manzoni, allo scopo di incontrare poeti giovani e non da considerare e da annoverare in quella sorta di grande antologia dell’italica arte poetica che viene costruendo in vario modo e in tomi successivi, prezioso documento d’una realtà letteraria di questo nostro tempo. Poeta sensibile lui stesso oltre che appassionato studioso di poesia e di questa particolare forma d’espressione maestro accorto dalle cattedre universitarie, egli è testimone singolare del compiuto in versi e, insieme, sollecitatore di versi da venire, non tanto per amore delle lettere quanto per fede incorruttibile nei valori dello spirito che per tradizione trovano efficace strumento di mediazione nel lavoro del verseggiatore. E dopo tanti approdi più o meno appaganti nella propria visione quasi missionaria di tanto viaggiare, approdi via via documentati in altrettanti libri di grande interesse e di utilità indiscussa, per invito della Forum, che tiene in vita una specifica collana di volumi dedicala a I poeti della Quinta Generazione nelle regioni d’Italia, e in compagnia del non meno illustre collega in poesia esegesi e magistero Franco Manescalchi, Frattini è sbarcato adesso nella fertile terra di Dante per indagare e poi documentare sulle realtà dei nostri contemporanei eredi dell’Alighieri, i più giovani e protesi verso il prossimo domani, che si sapeva essere molti e meritevoli della massima attenzione. Ne è derivato un nuovo compendio documentario-critico, assai vasto se non proprio completo, arrivato sui banchi dei librai con il titolo Poeti della Toscana nell’ambito della citata serie Forum/Quinta Generazione.
Nel presentare l’antologia i curatori Frattini e Manescalchi precisano innanzitutto di avere rivolto l’attenzione ai poeti della regione nati fra gli anni 1930 e 1955 e che rappresentano pertanto le voci toscane degli ultimi trenta anni. Costoro, spiegano poi gli autori, hanno dovuto fare i conti con realtà ostili alla poesia, e il loro discorso si svolge essenzialmente sul discrimine degli Anni Settanta, in una stagione fortemente permeata di tensioni politiche e sociali e ai spinte rinnovative. Ne discende, affermano i curatori del libro a questo punto, che la poesia rappresentata in queste pagine antologiche è poesia passata al condizionante setaccio della storia, con risultati sempre rimessi in discussione dagli stessi autori e tuttavia sempre apprezzabili. Apprezzabili, se non per altro, per il valore indiscutibile di documento vivo, e drammatico talvolta, dell’inquietudine di un tempo colmo di fervori e di speranze, ma anche di errori e di amarezze per i giovani e non soltanto per loro. Infatti, Frattini e Manescalchi concludono la presentazione del lavoro con giudizi complessivi, se tali possono essere per un contesto così vasto e eterogeneo, di poesia del malessere, affannosamente, forse disperatamente volta alla ricerca d’una condizione opposta, vagamente intravveduta in quella difficile stagione e mai raggiunta. In definitiva, aggiungerei, poesia della speranza, nell’aspettativa, direi ancora, della irrinunciabile riappropriazione, da parte del poeta e quindi dell’uomo, di quei valori dello spirito perenne cui per un momento sembrò si potesse rinunciare. E in ciò risiede, a mio parere, il pregio maggiore di questo lavoro di ricerca e di documentazione letteraria compiuto, come sempre con lucidità pari alla passione, da Frattini e, in questo caso, dal collega Manescalchi.
Franco Fano
POESIA IN TOSCANA
Da Altra città, mercoledì 25 settembre 1985
Nell’ambito del progetto varato nel 1979 dalla Forum/Quinta Generazione, diretta da Giampaolo Piccari, che prevede di creare una ‘mappa regionale’ della poesia italiana, è uscita a fine agosto l’antologia dei ‘Poeti della Toscana’ (Forlì, pp. 238, L. 18.000). Il volume, curato da Alberto Frattini e da Franco Manescalchi, raccoglie una scelta di liriche di quaranta poeti della Quinta e Sesta generazione, quelli cioè che hanno pubblicato negli ultimi trent’anni ed offre un ampio panorama di tendenze e stili derivanti da esperienze letterarie di diversa matrice. Un’antologia, quindi, che, pur non potendo essere onnicomprensiva, presenta uno spaccato selettivo non condizionato da pregiudizi di poetica, ideologici o metodologici ma privilegia quei poeti che hanno dimostrato di conoscere il senso del nuovo senza rinnegare l’umano.
Abbiamo voluto ascoltare dalla viva voce di Franco Manescalchi, operatore culturale (come ama definirsi) critico e poeta lui stesso (ma non antologizzato), quali elementi sono emersi dalla sua indagine sulla poesia toscana e quali i criteri di fondo di questo lavoro. Riguardo ai giovani poeti toscani ha parlato nell’introduzione all’antologia di caratteri culturali molto marcati. Può dirci in cosa consistono questi caratteri?
«I giovani poeti toscani sono tutti quanti, volenti o nolenti, poeti della comunicazione letteraria, poeti di rapporto, anche quando si negano la letteratura. Ad un recente convegno Paolo Ruffilli, riguardo ai poeti toscani anche della neoavanguardia, parlava di struttura chiusa, non dinamica, non destrutturante rispetto alla composizione a sonetto. Secondo me in Toscana ci sono state delle mode e dei modi di rottura che però non hanno proceduto molto nel senso della costruzione della poesia. Questa tradizionalità, questo modo di comporre strofico, poematico, queste strutture chiuse debbono essere considerate dai giovani poeti un punto di partenza da superare dall’interno, senza rompere cioè le strutture per una sorta di bricolage che poi ci porta fuori dalla comunicazione. Se Firenze rappresenta per i poeti milanesi un Sud con dei limiti negativi, che poi in realtà non sono tali, per i poeti del Sud rappresenta invece una linea di sperimentazione, laddove sperimentare non significa entrare in certi formalismi che, in quanto destrutturano, credono di rinnovare». Come mai in un’antologia di poeti toscani troviamo un buon 50% di poeti di importazione come il laziale Ricchi, il siciliano Mezzasalma, il pugliese Baldassarre?
«Credo che Firenze sia città di confine dove ci sono giovani di tutto il mondo: Nord per il Sud, Sud per il Nord. Prima degli anni ’50 in Toscana esisteva una poesia di potere, cioè il potere culturale generava una poesia che era riconosciuta come tale. Con il salto della società dal tipo contadino a quello industriale (la poesia ha sempre rapporto con queste profonde realtà), cominciò a nascere qualcosa di più democratico: non più la poesia di potere, ma il potere della poesia di nascere dalle persone e dalle cose. Giovani come Ricchi, Mezzasalma, Baldassarre che arrivavano a Firenze credendo di trovare questo grande clima culturale, questa grande lezione, in realtà la trovarono più nelle opere che nelle persone. Certamente subirono l’influenza dei maestri fiorentini, però rimaneva questa loro componente specifica, quella che io chiamo la componente dello sradicamento e Firenze ha visto radicarsi una nuova cultura proprio attraverso il dolore e la ricomposizione degli sradicamenti. Questa è la cosa bella che Firenze ha ritrovato: se non é più centro di potere, è centro di poesia pulsante».
Che senso dare al progetto della Forum di suddividere la poesia per regioni?
«No so quale sia l’intenzione di Piccari, ma penso che questa esplorazione sia giusta perché anzitutto realizza sulla pagina presenze che finora sono state sempre ai margini, fa riemergere onestamente sopra il pelo dell’acqua certe voci per un dibattito. Tra i poeti che ho antologizzato ce ne sono alcuni di alta levatura che l’editoria e la critica non hanno rilevato per una sorta di nazismo delle idee. Basti pensare che in Toscana negli ultimi 40 anni non un solo poeta è stato definito ufficialmente dalla critica e dall’editorìa ed io non credo che in 40 anni non sia potuto nascere e formarsi un poeta. I pochi che sono riusciti a raggiungere una notorietà più o meno grande, come Viviani, Pignotti, Ramat sono dovuti fuggire da Firenze e dalla Toscana. Poi naturalmente, sul piano più propriamente poetico, ogni regione ha delle caratteristiche ben precise, anche se poi in poeti di altre aree regionali, come le Marche, l’Umbria, la Basilicata, sento lo stesso nostro amore e umore verso la terra, le case e le cose. D’altra parte viviamo in un paese aperto, di influenze reciproche, e se è vero che in poeti come Ricchi e Baldassarre è riconoscibile la lezione ricevuta dalla poesia toscana, la paratassi di Onore del vero e di Primizie del deserto di Luzi, è pure vero che nella scrittura della fiorentina Bettarini o del senese Lolini si riconoscono componenti di scuola romana. Resta che la Toscana ripropone quella misura, detta anche ‘professoralita della poesia’, che credo sia una misura giusta: la comunicazione di quel dentro che si è salvato».
Definisce la Quarta e Quinta generazione di poeti ‘generazioni del malessere’. Cosa intende dire? «Le nostre generazioni hanno due radici ‘aeree’: una è quella della guerra, una faglia tellurica che è rimasta in chi allora era ragazzo; quindi la brusca esplosione della civiltà tecnologica e del capitalismo che ha inserito un secondo malessere a quello preesistente. Le nostre mani non sono tecnologiche, sono portate agli alberi. Abbiamo un piede sulla terra e uno sul cemento e molto divaricanti, necessariamente ne deriva del malessere. Un malessere che dobbiamo portare con coraggio e verità perché è quello che ci caratterizza. Per chi è nato dopo il ’40 c’è il malessere di una società che poggiava il proprio ottimismo su un benessere di vernice, ed era necessario perché potesse nascere un benessere diverso, quello che, a mio avviso, la poesia di questi anni sta costruendo. Oggi il poeta noti si interessa più delle varie scuole, del di fuori, ma dice tutto ciò che sente e sente di dover dire delle cose necessarie: parla di emarginazione, della pace, del movimento per la vita. Il suo è diventato un discorso che va a recuperare delle verità che possono servire a tutti. Secondo me, viviamo uno dei momenti più felici della storia della poesia».
Nella produzione dei poeti toscani sono riconoscibili i germi di una ripresa, oppure ritiene che ormai la cultura fiorentina sia relegata in un’area marginale?
«Penso che Firenze sia uno dei capisaldi della poesia in Italia. Ha veramente un contesto di operatori culturali fra i più ricchi d’Italia e questa antologia vuole appunto essere una provocazione in risposta a chi dice che Firenze è ai margini. È certamente al margine di quella che è la cultura di potere, dei grandi editori, ma è veramente marginale solo chi non ha un’etica, chi non ha un substrato umano, chi fa soltanto professione di cultura con intenzioni di potere. L’ombelico del mondo è pur sempre l’uomo e molti tra i poeti da me antologizzati hanno eticamente ben più di un merito».
Matilde Jonas
DALLA LIRICA NEOPLATONICA AI VERSI SPERIMENTALI
Da L’osseravtore romano, mercoledì 22 luglio 1998
Nella complessità quasi pulviscolare della produzione poetica di oggi è assai difficile individuare perfino le molteplici linee di tendenza, raccogliere e documentare l’esistente, mettere insieme antologie e storie letterarie che possano fornire un quadro completo e appagante della situazione, dello status della poesia.
Ci aveva, sì, tentato, con esiti notoriamente importanti, uno storico e critico letterario come Stefano Lanuzza (Lo sparviero sul pugno – guida ai poeti italiani degli Anni Ottanta, Spirali, 1987) ormai più, di dieci anni fa, ma quasi per attestare, insieme, l’impossibilità dell’impresa.
È difficile pensare che in questa sterminata, fluviale produzione «sommersa» vi sia qualche Rimbaud o un Leopardi, e neppure, forse, un Parini. E tuttavia qualche dubbio è legittimo, se è vero che ormai gli storici della letteratura, gli antologisti, i curatori e compilatori di guide e repertori sembrano cedere alla tentazione di lasciare sempre le cose come stanno, di raccogliere il già noto, di scegliere ciò che viene, in qualche misura, imposto dalle camarille, dalle consorterie, dalle piccole o grandi mafie letterarie, dall’industria culturale, dall’establishment e, insomma, dai piccoli e grandi poteri che dettano la loro legge e impongono i «loro» nomi, cancellando ogni altro che non rientri nelle loro grazie e simpatie.
Talvolta lo ignorano senza colpa, tanto vasta e, anzi, imponente è la produzione di questi anni e perciò tanto più difficile la ricerca e la scoperta degli autori validi, delle opere durevoli. Ma la ricerca degli autori e la scoperta dei testi è il lavoro fondamentale dello storico della letteratura: guai se non lo fosse. Ma, oggettivamente, quasi mai lo è. Escono, perciò, a ritmo continuo, ormai quasi in parallelo ai testi che via via si pubblicano, antologie e storie letterarie che si riproducono per partenogenesi o sarebbe meglio dire sulla falsariga delle precedenti, di cui riproducono nomi e giudizi pressoché identici, così che è difficile ricordare a chi debba ascriversene il catalogo.
È mai possibile che nessun antologista, nessuno storico della letteratura sia sfiorato dal dubbio? È mai possibile che il tempo, supremo giudice, non imponga una considerazione diversa di opera e autori? A questo punto i casi sono due: o gli antologisti e quant’altri si decidono a raccogliere questi materiali operando una scelta rigorosa, selezionando i nomi e facendo onore alle antologie (e alla loro floreale etimologia); oppure operando una raccolta indiscriminata di tutto l’esistente, lasciando che i critici futuri facciano la loro scelta, quando i tempi saranno maturi per una selezione sottratta, finalmente, alle mode del tempo e degli uomini.
In questo senso va, mi pare, un fitto e ricco repertorio (Nostos poeti degli Anni Novanta a Firenze — a cura di Franco Manescalchi — introduzione di Marco Marchi — Ediz. Polistampa Firenze, pagg. 283, Lire 30,000) che segue, a dieci anni esatti, quello di Lanuzza, e integra una precedente pubblicazione in quattro volumi (La poesia in Toscana) curata da Alberto Frattini e dallo stesso Manescalchi. Nostos è proprio un repertorio (altri, pur essendolo, ne rifiutano il nome) e registra la produzione poetica a Firenze negli Anni Novanta ormai giunti quasi a compimento.
Il repertorio parte dalla fondamentale premessa, che è anche di chi scrive, che «un’antologia di poeti non è… automaticamente, storia della poesia, ma concorre a renderla possibile; ne è — come “storia per exempla” — la base preliminare».
Un lavoro, dunque, propedeutico ad altro da venire, un’opera in progresso di continuo aggiornata (e da aggiornare) e che, insomma, cammin facendo, raccoglie come fiume che scorre tutte le acque che vi affluiscono e che, più che a intorbidarlo, tendono a illimpidirlo. Ma più ancora sottoscriviamo ciò che Manescalchi scrive in La poesia in Toscana (Forum, Quinta Generazione) e che vale certamente anche per questo suo lavoro di incessante e intrepida ricerca sul campo, ossia l’esigenza di privilegiare «una poesia che sia sempre meno intesa come personale esibizione, raffinato divertimento, esercizio di bravura e sempre più come strumento di penetrazione e rivelazione dell’uomo nella sua concreta… realtà; dall’altro il desiderio di tutelare le ragioni della fantasia, indispensabile a illuminare dall’interno quella realtà, salvaguardando l’impegno di autenticità, come via alla rigenerazione radicale dell’uomo…».
Nasce su queste (solide) basi il repertorio di Manescalchi; su fondamenti umani, mi verrebbe voglia di dire, che diventano, naturalmente, il minimo comun denominatore di tutta questa gran messe di poesia che, proprio in questi Anni Novanta, è andata fermentando come un buon vino nei variegati contenitori delle riviste letterarie, soprattutto, ma anche in tutta una serie di iniziative culturali e, più strettamente, letterarie, supportate volentieri dai nuovi strumenti di comunicazione di massa. Si va dall’esperienza di «Quartiere» che ha avuto proprio in Manescalchi il suo intelligente promotore e diffusore a quella, sempre molto viva dal punto di vista culturale e religioso, dei giovani di Feeria, guidati dall’instancabile Carmelo Mezzasalma. Il repertorio è strutturato in modo da offrire un ventaglio di proposte che, pur nel comune fondamento che s’è detto, privilegiano diverse e, talvolta, lontane linee di tendenza, dalla poesia (strictu sensu) lirica a quella orfica, neoermetica, sperimentale etc. e, insomma, esperienze che attestano, se ve ne fosse bisogno, la multidirezionalità della poesia di questi anni. Difficile, se non impossibile, ricordare tutti i nomi. Ma qualche prelievo dalle diverse sezioni bisogna pur farlo, per ricordare almeno, tra i più noti e affermati, Alberto Caramella, che s’è imposto in questi anni all’attenzione nazionale col suo Mille scuse pere esistere e poi subito con I viaggi del Nautilus, appena uscito e già subito oggetto di molta attenzione, Sauro Albisani, poeta di forte ispirazione religiosa, cui si deve anche un’approfondita conoscenza di Betocchi; Giovanna Fozzer, che coniuga felicemente limpidezza e profondità; Alessandro Dell’Anno, Gianfranco Ciabatti, Mario Lena, Alba Donati, Paolo Fabrizio Iacuzzi, che fa rivivere il mito in una scansione lirica perfetta, Luca Giachi, prematuramente scomparso ma ben presente con la sua opera, Luigi Oldani, Elisabetta Benforti, padrona, sempre, della “sua” lingua poetica funzionante e funzionale, così come Fornaretto Vieri, il cui plurilingusimo si sposa a un uso sapientissimo della rima, con grandi effetti di potenziamento del senso. Ho citato un po’ alla rinfusa, affidandomi, più che al giudizio, alla memoria dei nomi e dei versi, ai depositi del cuore, e ben sapendo che tant’altri (Franco, Fontanelli-Lisi, Samà, Salvadori, Trombetti etc.) meriterebbero d’essere citati, au pair. Sono tutti esempi che la poesia cammina.
Angelo Mundula
LINEE E TENDENZA DELLA POESIA TOSCANA D’OGGI
Da L’osservatore romano, 14 marzo 1986
Il catalogò dei poeti contemporanei è tanto folto da richiedere, indipendentemente da ogni giudizio dì qualità, un criterio ordinatore o per lo meno un’ipotesi di classificazione: che può essere di scuola o di gusto, dì orientamento ideologico o di ascendenze culturali, di mezzi espressivi o di destinatari del messaggio, o di qualunque altro modulo d’intelligenza che approdi a quel tanto (o a quel poco) di storicizzazione possibile per il secolo affannato e vorticoso in cui viviamo.
Due di questi criteri sembrano oggi prevalere nella conversazione critica, bilanciandosi e compensandosi a vicenda: uno è quello diacronico-generazionale, per cui, per esempio la generazione ermetica (che visse gli anni tragici ma spiritualmente fecondi dell’opposizione al fascismo e della rinascita democratica) è da identificarsi come terza del nostro secolo dopo la crepuseolare-futurista e la rondista-solariana, quella dell’immediato dopoguerra è già stata definita la Quarta e quella della contestazione e del riflusso la Quinta, ed ora ci troveremmo agli incerti margini della Sesta; l’altro criterio è quello diacronico-regionale per cui, pur nell’attuale livellamento dei mass media, spetterebbe alla poesia più che alle altre forme di cultura l’espressione dei legami degli artisti, istituzionalmente liberi e magari anarchici, con l’area municipale e linguistica in cui maturarono le loro invenzioni.
Entrambi i criteri hanno suscitato discussioni e riserve. Ma occorre prendere atto che, tra i mille possibili, essi hanno riscosso la più alta frequenza di applicazioni, se non altro per l’impossibilità di togliere alle coordinate diacroniche e sincroniche l’evidente primato logico di disegnare quanto appartiene all’uomo. Il criterio generazionale è stato dibattuto positivamente da critici come Pampaloni e Macrl; e quanto alla differenziazione regionalistica nell’unità della Nazione, essa è stata proclamata con ardore progettuale da Binni e Sapegno fin dal 1968 (Storia letteraria delle regioni d’Italia) prendendo poi vigore dal convegno degli italianisti a Bari nel 1970, anche se poi non ha avuto i desiderati sviluppi. La duplice metodologia si ritrova ora sul frontespizio della raccolta antologica di Alberto Frattini e Franco Manescalchi Poeti della Toscana (Ed. Forum, Forlì 1985, pp. 240, L. 18.000), nonché nei fascoli di Quinta Generazione (mensile di poesia, nn.125-130, novembre 1984-aprile 1985), la rivista forlivese dove i medesimi autori hanno raccolto le poesie e, insieme, le dichiarazioni di poetica dei migliori poeti operanti in Toscana nelle tre generazioni del dopoguerra.
Per maggiore chiarezza dirò che l’antologia accoglie testi apparsi nell’ultimo trentennio, di autori cioè nati tra il 1930 e il 1955, che hanno come comun denominatore non tanto l’anagrafe toscana — qualcuno è nato altrove — quanto l’educazione a certi nuclei aggregativi espressi da riviste autogestite: Quartiere, la più antica, da cui sono germinate Quasi, Collettivo R.., Salvo Imprevisti Hellas, Erba d’Arno, tutte radicate ideologicamente nella sinistra di cui hanno espresso di volta in volta il vigore della denuncia civile, il dubbio delle involuzioni autoritarie e l’angoscia del fallimento politico. Del fiorentinismo tradizionale quei periodici e quei poeti hanno accolto (ma non tutti) l’esigenza intellettualistica, il nitore del segno verbale, la carica deformatrice (satirica o autoironica), ma si sono anche aperti ad esperimenti e ricerche extravaganti, criptografiche, antiletterarie.
La linea più marcata, nelle ascendenze dei giovani, è quella che si riaggancia all’ultimo ermetismo di Luzi e di Bigongiarì: ma i due volti del loro spiritualismo cosmico-religioso nel primo, esistenziale nel secondo si complicano in un vortice di simboli e di sogni in cui si dilata, pur nell’innegabile suggestione del frammento, un ampio margine di gratuità. Scrive Mario Graziano Parri, uno dei più dotati: «… Si ricordi / ognuno alla sua ultima cena di spezzare il pane / e assaporarlo nel vino / qualcuno è già designato / al tradimento / vittima-carnefice della speranza / eucaristica luna che solca / la clandestinità della nostra fede ». È un momento religioso, ma quanto lontano dalla tensione inquieta e forte che aveva esaltato altre voci della penultima generazione, quelle cioè di un Fabiani, di una Guidacci, di un Barsacchi, e Silvio Bamat, devoto come pochi altri alla poesia (se non altro per un ventennio d’intenso lavoro critico e per gli ormai classici volumi su Montale e sugli ermetici) affaccia angoscianti interrogativi sulla durata della propria voce, e sui «forti diritti che ha l’afasia, di reimpossessarsi di noi, un bel giorno e senza tanti preavvisi», quando fatalmente «la scrittura consumerà le cose / e se stessa». Ma di quali gotici incanti è tramata la sua attesa senza speranza: «L’angelo taciturno del meriggio / entra nella locanda, contiene / in un’occhiata la luce saliente / dalle stalle polverose, dai pagliai, / squallide insegne del suo ricorso / da un ieri lacunoso e profondo…». Anche la ricerca à rebours di Paolo Manetti verso gli archetipi della vita si tinge d’elegia: «Per quanto lontano scruti nel tempo / fra il mormorio e le ombre del mondo / prima che i mari e la terra si curvassero, / la vita non è che un soffio / increspa appena l’immane bacino della materia; / vento le frondi e le stagioni / gli animali in caccia e in amore / le squame l’uomo ».
In questi canzonieri cosi diversi da quelli tradizionali; così lacerati e informi, ma spesso più autentici, qualunque incontro è possibile, anche lo scoppio d’un grido nella classica dimensione ungarettiana: «E se tutto veramente corresse / verso Dio / questo Dio sconosciuto / improbabile e sperato?». E’ di Renzo Ricchi: e conferma ancora una volta, se mai ve ne fosse bisogno, che il fascino della poesia non consiste nella cifra della risposta, ma nell’apertura infinita della domanda.
Franco Lanza