Le Giubbe Rosse
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RIVISTE DI POESIA DEL SECONDO NOVECENTO A FIRENZE
LA TOSCANA DEI POETI
Di FRANCO MANESCALCHI
LA TOSCANA DEI POETI
1 FIRENZE PERCHÉ
SU E GIÙ PER FIRENZE CON YORICK
DA FIRENZE CAPITALE ALLA RICOSTRUZIONE: DEGLI ANNI SESSANTA:
I poeti hanno una naturale tendenza al nomadismo urbano (Dino Campana: “Me ne vado per le strade/ strette oscure misteriose”; Umberto Saba: “Ho traversato tutta la città”, etc.) perché la città è sinonimo di persona da conoscere e con cui dialogare.
A venti anni amavo anch’io andare “su e giù per Firenze”, tant’è che da questa esprienza nacque un poemetto, “Città e relazione”, dove descrivevo la Ricostruzione del secondo dopoguerra:
“case ferme da secoli, con l’acque/inquinate nei pozzi, mura prossime/sulle demolizioni e fra le colture/qua e là tentate, attecchite nella polvere/ fra sacchi vuoti di calcina e pietre”
Si stava mutando l’assetto urbanistico, qualcosa di analogo agli anni della Firenze capitale d’Italia “ridisegnata” dal Poggi.
E proprio in quel mio peregrinare ebbi modo di trovare, sul banco di un negozio di libri usati, “Su e giù per Firenze” di Pietro Coccoluto Ferrigni (Livorno, 15 novembre 1836 – Firenze, 13 dicembre 1895), grande giornalista, segretario di Garibaldi, uno dei Mille, conosciuto con lo pseudonimo di Yorick figlio di Yorick, con riferimento a Laurence Sterne, che era solito firmarsi Yorick.
Fu una lettura che mi permise di fare due viaggi in uno: il presente nello spazio, il passato nel tempo.
Le pagine di Yorick descrivono in tempo reale la costruzione del Viale dei Colli e del Piazzale Michelangiolo: “…un rumore di barrocci che stritolan la ghiaia, un mormorio di voci confuse,un suono d’improperi che si contendono il passo…siamo alla strada Maestra, alla Barriera San Niccolò, nelle strada dell’antico sobborgo ancora ingombro di macerie, di rottami, d’imbarazzi delle recenti demolizioni”.
Sembra proprio di esserci.
Ma certo le parti più belle riguardano lo spettacolo offerto dal nuovo percorso panoramico da cui affacciarsi. Dunque, Yorick si avvia:
“Così, lemme lemme, costeggiando la rupe che mette a nudo, negli strati inclinati, l’ossatura della
montagna sollevata su in alto da qualche forza misteriosa sbucata dalle incandescenti caverne del nocciolo terrestre, sono arrivato al piazzale Michelangiolo.
Qui, sull’ immenso piano che domina tutta la vallata fiorentina, si fermano le carrozze, metton piede
a terra i forestieri,. le liete brigate girano, comprese d’ alto stupore, attorno al colosso di bronzo e alle quattro statue giacenti, – che basterebbero alla fama d’un artista, d’ una nazione, e d’un secolo – e si avvicinano alle balaustrate di ferro che limitano da tre lati il rettangolo della gran terrazza.
Spettacolo sublime… impressione alta e profonda da non esprimersi altro che stando zitti, immobili, intenti, colla faccia dipinta di quel cotal roseo pallore che rivela la maraviglia e tradisce
l’ emozione.”
Infine uno sguardo alla città:
“Giù in fondo alla valle si accendono i mille fuochi della città; il raggio della luna. tinge in azzurro i marmi degli edifizi e le torri de’ palazzi; la lunga fila de’ lampioni per l’immensa curva dell’Arno getta sulla superficie dell’onda increspata una corona di riflessi scintillanti; e sulle tranquille acque del fiume vogano le brune barchette e suonano le allegre note della canzone del renaiuolo.
Con questi pensieri ripiglio placidamente la via, costeggio la vasca sotto le gradinate della Loggia, .mi volgo a destra pel Viale Michelangiolo, e scendo verso la citt.”
E così abbiamo visitato, insieme a Yorick , il Piazzale Michelangelo, nell’anno stesso della sua costruzione.
E dire che l’opera, per l’alto costo, determinò molte polemiche, alle quali lo scrittore rispose con una frase, ancora attuale, che chiude il racconto: “Oh! La Borsa!…un sacchettino dove il danaro si conserva…e un labirinto dove si butta via!”…
PABLO NERUDA A FIRENZE
“Ricorda di ricordare” è una massima ricorrente quando si vogliono salvare, dalla polvere del tempo ad uso del potere, i valori che l’uomo ha costruito o le offese mortali che ha subito.
In questo senso occorre sempre rilevare il significato “originale” di anche di testi celebri, per questo usati a scopo “celebrativo” e non come strumento di conoscenza di trasformazione del mondo.
Così è per la famosa poesia “La città” che Pablo Neruda, esule, dedicò a Firenze nel 1951.
Ciò che importa in quel testo non è tanto l’incontro con la città in quanto ombelico culturale del mondo, bensì col suo sindaco, Mario Fabiani, visto come sintesi di tutte le forze che nel Secondo Dopoguerra avevano ridisegnato il volto dell’Italia, come in altri paesi -compreso quello del Poeta – dove la libertà era interamente da riconquistare.
Ho scelto quindi la parte centrale, il cuore duro e pulsante della “Città”, dove viene cantato l’uomo tout court, capace di liberare la storia dalle incrostazioni.
“Creiamo l’uomo un nuovo cantando”, come scrisse Raphael Alberti, anch’egli a suo tempo ospite di Firenze, pensando alla sua terra e alla sua gente.
Pablo Neruda: La città – a Mario Fabiani
……………………………………..
Tutto dietro la sua testa operaia io indovinai.
Però non era, dietro di lui, l’aureola del passato il suo splendore: era la semplicità del presente.
Come un uomo, dal telaio all’aratro, dalla fabbrica oscura, salì i gradini col suo popolo e nel Vecchio Palazzo, senza seta e senza spada, il popolo, lo stesso che attraversò con me il freddo delle cordigliere andine era lì.
D’un tratto, dietro la sua testa, vidi la neve, i grandi alberi che sull’altura si unirono e qui, di nuovo sulla terra, mi riceveva con un sorriso e mi dava la mano, la stessa che mi mostro il cammino laggiù lontano nelle ferruginose cordigliere ostili che io vinsi.
E qui non era la pietra convertita in miracolo, convertita alla luce generatrice, né il benefico azzurro della pittura, né tutte le voci del fiume quelli che mi diedero la cittadinanza della vecchia città di pietra e argento, ma un operaio, un uomo, come tutti gli uomini.
L’ARNO
Mario Luzi
La poesia ha una lunga frequentazione con l’Arno, dal dantesco “fiumicel che nasce in Falterona” al gioioso “Arno, balsamo fino” di Lapo Gianni, fino all’”Arno a Rovezzano” di Eugenio Montale – prossimo alla Casaccia dei Macchiaioli Telemaco Signorini e Giuseppe Abbati – di cui amo riportare la chiusura crepuscolare: La tua casa era un lampo visto dal treno. Curva/ Sull’Arno come l’albero di Giuda /Che voleva proteggerla. Forse c’è ancora o/ Non è che una rovina. Tutta piena,/ mi dicevi, di insetti, inabitabile./ Altro comfort fa per noi ora, altro/ Sconforto.
Mario Luzi, (La Barca, 1935), ci offre una diversa lettura, tutta interiore, del fiume a cui si accosta come “un povero velato da un sogno” che “sorride di quella sfuggente carezza”.
Per il poeta l’Arno a Bellariva rimarrà punto di riferimento costante, un suo segreto “balsamo fino” quasi ad attingerne la voce.
Un amico, Alessandro, con/versando mi ricorda Hermann Hesse, “il fiume si trova dovunque in ogni istante…” “E quando l’ebbi appreso, allora considerai la mia vita, e vidi che è anch’essa un fiume…”
All’Arno
Sulla sponda che frena il tuo pallore
cercando nel tuo passo profondo
la forza che ti fa sempre discendere
noi sentivamo tremare in cuore
la nostra purezza, senza credervi
più, come un povero velato da un sogno
sorride di quella sfuggente carezza.
L’Arno a Bellariva – Foto di Franco Maniscalchi
CLARA NISTRI: FIRENZE , DAL FIUME ALLE COLLINE
Firenze, con l’Arno che la traversa e i ponti che la inarcano, è città di terra e di cielo, a misura d’uomo, dove è possibile percepire un senso di forte radicamento e, insieme, di improvviso smarrimento.
In tutto ciò agiscono l’incantamento nel doppio proscenio dei colli e, all’opposto, il fiume che, con i suoi ponti, col suo flusso assiduamente invita a soste e traversamenti dando vita a una città sempre in divenire. Non a caso: la città del Fiore.
Le sue piazze, in questo contesto, si pongono come approdi in cui ritrovarsi e da cui ripartire, dal centro alle periferie, per un evento estetico.
Sono luoghi segnati dal tempo e nel tempo, sognati vivi e veri: dove a volte uno sguardo, uno scorcio, un gesto, hanno più valore di una cupola. Sono “luoghi senza tramonto” e rimangono come in un fermo d’immagine.
Clara Nistri, poetessa fiorentina, che si esprime con l’austera affabilità appresa dalla lezione lirica di Luigi Fallacara, ha provato a raccogliere queste emozioni paesistiche in un quaderno, Firenze e me, illustrato dalle chine del Maestro Roberto Ciabani, che ha delineato alcuni tratti della città come in filigrana.
“Luogo senza tramonto” è Piazzale Donatello, posto sulla linea delle antiche mura del lato nord della città, che ha, al centro, il Cimitero degli Inglesi. “Una montagnola/viva di verde/ e bianche tombe/incise dal tempo.”
Simbolicamente, una piccola Spoon river che sfida il tempo perché si dice che per “L’ isola dei morti” Arnold Böcklin abbia preso ispirazione proprio dal Cimitero degli inglesi di Firenze dove fu sepolta sua figlia, ultima a essere interrata, nel 1877. Qui il tempo si è come fermato.
Oltre i viali, l’Arno (“mio fiume./Mia incessante pena” – una sorta di “memoria dell’acqua”) guida l’autrice al di là del Ponte San Niccolò, verso il Viale dei Colli per ritornare a Porta Romana.
Una grande finestra semicircolare sul fiume.
All’inizio, fra sassi bianchi e ciuffi d’erba stenti la poetessa si sente perduta, ma, alzando lo sguardo, si scopre in una interiore accensione perché “dove la valle apre a mezzogiorno la distesa degli orti grida il rosso di un papavero”.
Dal piazzale, l’Arno sullo sfondo, Viale Ariosto e la pescaia di Santa Rosa tratteggiano il percorso nella natura, dove non sai se il muoversi per ombre e fra ombre sia dovuto ai riflessi delle stagioni o all’inquietudine interiore.
Traversato l’Arno, alla “Fortezza da Basso”, il mosso silenzio della fontana accoglie una doppia, contrastante valenza: “un’angoscia d’ombre” e “il cigno bianco” che “svapora nella dissolvenza/della luce.”
Partiti da una piccola Spoon river (“Piazzale Donatello”), abbiamo completato il cerchio aperto verso nord e il viaggio si è rivelato alla fine una sorta di omaggio alla Città, sempre rimanendo infine in unisono
con la “vita che rinasce/dal buio di se stessa./Nuova” nei “fuochi” nella rigeneratrice notte di San Giovanni.
Dunque, oltre alla visitazione dei grandi monumenti e delle grandi opere, vi sono percorsi trasversali, da “trovare” ognuno a suo modo, scanditi dal battito del cuore, in paesaggi aperti su un intarsio di tetti e di cupole.
Notte di San Giovanni -24 Giugno
Appena un alone
di luna
nel silenzio
che avvicina l’alba.
Si fa festa
la notte di San Giovanni.
Un concerto di fuochi
-girandole cascate ritornelli –
meteore cadenti
e risorgenti
dalla propria luce .
o vita che rinasce
dal buio di se stessa.
Nuova
Da Firenze e me, Polistampa, Firenze, 2010
NEL CUORE DI FIRENZE
FRANCO FORTINI
Inizia qui un viaggio nella identità toscana attraverso la poesia che, per quanto abbia poca visibilità, ne è la “carta d’identità” migliore.
Da antico viaggiatore nel cuore di Firenze ho scelto come esempio questa poesia di Franco Fortini dedicata a un chiostro dove , nel silenzio delle pietre, “esita una rosa”. In quelle pietre e in quella rosa il poeta si identifica. Come non ricordare il progetto di Michelucci per una Firenze da riaprire al respiro del tempo e alle sue umanistiche geometrie perché lo sguardo torni ad essere “fluentino”?
In una strada di Firenze
In una strada di Firenze
c’è una porta che dà in un cortile di pietra.
Graffiti antichi sono sulle pareti:
Ercole e l’Idra, Amore, corone di foglie,
allori incisi e roseti.
Non so chi sia nella casa. È come una chiesa tranquilla.
In alto il cielo riposa. Ogni cosa è al suo luogo.
Quando torno a Firenze, se vo per quella strada,
nel cortile entro e guardo:
passano in alto le nuvole naturali,
come monti si ombrano le pareti.
Anche in me stesso quelle nuvole passano,
anche in me stesso stanno quelle pareti.
Per questo guardo e guardo quel silenzio,
le corone di edera antichissime
e credo che una rosa esiti dentro il sasso.
Da Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano, 1959
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), 1917-1994, uno dei maggiori poeti del Novecento, storico della letteratura, ha tradotto Goethe, Proust, Brecht ed altri.
PRATOLINI
Di Vasco Pratolini poeta non c’è traccia in nessuna storia letteraria, eppure egli ha scritto – senza ombra di dubbio – il più bel romanzo in versi del Novecento dedicato negli anni Trenta a Maria Alfani, detta Natascia, di Settignano, la quale conservò e restituì successivamente all’autore quell’inedito, pubblicato col titolo “Il mannello di Natascia” prima nelle edizioni Il catalogo di Salerno, 1980, e poi – insieme ad altri testi – nei libri della Medusa di Mondadori, 1985.
Conservo quasi con devozione copia delle due edizioni che Pratolini – col quale avevo avuto un breve contato epistolare – volle spedirmi con dedica.
“Il mannello di Natascia” – ripeto – è uno dei più bei libri di poesia del nostro tempo, in cui un rapporto d’amore diviene motivo per cantare gli angoli della propria città e anche le prime “scappate” al Mare di Viareggio, il lido di Camaiore e del Forte.
In questo testo Pratolini accosta telegraficamente jn una toponomastica le tappe in Santa Croce.
“E furono baci carezze audaci… vergini tuttavia,/sera e mattina, ruga de’ macci de’ benci de’ pepi/
canto alle rondini corso dei tintori, i ginocchi/scoperti le buccole a pendaglio, arco de’ peruzzi/borgo allegri. ” L’ armonia sta nel contrasto,/benché sempre di stracci odio vestirmi in tinta/unita “, de’ malcontenti delle pinzochere delle/conce delle casine, piazza di santa croce.//La fontana gelata il monumento al Poeta la panchina.”, dove la conclusione che fonde in uno la statua del Poeta e la panchina degli innamorati è un tocco di Vita eternamente giovane.
Poi, la “scappata” al mare visto dal vivo e non in “cartolina”è un altro tocco di vita vivente, oltre che vissuta.
Il MONO Il MARE – “Ho visto finalmente il mare/le sue “onde azzurre e chiare “/non soltanto al cine nei quadri/sui libri ma dal vivo al Lido/di Camaiore a Viareggio al Forte/arrivai a piedi fino al Cinquale/mi tuffai suppergiù all’altezza/di Fiumetto in compagnia di Arrigo/della sua dama d’allora, Rosa, una/di San Frediano, io ho con la Violante/la Viola e il suo padre e sua madre/credevano andata dai nonni a Bivigliano”.
Ma lasciamo al testo “Alba barbaresca” – dove evidente è l’eco asciutta dei versi di Sbarbaro – la definizione che Pratolini ci dà di ciò che lui riteneva essere Firenze.
Città di vicoli che sposano il fiume con i loro lastrici tanto che la vita vi può liberamente circolare; dove le Murate e il fiume fanno da sfondo nell’intrecciarsi fra passato e futuro nella memoria dell’uomo. In un quartiere, quello di Santa Croce, dove bastava il fragore del carretto di un ragazzo per risvegliare il quartiere e devastare la policromia di antiche invetriate.
Ancora una volta, la vita.
Alba sbarbaresca
Firenze è l’ assordante silenzio
di via delle Casine, la magnolia
cresciuta sul renaio, il lastricato
che sposa l’ Arno alle Murate.
E la galera e il fiume,
l’imprevedibile passato
della storia, del nostro
futuro la memoria.
Firenze è questa strada di Santa Croce
assopita negli odori, deserta, entro
la luce invetriata dei colori. Irrompe
un ragazzo col suo carretto e la devasta.
I TETTI DI CARLO BETOCCHI
La poesia di Carlo Betocchi è stata sempre caratterizzata da un legame profondo fra terra e cielo nell’umano divenire del quotidiano. Da qui una voce intima eppure risolta in una squillante monodia.
Il naturale intreccio fra terra e cielo viene da lui configurato in modo esemplare nei versi dedicati ai tetti di Firenze.
Come ha scritto Andrea Zanzotto:”Betocchi resta sempre il poeta dei tetti, delle tegole, motivo che richiama tutta una città-paese coi suoi travagli e i suoi lavori; e insieme resta il poeta del cielo: così «vicino» ai tetti ma anche metafora di ogni diversità. Una creta scabra e faticata si libera e sfugge lungo linee di simmetria e risonanze che guidano a un azzurro dall’inesauribile vigore di verità, di sorpresa.”
Peraltro, gli stessi tetti sono stati cantati da altri grandi poeti, come, ad esempio, Vincenzo Cardarelli, che nel libro di prose Il sole a picco scrive: “Mi levai e apersi la finestra. Incontro a me si ergeva una gran cupola rivestita di mattoni rossi e risplendenti, sopra un monte di tetti e di tegoli del medesimo colore, cotto e arso. […]. A guardarla dall’alto Firenze, dava un senso di mattonaia in combustione e le campane stesse, col loro maschio e furibondo fragore, simili ad enormi campanacci, richiamavano l’idea del fuoco.”
Insomma, l’intarsio dei tetti fiorentini compone una “narrazione” che sarebbe bene evidenziare, di lettura in lettura, di altana in altana, come stupefacente percorso panoramico turistico.
E’ un mare fermo, rosso,
un mare cotto, in un’increspatura
di tegole. E’ un mare di pensieri.
Arido mare. E mi basta vederlo
tra le persiane appena schiuse: e sento
che mi parla. Da una tegola all’altra,
come da bocca a bocca, l’acre
discorso fulmina il mio cuore.
Il suo muto discorso: quel suo esistere
anonimo. Quel provocarmi verso
la molteplice essenza del dolore:
dell’unico dolore:
immerso nel sopore,
unico anch’esso, del cielo. E vi posa
ora una luce come di colomba,
quieta, che vi si spiuma: ed ora l’ira
sterminata, la vampa che rimbalza
d’embrice in embrice…
Da L’estate di San Martino (1951)
ALBERTA BIGAGLI E LA FIRENZE ALTRA
Nonostante Carlo Betocchi sia stato poeta schivo, tenutosi lontano dall’occhio dei riflettori, egli ha forse inciso più profondamente di altri nella storia letteraria e nel tessuto della polis.
La sua opera, in cui si dà voce al destino degli ultimi, affidata a un sermo humilis dove le parole nascono per “fare anima”, ha interpretato i sentimenti di tanti e fruttificato in poeti che possono essere definiti legittimamente suoi discepoli.
Fra questi, per diritto di lunga fedeltà, credo si debba citare innanzi tutto Alberta Bigagli, la quale, per una coincidenza che ha reso il caso non casuale, abita da sempre in un’alta mansarda di via Ghibellina affacciata su un “mare di tetti”: come per il Maestro, i tetti sono un “mare di pensieri” e osservandolo “sembra parlare da una tegola all’altra, come da bocca a bocca” esprimendo “la molteplice essenza del dolore” del cielo medesimo.
Questa telegrafica parafrasi dei tetti betocchiani traccia senz’altro la poetica di Alberta Bigagli, volta a tradurre l’io nel noi, per un’umana catarsi, con una continua volontà di una vita d’insieme salvata nella parola.
Già nel suo primo libro, “L’Amore e altro”, edito da Vallecchi nel 1975, la sua scrittura, sotto forma di prosa poetica, si era fatta, a specchio degli eventi personali, drammatica e forte.
Questo inveramento dall’io al noi era così ultimativo che Alberta Bigagli, con la tecnica “tu parli io scrivo”, cioè registrando interna/mente le voci degli altri, entrò prima in vivo rapporto con i pazienti di San Salvi che frequentavano i corsi espressivi della Tinaia, poi con vecchi dei ricoveri, bambini e ragazzi delle scuole, carcerati, pensionati, o anche persone in cerca di esprimere se stesse, cosicché la poetessa medesima, nel registrarne la parola, dava un senso anche alla propria.
La pietas betocchiana si era fatta pratica di vita, e le “tegole parlanti”, come da bocca a bocca, erano diventate uomini, persone, anime identitarie, come ebbe a definirsi una allieva di Bigagli a San Salvi:”Io, Anna, cioè la mia anima”.
In questo suo lungo portolano in versi spesso prosastici, da “salmo laico”, dal semplice respiro affrancatore, Bigagli evidenzia la vita che si genera dalla vita, la città (con i suoi “angoli sacri”) dalla città, e tutto ciò “salvando” il nostro spazio-tempo, dove molto dell’antico tessuto urbano e umano è andato perduto.
Con questa full immersion, la poetessa ha animato la cultura fiorentina dell’ultimo Novecento, tramite la collaborazione a importanti riviste e Istituzioni e esprimendosi ora sul proprio periodico “Voce viva” .
La città degli angoli sacri
non si sfugge alle povere cose
quelle che fanno grandi le distanze.
La cattedrale ha forse dei giganti
a darle senso o schiere di demoni.
Ma le case le case e i camini
finestre tubi antenne hanno di noi
sono codici chiari nel mistero
consumatrici di umane presenze.
Non pregate guardando ai cimiteri
ma toccando sugli angoli le case.
Io posseggo una croce verde e obliqua
il mio amico la taglia a metà
si legge vòltati vai vedi.
Da Paesaggio mobile, edizione Tabula Fati, Chieti, 1999
AL MERCATO VECCHIO
C’è notoriamente una storia e una magia nelle “erbe” di uso aromatizzante e alimentare,
Sarà per questo che Eugenio Montale, a Forte dei Marmi, scrive: “La venditrice d’erbe viene e affonda / sulla rena la sua mole […]/ Quando mi parla resto senza fiato,/ le sue parole sono la Verità.”
Al Mercato centrale di Firenze la venditrice d’erbe era una “nonnina”; se ne stava fra un banco e l’altro con la sua cesta di “odori” , nell’l’intreccio delle voci alte degli altri venditori.
Pura poesia: “ canarini che ballano!” (polenta fritta), “marma la bocca!”(La cedrata, il gelato), “rompi bambino, rompi!” (il bicchieraio), “ sangue di drago!” (il cocomero)“, “duri alla menta, duri!” gridava il venditore “bastoncini alla menta” e ripeteva “duri” guardando la gente che non si fermava a comprare.
Questi, e tantissimi altri, erano i gridi dei venditori.
Non erano solo folklore, ma anche oggetto di attenzione filologica da parte di molti poeti. Così, per citare, Pascoli in “I due girovaghi” ripete il refrain di due venditori di stacci:” Oggi ci sono/e doman me ne vo…./- Stacci! Stacci!”. E Clemente Rebora, in “Il ritmo della campagna in città”: “- La pesca spaccuore / – che rosolio che sapore”.
Monsignor Giancarlo Setti, presenza di spicco nella vita religiosa fiorentina, come parroco in San Lorenzo, si immergeva nelle voci del “suo” Mercato fino a sentire la necessità di fermarle sulla pagina, in “istantanee” dialettali.
Da qui nasce il sonetto sulla nonnina delle erbe pubblicato nel volume “E sonetti di’ priore”.
In lei si racchiudeva e compendiava magicamente l’antico spirito del Mercato, come ad esempio, cambiando luogo e poeta, nella venditrice di erbe di Montale citata all’inizio, a dimostrazione che poesia in lingua e in dialetto coltivano spesso le stesse figure e rappresentano con eguale dignità, anche se con diversi esiti, le due facce di una stessa medaglia.
La nonnina degli odori
La sta sempre a sede’ su uno scalino
davanti a’ barroccini di verdura
la c ‘ha sempre su’ labbro un sorrisino
con l ‘ aria di chi sfotte e unn’ha paura.
La c ‘ha i’ sedano, gli agli e i’ ramerino
e i’ prezzemolo verde che ti dura,
legato con la sarvia a mazzettino,
anche du’ settimane addirittura.
La passa fra gli udori la su’ vita
questa vecchia donnina di’ mercato
che a compra’ la su’ roba la t’invita.
E io mangiando ‘n casa oppure fori,
l’arrosto o i’ sugo o un brodo prelibato
penso alla mi’ nonnina degli udori.
UGO SOCINI: GENTE DEL DILADDARNO
La poesia vernacolare fiorentina si caratterizza per una tipica ironia, che cela spesso una profonda pietas, evidenziata prevalentemente nella misura bozzettistica del sonetto.
Tale uso dello strumento espressivo, unito al fatto che il nostro vernacolo coincide con la lingua nazionale, ha determinato la totale esclusione di questa poesia da tutti i repertori dialettali del Novecento.
Fu perciò mio impegno, alla fine degli anni Novanta, stimolare Alessandro Bencistà, il nostro più attivo e appassionato ricercatore nell’ambito delle tradizioni popolari, a realizzare – per un risarcimento – l’antologia “Fiorentinacci” (Polistampa, Firenze, 1999) dove è raccolta una produzione esemplificativa di tutto il Novecento, da Luigi Bertelli (detto Vamba) a Bencistà medesimo.
Infatti, anche se nel secolo non sono emerse voci di grande spicco, l’insieme degli autori è recuperabile nel quadro nazionale per “la memoria del comico, del carnevalesco”, per citare lo storico Franco Brevini, che affonda le radici fino al medioevo in tutta la poesia dialettale italiana.
Dunque, dopo avere presentato in questa rubrica Venturino Camaiti, Francesco Boncinelli, Giancarlo Setti, poeti che confermano ciò, è la volta di Ugo Socini, drammaturgo concorrente di Augusto Novellli e poeta che inaugurò la produzione dialettale del Novecento con la raccolta, “Firenze popolare, 20 sonetti in vernacolo fiorentino”, Ducci, 1902
Questa è il suo unico testo in dialetto. Del Socini si conoscono una seconda pubblicazione del 1917, “A Trento e Trieste” ed una postuma, di poesia in lingua, “Sorrisi e lacrime”, curata dai figli.
Anche in lui la voce è così chiara, trasparente, lessicalmente “italiana”, quasi da non avere neppure il bisogno del testo a fronte. L ‘utilizzo di un apparato sintattico preso direttamente dal parlato,
ricco di paragoni, di figure e similitudini universali o popolarissime, si risolve in un pensiero che passa per il cuore tingendosi di amarezza ed irridente ironia.
Il sonetto che abbiamo scelto, di chiara intonazione politica, sembra aprirsi con una citazione del “Quarto potere di Pellizza da Volpedo”, e, dopo un gustoso quadretto del passeggio sul Lungarno, a Ponte Santa Trinita, si conclude con la consapevolezza della gente del Diladdarno di essere classe subalterna (con questa signoria/I cenci stanno male e i’ rigatino/. ..Passiamo i’ pponte, su, veniche via), ma fiera nella propria volontà di riscatto. (Nemmeno a i’ pPadre eterno i’ mi scappello.),
Ni’ ILungarno
Un gruppo d’operai con la giacchetta
Su le spalle vien su da via de’ Fossi,
E sbuca ni’ lLungarno: Ohe, da’ retta
Quanti legni, madame e pezzigrossi!-
E sembra festa -Guarda ‘n bicicretta
Che bocconcino! -Quanti pettirossi!
Qui ni’ ppasseggio un manca la cietta
Co’ i’ ccappellino ‘n testa de la Bossi.-
Vo’ ridehe?. …con questa signoria
I cenci stanno male e i’ rrigatino. ..
Passiamo i’ pponte, su, veniche via. –
T’un vedi e’ viene i’ cconte?..giù i’ ccappello,
Se no si dà nell’occhio a i’ cchesturino
Nemmeno a i’ pPadre eterno i’ m i scappello.
ALLA FORTEZZA
Alberto Frattini
Se nel primo 900 Firenze fu capitale della cultura di grande forza centripeta attraendo scrittori e artisti, il secondo 900, invece, fu segnato da un movimento centrifugo verso città come Roma e Milano dove si era insediato il potere culturale.
E, tuttavia, alcuni poeti della diaspora conservarono una sorta di nostalgia per la città d’origine, manifestandola in singole poesie o addirittura in intere raccolte di versi.
Alberto Frattini, (Firenze 1922 – Roma 2007), è forse il più rappresentativo fra i poeti dell’esodo perché, oltre alla memoria, tenne fede alla lezione di Luzi e Betocchi sviluppata negli anni Trenta nel gruppo del Frontespizio e confermata negli anni Cinquanta sulla rivista La Chimera edita da Vallecchi.
Due le componenti di fondo di questa tendenza: il cattolicesimo come flusso di coscienza mosso da un sentimento ecumenico e una elaborazione stilistica post simbolista.
Alberto Frattini, studioso di prima grandezza dell’opera di Leopardi, aggiunse a ciò una fedeltà alla tradizione mediata attraverso il rondismo di Vincenzo Cardarelli.
Tale rimase in lui l’amore verso la sua città d’origine che volle curare con me il repertorio in quattro fascicoli e uscita presso la casa editrice Forum Quinta generazione.
Io disponevo e dispongo di un notevole archivio bibliografico e in quella collaborazione Frattini manifestò entusiasmo, come se attraverso la scelta e l’accorpamento del repertorio anche tematico, egli rivitasse idealmente la città dei suoi giovani anni.
Non a caso mi dedicò i suoi libri di poesia dichiarandosi “ fiorentino in diaspora ricordando il vento di Firenze”.
Nella sua opera sono frequenti i riferimenti a aspetti della città còlti come stato d’animo e dunque elevati a visione poetica nonostante la marginalizzazione storica in atto.
Già a una prima lettura, fra le sue poesie per Firenze si impone questo suo testo dedicato alla vasca della Fortezza e al fiume, due luoghi dello stare dell’andare, dell’essere e del divenire, ai quali il poeta affida la sua amarezza (Qui ormai non accade più nulla/da secoli…).
E tuttavia, con un geniale colpo d’ala che ricorda l’orfismo di Campana, “Di celeste/malinconia si tingono ora volti/di donna, nel tramonto senza voci.”
Non so se a ciò contribuisse anche la percezione che dava la Fortezza, quando ancora non era attraversata dalle auto, per il sottile contrasto fra la serenità del laghetto e la malinconia del viale dei platani sotto l’alto muro, ma ancora oggi, qui, dove “ormai non accade più nulla”, ha senso provare un sentimento di “celeste/malinconia”, rimasto intatto negli anni.
FIRENZE, PRIMAVERA
Qui ormai non accade più nulla
da secoli, tutto è uguale
e fermo come i grandi abeti
della Fortezza, come il cielo chiaro,
del laghetto tra i platani sereni,
come il fiume, così leggero e triste
sulle rovine, a fiore di corrente;
ma una grazia d’accenti mi ridesta
sangue d’infanzia come un vino lieto.
Qui ormai non accade più nulla
e tutto posa in un dorato sogno,
gloria di tempi andati. Di celeste
malinconia si tingono ora volti
di donna, nel tramonto senza voci.
da « Fioraia bambina » Roma, Edizioni del Canzoniere, 1953
LORENZO BERTOLANI A PASSEGGIO CON DINO CAMPANA
Di solito i poeti hanno almeno due amori: la poesia e….
Lorenzo Bertolani, invece, nel testo Light Lunch (da Opera e destino, Edizioni della Meridiana, Firenze 2004), adombrando La petite promenade du poète di Dino Campana, di cui è studioso e cultore, fa sì che città e poesia siano sinonimi che coincidono in un solo dettato.
In effetti, facendo propria la voce dei grandi poeti si aprono varchi, si creano universi linguisicamente “abitabili” dove è possibile riprenderne il discorso, svilupparlo o, addirittura, con/versare con loro, perché la poesia non è sottoposta a precarietà fisiologica. E ciò dà luogo a uno sviluppo senza iati del poièin.
Bertolani, che presiede l’Associazione Culturale L’Invetriata di Badia a Settimo (in onore di Dino Campana), si è talmente immedesimato nell’opera del poeta di Marradi da mettere in scena una propria drammaturgia poetica “Sibilla Aleramo. Così bella come un sogno”, in cui egli immagina la scrittrice ripensare e rivivere la sua storia d’amore con Dino.
E così, a Campana che inizia la petite promenade “Me ne vado per le strade/Strette oscure e misteriose[…]/Via dal tanfo/Via dal tanfo e per le strade/E cammina e via cammina,/Già le case son più rade.”, Bertolani, sempre riferendosi a Firenze, “risponde”:…da questo sovrarno notturno/vorrei infilzarti /barcollando sulle fiamme/di spalletta in portone/e infilarmi in chiassi e canti/fra tanfo d’intonaco e orina..”
E poi continua: “Città che la lunga fila dei palazzi/affina e avventa alla Falterona/
accogli i passi di chi trafelato ti striscia d’oltrarno,/il nostro sospeso sottobraccio/ beandosi commentando/le pietre che calpestammo e non,/il sole aprico di piazza della Repubblica …”
Qui il “sospeso sottobraccio” rimanda a Tre giovani fiorentine camminano di Campana:
“Ondulava sul passo verginale/Ondulava la chioma musicale/Nello splendore del tiepido sole…”
E in Frammento (Firenze): “…per la via/Calzaioli, le donne erano liete/…/Ed i piedini andavano armoniosi…”
La sospensione del passo, quel “sole aprico” equivalente al “tiepido sole”, e infine la Falterona posta come nume dominante della città, sono evidenti clausole campaniane.
A conferma di tutto ciò, mentre Campana scrive per Sibilla: “I piloni fanno il fiume più bello/E gli archi fanno il cielo più bello/Negli archi la tua figura”, Bertolani nella sua drammaturgia “Sibilla Aleramo. Così bella come un sogno”, fa rispondere a Sibilla medesima: “L’ho amato come il passaggio estremo/che il destino ti pone /perché si compia il tuo destino./ Il mio ricordo, tragico e dorato,/ come lui, come il suo viso…”
Infine, la poesia, come “un’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra”.
Ma nel concludere questo traversamento personale della città, così consapevolmente illuminato dalla grazia apollinea della poesia di Campana, Bertolani si smarca del tutto con un affrancamento etico – lirico, caratteristico di tutta la sua produzione, nel segno della madre, annunciato all’inizio della sua poesia (Città che da questo ponte mia madre/timbrò alla memoria anziché rimirare) e nella memoria di una condivisione sacra di “pane e vino”,. nel Light Lunch di un anno nuovo, con la città – fanciulla, andando oltre il campaniano “odi et amo” che pure lo ha mosso, nella monodia monologante di una voce.
Città che la lunga fila dei palazzi
affina e avventa alla Falterona
accogli i passi di chi trafelato ti striscia d’oltrarno,
il nostro sospeso sottobraccio,
beandosi commentando
le pietre che calpestammo e non,
il sole aprico di piazza della Repubblica
e quel Light Lunch d’inizio d’anno
in cui ci scambiammo, teneramente,
il nostro ultimo, sacro
pane e vino.
DUE PIAZZE A FIRENZE: SAN MARCO, INDIPENDENZA E LE STATUE VISTE DAL BASSO
Le statue stanno sui loro alti piedistalli ad eternare uomini che hanno contribuito a cambiare la Storia, ma chi le vede dal basso non riceve un messaggio didascalico com’era – nel medioevo – dagli gli affreschi di Giotto.
La prospettiva ne ridisegna le proporzioni, l’abbigliamento ne vivifica la rigidità.
Può così accadere che un “colosso” come la statua di Manfredo Fanti, opera di Pio Fedi, posta al centro di Piazza San Marco, sembri dal basso – come ai personaggi di Renato Fucini nel sonetto allegato – poggiata su un basamento troppo esiguo, per un esperto in Strategia, Tattica, Politica, Arte delle fortificazioni; stratega di grandi movimenti di truppe nello spazio, che infine “Nun gli è restato ‘n dove mette’ e’ piedi”.
Oppure può accadere che una nevicata copra la statua di Bettino Ricasoli, in piazza Indipendenza, e spinga alcuni bambini, per gioco, a ”spolverarne le falde” dell’elegante cappotto, come ci consegna in un “fermo d’immagine” la poetessa Annalena Aranguren, cresciuta in una casa col Ricasoli sotto le finestre.
Perché questa è la sorte delle statue: essere ciò che appaiono agli occhi della gente e non soltanto per il motivo per cui sono state scolpite.
In effetti, Manfredo Fanti, figura centrale del Risorgimento italiano, campeggia su una piazza di grandi flussi dove l’arte, la cultura e la poesia sono da sempre di casa, con la l’Università, l’Accademia delle Belle Arti, i Caffè letterari e – a un passo – il Conservatorio musicale; mentre Bettino Ricasoli si staglia nella piazza Indipendenza, da cui partì, appunto, il Movimento per l’indipendenza nazionale, popolata, nella seconda metà dell’Ottocento, dalla gente del quartiere nuovo di Barbano in cui la scultura era una presenza familiare.
E ciò è giusto, perché le statue appartengono agli uomini e non viceversa. Tant’è che in alcuni casi, ma – fortunatamente .- non in questi, subiscono una decapitazione, in effigie, al posto dei Grandi/Criminali che rappresentano.
Renato Fucini – Da “I Sonetti in vernacolo pisano”
xxx.
Davanti ar colosso der Fanti a Firenze.
Pipi. Senti: chi te l’ ha detto o ha fatto ‘r chiasso,
O, viceversa, ènno di gran canaglia;
Perchè lui, con un apisse e ‘r compasso
Vinceva, si por di’, quarsia battaglia.
Lui, vedi, si piantava a capo basso
Sopra ‘na ‘arta ‘om’ una tovaglia
E comandava, ‘nsenza fare un passo:
“Qui cavalli, presempio, e là mitraglia.”
Con cotesta sistema che ‘un par niente,
Lui nun perdeva mai…. Come, ‘un ci ‘redi?
Cispe. Ma scusa, Dio ti mandi ‘n accidente,
O vortati ‘n po’ ‘n su; ma nun lo vedi,
Che con tutto ‘r su’ vince’ a tante gente
Nun gli è restato ‘n dove mette’ e’ piedi?
Firenze,1877.
Annalena Aranguren – Da “Il tempo che ho scritto “
N° 1
Ricordo la neve a piazza indipendenza
l’improvviso silenzio sul cicalìo dei giochi.
Noi bimbe spolverando il cappotto
di bettino ricasoli impolverato.
(Sotto casa – 1963)
Renato Fucini è tanto noto che non importa dire, mentre Annalena Aranguren, nata nel 1958 a Firenze, autrice di quattro quaderni di poesia (Senza pentagramma, 1986, Nei passi l’attesa, 2007, Un’altra luce, 2008, Il tempo che ho scritto, 2001), sorprende per l’originarietà e la freschezza delle immagini a cui affida la parte più essenziale del proprio sentire.
INNOCENZA SCERROTTA SAMÀ, FIRENZE E IL NOSTOS
Innocenza Scerrotta Samà, calabrese, di Catanzaro, da sempre vive una parte dell’anno a Firenze, forse per ammirarla di giorno in giorno e superare così lo shok di un impatto improvviso che può determinare la sindrome di Stendhal, di cui merita evidenziare la celebre frase: “ Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere” .
Per la Scerrotta Samà si è trattato di un soggiorno non superficiale, ma guidato da una ricerca poetica, documentata da una serie di opere che trattano il tema del mito mediterraneo per le quali ha conseguito, nel 2008, il premio internazionale “Le Muse”, attribuito a personalità illustri che si siano particolarmente distinte nel corso della loro carriera, dalla pittura alla letteratura dal cinema al teatro, come Salvatore Quasimodo, Eduardo De Filippo, Alberto Sordi, Ingrid Bergman Mario Luzi, Chagall, Botero, Vittorio De Sica.
Un giusto riconoscimento, per Innocenza Scerrotta Samà (Musa Calliope), perché è una voce alta nella poesia del secondo Novecento ed interpreta perfettamente il nostos che caratterizza Firenze per molti poeti e artisti che vi fanno tappa.
E tuttavia, in un testo dedicato a Firenze, dal libro Il colore del gelso, Polistampa, Firenze, 1995,
la poetessa scrive:
Mi manca la mia piccola città,
il caldo saluto del rione,
stretto alla chiesa e alla fontana,
che si sveglia, cantando, al primo albore
e si addormenta, singhiozzando, a sera.
Mi manca la casa
grande e luminosa,
spalancata sulla verde valle,
sulla linea dei lontani monti.
Così come, al ritorno nella terra d’origine, le mancherà Firenze:
Mi mancherà Firenze
nella mia città,
Santa Maria del Fiore,
Santa Croce
e l’Arno,
il colloquio con opere immortali.
Ma,“dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati”, per citare ancora Stendhal, può accadere che la nostalgia si libri nella catarsi di un “volo” poetico, da un luogo all’altro, come gli “uccelli di mare” di Eugenio Montale che non sostano mai “perché tutte le immagini portano scritto: ”più in là!”.
Infatti la poetessa conclude:
Fortunati gli uccelli
con ali pronte
al luogo che li chiama!
Il ricordo non placa la mia sete
desiderio ardente
accende ove si posa.
FIRENZE COME “APPRODO” DELLA POESIA MEDITERRANEA: GIUSI VERBARO
Solide sono le basi su cui si fonda il rapporto fra Firenze e la poesia che ha radici nel Sud.
Fu Oreste Macrì – fra gli anni Trenta e Cinquanta – a collegare l’ermetismo simbolista dei “fiorentini” con la solarità del mito mediterraneo di Quasimodo, Sinisgalli, Cattafi, Bodini.
Poi, a partire dagli anni Sessanta, Mario Luzi ha aperto generosamente un dialogo dal vivo con poeti delle “nuove generazioni” che facevano capo a Firenze.
Si aggiunga l’assidua tessitura di Giuseppe Zagarrio che ha lasciato documentazione di queste presenze nella storia letteraria “Febbre, furore e fiele” edita da Mursia.
Giusi Verbaro, nata a Catanzaro, importante critico letterario e poetessa a pieno titolo, si muove fra la città d’origine e Firenze ed ha coltivato queste due “patrie” vivendovi e vivendole in modo complementare fino a fonderle sulla stessa faccia di una medaglia dove l’immagine di sé e del mondo evoca un solo canto.
Ciò è confermato da uno stralcio del verbale del Premio Camaiore, assegnatole nel 2008: “La straordinaria immaginazione dell’autrice ricrea ciò che gli occhi del lettore non hanno visto. […] ecco che una via di Firenze come via del Corno, una chiesa come San Miniato al monte, un viale come Viale dei colli, o fiori come ranuncoli e papaveri, o ancora la spiaggia, la scogliera , la luce della luna si traducono in poesia, o meglio in musica dell’anima”.
Luoghi già abitati da un universo di presenze, ormai rese opache dalla nebbia del tempo; ma alcune, più radicate, emergono dal fresco eliso degli anni giovani, sia sulle scogliere calabresi che sui ponti di Firenze e la poetessa le affida a un discorso aperto in cui tutto si muove e commuove, seguendo la lezione “narrativa” di Mario Luzi col quale ebbe una lunga “collaborazione ”, anche per la gestione del Premio Catanzaro.
“Ed è un pulsare/di anime, un vorticare/di pulviscolo acceso/-passi e nomi che tornano -/Nomi e passi che il vento qui riporta,/nell’aura sospesa/della notte d’estate,/restituiti al tempo. Alla memoria..”
E con questo “recitativo” la Verbaro rievoca – con una pienezza di immagine nella splendida sintesi fra evocazione e dissolvenza – un incontro dei suoi anni giovani a/con Firenze.
E così che mi corre incontro un nome.
Uno qualunque. Uno dei nomi persi
per inerzia, per noia. Uno dei tanti nomi
ricoperti da polvere leggera
che ad ogni giro ne ha disperso tracce.
Un nome che balena
soltanto per un attimo: un sussulto
leggero come il frullo di un passero.
Una tenera essenza
sfuggita alla memoria
che il sangue mi recupera
con un battito inquieto. E il nome
poi s’invera
e acquista corpo e voce.
Corriamo sorridendo
sui ponti di Firenze: giovani, senza peso
nè polvere o rimorsi. Strette le mani.
Le parole gelate con i fiati
nell’ottuso rigore di novembre.
L’Arno quasi ghiacciato. Fermo,
di un grigio opaco. San Miniato che lucida
si staglia – bianca nelle sue linee –
dal Viale dei Colli.
Anche se, infine, nella naturale dissolvenza, “la sera scende repentina/nella nebbia d’autunno/e cancella ogni traccia/nel suo tedio.”
Da Solstizio d’estate, Manni editore, Lecce, 2008
CULTURA DAL VIVO
GLI ANNI DI QUARTIERE
Gino Geròla, un “trentino” a Firenze
Ci sono gruppi e movimenti letterari del secondo Novecento a Firenze che già sono entrati di diritto nella Storia della letteratura.
Primo fra tutti il gruppo di Quartiere, che fra il 1959 e il 1968, dette vita a un “laboratorio” per il confronto con la generazione ermetica, con Officina di Pasolini e Fortini e con le neoavanguardie del Gruppo ’63.
Ne derivò un progetto di scrittura a tutto sesto, dai poeti visivi Lamberto Pignotti e Eugenio Miccini, ai neormetici Sergio Salvi e Silvio Ramat, agli epico-lirici Gino Geròla, Giuseppe Zagarrio e il sottoscritto.
Base comune, la fondazione di una Lingua neoletteraria, nata nel contesto dei nuovi codici comunicativi.
Gino Geròla, direttore della rivista Quartiere, aveva una cultura appropriata per coordinare – insieme a Giuseppe Zagarrio – questo movimento. In particolare, sua è la prima tesi di laurea dedicata a Dino Campana, e, fra le numerose opere, si ricorda un libro di profili dal vivo dei poeti fiorentini, da Luzi a Betocchi, (Un editore sette fiorentini, RTE, Firenze, 1987), con i quali aveva stretto vincoli di amicizia e che era solito ospitare, insieme ad altri, nella stagione estiva a Folgaria. Di queste frequentazioni rimane traccia nel suo volume Lungostrada (Longo, Rovereto, 1996).
e su queste mi piace riportare le parole di Geno Pampaloni dall’introduzione a detto volume.
“Una volta sono stato a casa sua, sotto il balcone c’è la piazza del paese. Molti, specie i vecchi, volgono lo sguardo in su, e salutano sorridendo, la sera giocano a carte insieme, bevono qualche bicchiere di vino, parlano della stagione, se fa freddo o fa caldo, e vanno a letto tranquilli, anche se in ogni famiglia c’è qualche dolore, disgrazie, malattie, morti, ma come cose inevitabili nella vita, come la vita stessa.”
Alla fine degli anni Ottanta, dopo una lunga stagione culturale, Geròla, già attivissimo segretario del Sindacato Nazionale Scrittori, deluso dalla involuzione della cultura a Firenze, ormai appiattita nella convenienza di gestire il passato, decise di tornare fra la sua gente, portatrice di una umanità primigenia e, ci auguriamo, futura, alla quale dedicò gli ultimi libri di storia e di memoria.
Ma non si trattava di un abbandono; qualche giorno prima di lasciarci , alla mia richiesta di continuare uno studio sulla storia di Quartiere , “vai avanti tu” concluse nel salutarmi.
Era un invito a non far cadere il testimone. E in effetti, per rispettare l’impegno che l’amico ha profuso nel tempo rimangono da documentare tante “presenze”, anche attraverso la finestra aperta di “Spiriti di materia”.
A conferma di questo suo “viaggio”, alleghiamo un Dittico in cui il poeta descrive, con grande misura etica e stilistica, il tempo della speranza nell’approccio alla città e quello del consapevole ritorno alle radici.
Dittico
Vetrine
Dentro la luminaria delle insegne
in quest’ora che spinge
per le strade un tumulto
invano cerchi sguardi in cui riposi
la tua corsa febbrile.
I negozi blandiscono la sosta
nella sera. Riprende
tra la folla il suo guizzo di ciclista
il piccolo meccanico e sul volto
gli si annuvola un sogno
vietato alla sua sorte.
Da La valle e periferia, Osiride, Rovereto, 2001
Ho bruciato i miei anni sotto i cieli
della città, battuto da un’insana
ricerca. Il mondo atteso s’allontana
da me che ho seppellito dentro veli
di timidezza il cuore: la mia mente
s’è piegata agli sguardi degli amici
dimentica di sé, d’ogni suo dono.
Rompe il vento sui monti. La nascente
gioia che apriva intorno le cornici
del mondo, è ancora faticoso tuono
di rinascita. S’accanisce prono
sui greppi il contadino. Alla mia stanza
sale da te, mia terra, la speranza.
Da La città insonne Edizioni Portodimare, Milano, 1958
I FUTURISTI AL PAGLIANO
Molte sono le esperienze culturali del Novecento che hanno traversato il nostro ambiente o che vi hanno fatto nascere gruppi e tendenze. Ma più spesso sono rimaste incompiute, o si sono affacciate sulle pagine della storia come note in calce; a parte il novecentismo di Rosai, Soffici e, nel secondo dopoguerra, la narrativa sociale di Pratolini e Cassola con, sull’altro versante, la triade ermetica (Luzi, Bigongiari, Parronchi) che deve al magistero di Rosai più di quanto si possa pensare.
E tuttavia Firenze è stata da sempre animata anche da un fervore sperimentale che prese le mosse dal futurismo e che nel secondo dopoguerra fu interpretato dagli astrattisti classici e dai poeti visivi.
Ricordo come Vinicio Berti negli anni Cinquanta, nelle lunghe nottate trascorse con gli amici al caffè della Stazione, opponesse al “masaccismo” dei figurativi una prospettiva dinamica, brunelleschiana nell’impaginare l’opera: due modi di leggere la tradizione, in una città dove gli artisti vivevano anche per strada, con tutto ciò che ne conseguiva…
L’arcinota “Serata futurista” tenutasi nel 1913, al Teatro Pagliano, (che “non riuscì mai a scrollarsi di dosso la fama di luogo rumoroso e chiassoso” -Teatro Verdi, L. Scarlini, G. Vitali) si svolse secondo i canoni “ludici” della pugilarte marinettiana , col pubblico armato di “Patate, carote, cipolle, assafetida, torsoli, acciughe, sardine, uova, pattona, sputi, mele, castagne, pastasciutta, lampadine elettriche, fagioli, ceci, trombe d’automobile, corni, raganelle, chiavi ecc.”. (Lacerba, n° 24, 1913).
Per cogliere gli umori “popolani” di questa “rissa futurista” ho recuperato un sonetto di Venturino Camaiti, poeta e lessicografo vissuto fino agli anni Trenta del Novecento, recentemente riscoperto per la sua “Divina commedia” in dialetto.
Una tesi di laurea, relatore Bruno Migliorini, conservata alla Biblioteca dell’Accademia della Crusca, ne conferma l’eccellenza.
Il sonetto (il primo di una triade) tratta con piglio di faida, fortunatamente, qui, fermato e firmato sulla pagina, della memorabile Serata futurista di cui scrissero, ognuno a suo modo, i principali protagonisti.
Per cogliere gli umori più radicali di questa “tenzone” ho recuperato un sonetto di Venturino Camaiti, poeta e lessicografo vissuto fino agli anni Trenta del Novecento, recentemente riscoperto per la sua “Divina commedia” in dialetto.
Una tesi di laurea, relatore Bruno Migliorini, conservata alla Biblioteca dell’Accademia della Crusca, ne conferma l’eccellenza.
Il sonetto tratta con piglio di faida, fortunatamente, qui, fermato e firmato sulla carta, di una serata futurista al Teatro Pagliano.
I Futuristi al Pagliano
Teatri come quelli unn ‘ho ma’ visti:
gli era pieno anche gli anditi e le scale;
senza potessi movere, un c’ è Cristi,
fitti come l’acciughe tale cale.
Quando si presentonno ‘ futuristi,
si scatenò i’ ddiluvio universale;
e giù mele e patate, a son di fisti,
che un ce n’è tante a i’ mmercato centrale.
Mele francesche, mele lazzerole,
ova, marroni, fichisecchi e noce,
senza pote’ sentire du’ parole.
Noe: pe’ prova’ la nostra educazione,
si doveva ascortare la su’ voce,
poi tiragli le panche ni ggroppone.
GIUSEPPE FAVATI E QUESTA NOSTRA FIRENZE
Per una toponomastica della città
Giuseppe Favati, storico redattore del Ponte di Piero Calamandrei, poeta, narratore, commediografo, grande enigmista, ci ha lasciato due anni orsono.
Affidiamo il suo ricordo a due citazioni lapidarie che danno l’immagine dell’uomo e dell’opera, estratte dal commiato scritto per lui da Marcello Rossi (Il Ponte, dicembre 2009), che più di tutti gli era stato accanto nella gestione del periodico.
“Piú che alla politica, Beppe era però interessato alla letteratura, o meglio a una letteratura politica, ma con forte connotazione sperimentale.”
“Cosí, giorno dopo giorno, discutendo di ciò che accadeva – e il piú delle volte di una realtà che non ci piaceva, e non ci piace – abbiamo trascorso questi ultimi venti anni. Sono sicuro che i prossimi anni, senza di lui, saranno piú bui e piú tristi. E qui mi fermo perché ho paura di cadere nella retorica, e Beppe aborriva la retorica.”
In lui il “pessimismo della ragione” dava luogo all’ossimoro di una frase di Wittgenstein: “seria è la vita, allegra è l’arte” per cui, (com’egli rispose a un mio quesito nell’opera Poeti di Toscana – Quinta generazione, marzo aprile 1985) occorre “tirar fuori la lingua – una propria lingua plurima – dinanzi ai mostri” “con una smorfia feroce e anche divertita”.
La poesia che più volte lesse in pubblico, a partire – non a caso – dall’evento nazionale “La poesia in mostra” tenuto in Piazza Signoria nel 1981, è Per una toponomastica della città, (da “Ameleto, in nome dei padri”, Polistampa, 2000) dove espresse appieno il suo “tirar fuori la lingua plurima dinanzi ai mostri.”
Nel lungo elenco di nomi Favati tocca temi ancora “caldi”, proponendoli causticamente.
L’inquinamento: “Via de’ Decibel/Via degli Ottani […]Via delle camere a gas/ Via Adolf Hitler/ Via della Deposizione dei corpi/ Via dell’ Ascensione del cancro”.
La segnaletica: “Via de’ Divieti/Via de’ Permessi /Via de’ Divieti Permessi[…]Via a doppio senso/
Via senza senso/Via senza uscita/Via INUrbanistica”.
La barbarie politica: “Via degli untori/Viale Colonna/Via della colonna infame”.
La città museale con lo sguardo rivolto indietro: “Viuzzo del museo dei passi perduti”.
Il casuale assemblaggio della gestione pubblica della cultura: “Slargo d’ Annunzio/Salita F. T. Martinetti/Via Leopardi in libertà/Via Leopardi in cattività//Viale Cerchi il passero insù la torre/Circonvallazione passere solitarie //Via Perpetua tonda//Borgo delle città gemellate siamesi/Canto de’ Cantici accantonati”.
La megalo (mania) e la pedonalizzazione: “Via Henry Ford I/Lungofiume Henry Ford Il/Corso Henry Ford III/Parco Ford con grande isola pedonale//Via dell’Isolotto pedonale/Via Isolina de’ Pedoni/Via Isola degli Stinchi Rotti”.
Non rimane, all’homo viator, uscendo dal labirinto delle mura inurbane, che la “via delle scarpe al sole”.
Queste la figura e la poetica di Favati, accennate in breve; e qui anch’io mi fermo, per non cadere nella retorica verso un amico che in ultimo ha chiesto la dignità del silenzio, dopo avere diviso, con tanti di noi, una umanissima “esperienza critica” del quotidiano.
POESIA ARTE E BICI:PRIMO CONTI
Per una bicicletta azzurra
Il linguaggio dell’arte e della letteratura è strettamente connesso con le grandi mutazioni storiche.
Nel primo 900, ad esempio, si tese a uscire dai musei e dalle biblioteche per una full immersion nella vita e nella dinamicità dei linguaggi, e questo anche attraverso “la bicicletta”, considerata come alternativa alla passività degli altri mezzi di locomozione e metafora vincente e avvincente nella voce dei poeti.
Scrisse Alfredo Oriani “Al nuovo poeta (…) parrà, nel tenere la penna, di stringere ancora il manubrio lucido della sua bicicletta”.
Così Stecchetti “cantava”:”Ed io ritmo per te queste parole/in bicicletta, respirando il sole.”, e Pascoli, pedalando: “Ma è bello quest’impeto d’ala”, mentre Campana paragonava a Dioniso il vincitore della tappa del Giro d’Italia terminata a Marradi:”: vola una turba in caccia Dionisos Dionisos Dionisos.”, e Soffici, a San Gervasio, notava, “Un sottotenente lucente,/Bello sulla bicicletta,/Monocolo e sigaretta”.
Ancora, le donne e la bicicletta: Gozzano sosteneva cavallerescamente “la bicicletta accesa d’un gran mazzo di rose” della “bimba” Graziella; sul versante ironico Palazzeschi osservava: “ Una giovane donna in bicicletta./Ve’, come mostra il tondo./Ella si infischia del mondo.”
Il tema dello “Scandalo” venne ripreso da Caproni nell’omonima poesia dedicata alla madre giovinetta: “Per una bicicletta azzurra/Livorno come sussurra (…) /Annina sbucata all’angolo/ ha alimentato lo scandalo/. Ma quando mai s’era vista, / in giro, una ciclista?”
Per concludere con Bigongiari, sul tema delle biciclette abbandonate e della metafora che rappresentano un tema di attualità: “ Lì appoggiata , smontata da un meccanico / celeste, il quale forse non sapeva / rimontarla. Se io lì perdo le peste/non me ne smuovo, se non altro resta/che quel mucchio lucente, uno stellato…”
La bicicletta , oltre che oggetto simbolico, ebbe un ruolo pure come strumento pratico, per quanto non molto comodo, per i contatti fra scrittori. Basta leggere la corrispondenza fra Prezzolini e Papini, il quale avvertiva l’amico di fare attenzione “a non finire in un fosso”; o le prose di Bruno Cicognani e Federico Tozzi, che usavano la bici anche per percorrere grandi distanze, in cui la bicicletta diviene movente narrativo di eventi imprevedibili, come per Tozzi che, coperto di polvere, viene scambiato per un brigante in fuga, o, sul far della notte, come un’ombra demoniaca, col rischio di fare i conti con le forche dei contadini.
Rilette oggi, con l’intelligenza del tempo che muta, alcune affermazioni sull’uso della bicicletta rimangono vive metafore di come si debba sempre contrapporre una “reale” vis creativa all’istituto inerziale delle accademie: “passano più idee per una strada in un giorno che in una università in un secolo” – Alfredo Oriani, o “piuttosto che parlare di letteratura preferisco di andarmene in bicicletta, lasciando agli altri il desiderio di appallottolare parole” – Federigo Tozzi.
Anche nell’arte, la bicicletta per il suo “dinamismo” entra di diritto e la troviamo nelle opere di Duchamp, Boccioni, Depero, Sironi, Dottori, Prampolini, Fillia, fino ad Arman e al fiorentino Alberto Moretti
Ed è appunto ai versi di un artista, Primo Conti, appassionato ciclista, Jarry sceglie la Clément de luxe, che vogliamo affidare la “finestra” di questo numero. Una “finestra” dall’alto, quasi Jarry Clément de luxe, ( “ Con la mia bicicletta nuova/una Bianchi extralusso 1915/pedalo sulla cima dei platani..”) sulla Viareggio della vita popolare, dei poeti e degli artisti di anni ormai mitici.
La poesia è tratta da un quaderno di foglietti manoscritti, La mia vecchia bicicletta nuova, edito da scheiwiller, Milano, 1980, passatomi da Maria Pia Moschini, che ne seguì l’iter redazionale insieme al Maestro.
La bicicletta
Con la mia bicicletta nuova
una Bianchi extralusso 1915
pedalo sulla cima dei platani
qui, sulla piazza del mercato
da cui Viareggio lancia nell ‘ aria già settembrina
i suoi arcobaleni di giornali, giocattoli, scial-
li, tamburi, valige, zoccoli infiorati
e sotto le ruote: che mi portano in volo
come fragili zampe di levriero
i platani son cespi di lattuga
ghiacciata nell’azzurro
E un verde nuovo riaccende
l’antico verde dei tendoni
sospesi su pozze d’ombra oltremarina
che furono di Viani e di
Magni,
di Ceccardo, di Pea, di Levy
Primo Conti
(da Vecchia bicicletta nuova, Scheiwiller, 1980)
BRUNO NARDINI: VERSANTI D’EUROPA
I poeti, quando rivolgono lo sguardo al loro habitat, compiono un’operazione centripeta che va dall’universale al particolare, ma il loro discorso si estende a tutto tondo senza limiti di tempo e di spazio.
Un tema a me caro, che ho trattato nel repertorio “Poesia del Novecento in Toscana, Biblioteca Marucelliana, Firenze, 2009”, è il rapporto con l’Europa come realtà culturale e antropologica che si dilata in ambito latino – americano.
Letterariamente, i poeti della Toscana attraverso le loro riviste, i loro gruppi di lavoro, hanno avuto contatti sistematici con la cultura europea anche nel secondo Novecento. Si pensi, particolarmente, alle
scelte dialettiche di «Quartiere», agli anni di «Ottovolante», quando questo circuito internazionale richiamò a Firenze alcune presenze di spicco da altri paesi; oppure al gruppo di Novecento che ha aperto un dialogo con la poesia francese, per concludere con la fondazione Il Fiore di Alberto Caramella che dette vita a un notevole ciclo d’incontri.
Ma, detto questo, la nostra ricerca si incentra sui versanti d’Europa così come emergono dai testi di poeti che l’hanno visitata, che vi si sono soffermati, che vi hanno vissuto e lavorato.
È un viaggio dal reale all’utopico, dalla notazione lirica all’immaginario riflessivo, dall’impatto storico alla diacronia romantica, dall’elegia all’inno, a seconda di come si vogliano leggere i testi di questi nostri poeti che si sono avventurati in uno spazio così vasto di presenza e memoria. Secondo lo stile, la visione del mondo, la scelta ideologica e altro ancora.
Sono comunque testimonianza di un alto livello letterario e di una capacità singolare di interpretare l’avventura del poeta in una stagione di grandi mutamenti planetari.
Vi è chi si interroga sull’Europa, partendo dalle croci della memoria per un possibile approdo ai crocevia della storia, altri – per esempio – colgono la Spagna, post Guernica, che attende il vento d’Europa o nel suo «duende», in una sorta di nostos ancestrale.
Molti cercano e trovano le radici anche oltre di sé, fra storia e metastoria, in una migrazione spazio–temporale, dove l’Uomo è posto a misura dell’intera umanità.
Fra i tanti, porrei l’attenzione su Bruno Nardini (Scarperia 1921 – Firenze 1990) e sulla sua opzione cristiana.
Egli fu editore, poeta (a mio avviso, una delle voci più pure del nostro tempo), studioso di storia dell’arte e rimane una figura di spicco della vita culturale fiorentina del dopoguerra.
Nei versi finali della poesia pubblicata qui di seguito Nardini esprime tutto il suo epos e il suo pathos e conferma che un poeta europeo deve avere in sé la sua stessa Europa.
“Restiamo qui, fra il nostro camposanto / e la consunta vasca dei battesimi / dove un tempo si chiudeva le porte / ai quattro venti: non esiste Europa / fuori di qui, se non nel nostro amore”. (Da Ballata, Centro Internazionale del libro, Firenze, 1967).
Ritorno
1
Così, un giorno, partii.
Per leggere negli occhi della gente,
nel volto delle case e nelle strade,
lasciai la mia dimora in riva d’Arno
attratto come un pesce alla lampàra
delle grandi metropoli.
Le strade rotte, i devastati campi,
le sconvolte città, torrido spettro
del cadavere ignoto ed insepolto
chiamavo già con parola di pace.
Dicevo “Europa”, e intanto
il suo verace volto
come per segni monitori l’alba
vedevo, nel buio, con occhi felici di pianto.
Oggi altra fede, altra mestizia in cuore.
Restiamo qui, fra il nostro camposanto
e la consunta vasca dei battesimi
dove un tempo si chiudeva le porte
ai quattro venti: non esiste Europa
fuori di qui, se non nel nostro amore.
Da Ballata, Centro Internazionale del libro, Firenze, 1967
IL RISTORANTE DEI POETI
Restaurant MANGER LA LANGUE
Ou « A L’ANGE GOURMAN(D) »
chez/chef Guillaume Apollinaire
cuisinier Franco Manescalchi
Per schiudere la “farfalla della metafora”, come il baco da seta bisogna intanto “mangiare la foglia” di quanto si legge, cioè capire al volo; invece, per entrare nel mondo della poesia bisogna addirittura “mangiare il foglio, la carta.”
Non in modo supercilioso “alla carta”. sconsigliatissimo da Palazzeschi in “La cena degli Infelici”, i quali, di fronte a un menù principesco, “ la bocca serrata,/inarcate le sopracciglia,/senza mai un cenno di meraviglia/guardano il piatto di scorcio.”
Si può mettersi a tavola Chez Apollinaire, al celeste ristorante degli angeli,“A l’ange gourman(d)”, dove, con un anagramma, è possibile manger la langue sotto forma di pietanza divina : “la blanche neige”- “Les anges les anges dans le ciel/L’un est vêtu en officier/L’un est vêtu en cuisiner/et les autres chantent//Les cuisinier plume les oies/Ah! tombe neige. ».
Un piatto “stellare”è “La zuppa di pesce delle stelle” di Majakovskij : “è dio, probabilmente,/ che con un meraviglioso/cucchiaio d’argento” rimesta la zuppa nella conca della luna.
Per chi non ami il pesce Rimbaud suggerisce una ricetta forte: “Si j’ai du goût, ce n’est guère/que pour la terre e les pierres./Je déjeune toujour d’air,/de roc, de charbons, de fer. ” Chi interpreti alla lettera questa ricetta, senza mangiare foglia e foglio, è destinato alla lavanda gastrica.
Tornando a piatti nostrali, Palazzeschi si mostra esperto nell’offrire “metafore” di antipasti e formaggi: leggiamo sul menù “salami e salamini che sono mosaici fini, le acciughe e le salacche sono guerrieri dalle lucide corazze, le file dei formaggi son villaggi soleggiati, dove si può riposare sui cuscini dei pecorini, o passeggiare per i verdi giardini del gorgonzola, mentre dal formaggio –palazzo da granduchi – quello con i buchi tondi e ovali, si affacciano dame medioevali.” Insomma “manger la langue” è un piacere della mente, basta avere fame di poesia…
Anche se poi Palazzeschi, come poeta, nella sua “Casina di cristallo” era frugale, si contentava “dicché c’è c’è” e senza galateo: “Riso e cavolo per desinare …/Mangia la minestra con la forchetta” fra lo scandalo della gente.
Oppure consumava cene minuscole: “Io che fo le mie cene/con un ovo e due frittelline/e me ne avanza,/quanto disgusto provo/al passare d’ogni nuova pietanza…”
Siamo giunti, così, alla frutta.
Clemente Rebora suggerisce: “Pere e mele, e la bell’uva/Moscardella e grignolò:/Tutta la mangia chi ne assaggia un po’! “
Marino Moretti rivede delicatamente il fiore nel frutto: “Fiori già foste…/:or siete pesca e albicocca., /susina e fico alla mensa,/siete il piacer che dispensa/le sue primizie alla bocca…”
Chiudiamo con la celebre mela renetta di Papini: “Mela renetta che mordo/in questo riposo di festa,/adagio, come il ricordo/di dolcezza manifesta…” meglio se staccata direttamente dal ramo della poesia.
E infine, in fatto di dolcezza, il dolce-gelato di Corrado Govoni: “Ho finito. E nessuno mai saprà/che nel gelato rosa e viola/ho mangiato la bella avventuriera/con la gonna a cannelloni color nocciuola/e il cappello malva a giardiniera…”
Assaggi, solo assaggi, per chi vuole sedersi compiutamente al tavolo, dove si deve – ed è corretto – “Mangiare la minestra con la forchetta”.
A VIVA VOCE COME SI PARLAVA A FIRENZE
Francesco Boncinelli (Firenze 1873 – 28 marzo 1917),addottoratosi a Pisa a soli 21 anni, partecipò alle guerre di Indipendenza come medico. Alla fine della guerra si fece un nome durante un lungo apprendistato in Maremma. A Firenze per dieci anni ebbe la condotta nel distretto di S. Giuseppe.
Fu poeta dialettale colto firmandosi con lo di pseudonimo anagrammatico di rindello Ficcasenno,
Attuale il suo concetto di poesia in dialetto: “…la lingua naturale fiorentina si presta meravigliosamente ad essere verseggiata, avendo per suo principale carattere un vocalismo tutto proprio dal quale scende spontaneo il suono dell’accento melodico del verso… nella bocca del popolo si conserva la tradizione della sapienza civile e pratica, dimostrata dai proverbi, da sentenze e da massime morali, di cui fa larghissimo uso il popolo fiorentino nel suo quasi sempre arguto, talora mordace, ma semplice e schietto naturale linguaggio”.
Senza cadere “turpiloquio o di oscenità”.
“la prima qualità del volgare fiorentino è quella di essere nemico acerrimo delle consonanti, specie di alcune per lui troppo difficili o incomode a pronunziarsi; onde o le fogna e sopprime addirittura, o le cambia in altre più comode, più facili e più adatte ai suoi organi vocali”.
Proprio del linguaggio tratta questo suo sonetto dei primi anni del Novecento, che non va inteso come “polemica” vernacolare.
All’inizio il poeta pone l’accento su un aspetto urbanistico, lo sventramento del centro storico, agorà dove ogni angolo e ogni piazza erano frequentati per trattare delle diverse attività umane e la toponomastica era esclusivamente affidata all’oralità.
Così Piazza della Signoria viene qui definita con un prezioso reperto,“Piazza d’i’ caallo”.
E, siccome vi era un forte nesso fra oralità e poesia, l’inizio di un nuovo sonetto dialogato potrebbe essere:: “ – Ci si trova alla Piazza di’ cavallo./ -Sì, ma mi fermo prima agli Innocenti (Piazza Santissima Annunziata)”, e così via.
In questa agorà popolana “si ascortava d’i’ sì la lingua scria”, come dice il Boncinelli unendo la citazione dantesca con lasua matrice volgare: “la lingua scria”.
Preso atto di una babele di lingue – definita dal poeta “un bestemmiare” – che, naturalmente, si è sviluppata nella nuova agorà, pr ritrovare i tratti dell’antico linguaggio e lignaggio “’Gna tu venga ‘n mercato o ‘n sanfriano.”
E ancora si può, l’altro giorno mi sono fermato in una viuzza del Mercato centrale, da un friggitorie:
“- Mi dà quattro frittelle dalla teglia?”
Indaffarato, mi ha risposto: “Son qui che fo,/ la le pigli da sé, che l’è la meglio”.
Provare per credere. Tutto diventa più buono.
La città’ puligrotta
Dacche ‘ gli ebban ‘ i’ ggusto di sventrallo
E che da i’ ccentro ci òrsano sfrattare.
Firenze l’ è dientaca un pappagallo, :
Che ‘un si sa più in che lingua si parlare.
Se tu va’nella piazza d’i’ ccaallo*
Tu senti da ugni parte bestemmiare,
Dòe risonàa la nostra senza fallo,
Le lingue d’ottremonte e d’ottremare.
Ci si troa bergi, sguizzeri, inghilesi,
Della Francia, di Russia e di Turchia,
Tedeschi, Americani e Giapponesi.
Ma se tu vo’ senti’ pparla’ ccristiano4
E ascortare d’ i’ ssi la lingua scria,
‘Gna tu venga ‘n mercato o ‘n sanfriano.
*Piazza Signoria – La perifrasi usata dal poeta è un prezioso reperto del parlato antico.
Fiorentinacci – Novecento in vernacolo fiorentino – A cura di AlessandroBencistà – Polistampa, Firenze, 1996
Han messo Rabarama in Piazza Pitti,
Di fronte al muro dalle belle pietre,
Con i suoi scacchi in croce, apocalittici,
che compongono un corpo… ipergeometrico.
Dice: l’arte è così, via, state zitti!
Infatti nel vederla ci si impietra.
Va bene, sì, però si tira dritto
Con passo lungo, quasi…chilometrico.
E la città ritorna vera e bella
Con le sue strade chiuse in un abbraccio
Grande che sembra non finire mai,
e mentre passi da via Toscanella
senti la voce antica di Masaccio
nelle donnine in crocchio di rosai
I POETI INCONTRANO GLI ARTISTI:LA VOCE DI PIERO
Il 5 agosto 2011 è scomparso Piero Tredic.i, un grande artista per il quale dobbiamo parole non di circostanza.
Secondo la tradizionale frequentazione fra poeti e artisti, ho avuto la fortuna di avere per amici Fernando Farulli, Sirio Midollini e anche Piero Tredici, i tre più grandi artisti figurativi del secondo Novecento a Firenze, con i quali ho condiviso la meravigliosa avventura del “nuovo umanesimo” che ha caratterizzato una stagione del “secolo breve”.
Con loro, l’uomo tornò al centro del “racconto”, giungendo, nel viaggio artistico di Tredici, alle scelte estreme prima del Ché e poi del Cristo, con una coerenza che ebbi a sottolineare nella introduzione alla sua mostra tenuta al Gualdo di Sesto fiorentino.
Questa sua costante è stata possibile perché Piero non amava gli intellettualismi e fondava la sua vita e la sua ricerca su alcune basi semplici ma solidissime.
Niente di meglio, dunque, per darne un ritratto essenziale, che affidarsi ad un “medaglione” da lui stesso dettato per il catalogo on line della Polistampa:
“Piero Tredici nasce a Sesto Fiorentino (Firenze) nel 1928. Rimane affascinato dalle sculture marmoree di quegli artigiani che, depositari di una tecnica quasi millenaria, sbozzavano con maestria e abilità non comuni le lapidi e le statuette per il locale cimitero comunale di Sesto Fiorentino. Frequenta quindi dal 1940 al 1943 la scuola di scultura dell’Istituto d’Arte di Porta Romana a Firenze come allievo del Maestro Bruno Innocenti. Successivamente trascorre alcuni anni a lavorare come plastificatore in alcune botteghe ceramiche – allora molto fiorenti nell’area di Sesto Fiorentino – mettendo a frutto tutte le sue conoscenze e capacità. In seguito scopre la pittura di Bacon e Picasso.”
Poche righe che, però, bisogna decriptare. Quando egli fa riferimento ai “marmisti”, “depositari di una tecnica quasi millenaria”, in realtà rimanda a un DNA etrusco e al disvelamento delle conoscenze profonde dell’uomo.
Mentre Farulli, per le sue origini astratte, era “brunellschiano”, Tredici era certamente “etrusco” e le lezioni di Picasso e Bacon gli servirono per dare forma all’immaginario arcaico di cui era portatore e che accompagnava con la sua voce piena e piana, consapevole del valore della vita e dell’arte.
Le voci degli artisti sono importanti. C’era, nella sua, un’apertura al dialogo e, insieme, un’antica riservatezza di popolano che sa e, per non sbagliare, non giudica; una voce che ora si unisce nella memoria a quella alta di Farulli e all’arguta di Midollini.
Nello scegliere un’immagine che lo rappresenti, voglio, non a caso, affiancare a questa pagina un ritratto a china, da me acquistato a suo tempo, di una figura d’uomo integro dietro un grigliato, come se la “rete”, appunto, non ci fosse, perché la “città futura” nasce dall’uomo, dalla sua “presenza” nonostante tutto.
Una inquieta presenza, com’è la vita, che il Maestro Piero Tredici ha posto al centro della sua opera e imposto autorevolmente all’attenzione della critica e del pubblico, in un grande “affresco” dal vivo, per il futuro.
PERIFERIE
Alessandro Parronchi
Poesia e /o urbanistica
Nel mio lavoro di critico letterario sono solito trattenere sul tavolo alcuni libri già recensiti, invece di riporli con gli altri sullo scaffale, per una possibile rilettura.
Così è per Replay di Alessandro Parronchi, edito da Garzanti nel lontano 1980.
La mia recensione fu talmente convinta che Parronchi mi scrisse:” in questo studio ella scrive sul mio Replay cose molto giuste che soprattutto rispondono alle mie intenzioni, dandomi la prova di non averle tradite scrivendo. Le sono grato di questa testimonianza”.
Una delle poesie memorabili di Replay è Parabola, dove l’autore dà vita ad un sillogismo catartico che muovendo dall’incuria delle persone (una escavazione sospesa), passando all’opera ri-creatrice della natura (il formarsi di un laghetto), si conclude, attraverso il binomio acqua/cielo, con la sintesi: “l’anima/è il corpo stesso”, (quasi a confermare il titolo ossimorico della nostra rubrica).
Dunque, si tratta anche di una parabola spazio-temporale, maturata attraverso la elaborazione di sensazioni, emozioni, sentimenti, immagini, affidati a un pensiero che naturalmente tende all’universale.
E tutto questo da una pozza d’acqua formatasi in un rione precollinare della nostra città, che il poeta pone al centro della propria attenzione come “qui ed ora” dell’originario e del quotidiano.
Parabola
Nel prato in declivio ai margini della città
venne la draga e scavò per una nuova costruzione.
Poi s’interruppe il lavoro e rimase una buca.
Vi crebbero erbacce, rovi, immondizie.
Finche un giorno un violento acquazzone
l’empì d’acqua. L’acqua ristagnò. E il rione
ebbe un laghetto in cui far giocare i ragazzi.
Ora è scesa una sera di nuvole rosse
e il cielo ha arrovesciato nel laghetto
un altro cielo sognato. E mi sono perso a guardarlo.
Potessi dirti quel che ho visto in quello specchio d’acqua
saprei dirti anche di come l’anima [al tramonto,
è il corpo stesso ma visto da fuori
da un occhio che guarda da un cielo vero.
inserire pag 64 toscana dei poeti
RENZO GHERADINI E LA CENTRALITÀ DELLA NATURA A “IL RIPOSO” DI GRASSINA
La convinzione che l’universo sia ordinato in modo antropocentrico, ovvero al servizio dell’uomo, è solo una presunzione che, fra l’altro, viene pagata quotidianamente a caro prezzo.
Le cose non stanno così. I veri poeti lo sanno e si pongono in ascolto della “voce” delle creature per intendere e confermare, con lo stupore originario, le regole basilari del vivere.
Ne è una conferma Renzo Gherardini, poeta e latinista, recentemente scomparso a 88 anni, a cui nel 2009 era stato assegnato il prestigioso premio internazionale Carlo Betocchi.
Luigi Baldacci ha scritto di lui (su «Il Portolano», ottobre dicembre 1995, n. 4) :
“In Gherardini l’uomo ha rinunciato al suo protagonismo, ha ceduto il campo all’altro da sé: il mondo della natura e degli animali, che finisce per occupare tutto lo spazio che all’uomo era stato assegnato”.
Per dialogare “cum tucte le creature” i poeti scelgono un luogo dove vivere la parola, mettendo in evidenza ciò che debba essere detto o taciuto.
Renzo Gherardini ebbe come felice approdo Fattucchia,sopra a Grassina, nel Comune di Bagno a Ripoli.
Lì si trova la Villa Il Riposo, fatta costruire nel 1500 da Bernardo Vecchietti, con annessa la Fontana della Fata Morgana, progettata dal Giambologna “dove si dice scorra l’acqua che non fa invecchiare”.
A questo luogo Gherardini dedicò un poemetto, “40 frammenti”, che porta in calce la seguente nota: “Questi ‘frammenti’ – così chiamati perché con essi si ricompone la realtà di un unico luogo, compreso tra “Il Riposo” di Bernardo Vecchietti, la Fonte della Fata Morgana, e il blando poggio de “Il Grillo” –siano dedicati alle creature che qui vissero, e che questi luoghi, secondo la loro diversa natura, amarono. Se Orso qui non visse, tuttavia sia anch’ esso partecipe di questa dedica.”.
Infatti, l’intero corpus della sua poesia coglie e accoglie la presenza di tutta la fauna domestica e selvatica di quel determinato habitat.
Io devo essergli grato per avermi portato i suoi libri, in un bel pomeriggio autunnale alla fine degli anni Novanta, e narrato a lungo di questo suo mondo favoloso dove anche il lutto condiviso con le sue creature era un coronamento, seppure doloroso:
“Quando sarò nel grembo dell’eterno,/dirò, non sono solo, ho a me d’accanto/tre creature che mi hanno preceduto/nel ritorno alla notte, dal soggiorno/nella tenera luce della terra.”
E conclude: “Anche un’unica pietà/vegli su questa denudata spoglia”.
Ma primo fra tutti Gherardini cantò il suo cane Bobi, con cui svolse quotidianamente un “dialogo” creaturale e accanto al quale ha chiesto siano inumate le sue ceneri, in un angolo verde della villa Il Riposo, presso la Fontana della Fata Morgana, a cui fa riferimento, come epigrafe, la seguente poesia:
Nella radura al piede dei cipressi
è il grande assente: un cumulo di pietre
ne protegge il silenzio. E spesso torno
ad ascoltar con l’ anima la voce
del suo esser nell’ombra della terra,
sotto la luce di quei bianchi sassi.
So che lui giace come lo deposi
nel suo ultimo giorno, un bianco corpo
accarezzato dalla mano che
lo affidava alla terra – tra pareti
di pietre conficcate tutt’intorno
a proteggerne il sonno, alla sua grande
solitudine. È qui, non è più altrove,
in questa chiusa cella, né più vive
nella luce dei venti: qui rimanga
sotto le bianche pietre e nel mio animo.
11 marzo 2004, ore 1 di notte
FRANCESCO GIUNTINI E IL “BRIVIDO” DELL’ANCONELLA
C’è un’onda musicale nel tramonto fiorentino che unisce la città, dalla periferia al centro, fondendo i “brividi” crepuscolari degli alberi con l’eco delle campane, in una grande cupola di luce sonora.
Per coglierla occorre partire da un silenzio assoluto che si fa ascolto. Non è facile.
Solo un poeta come Francesco Giuntini può addirittura coglierla e descriverla nella misura di un sonetto, in uno spazio tempo preciso (Villamagna, ore 19.15).
In effetti, Francesco Giuntini è una delle voci più alte della generazione (trascurata) del secondo Novecento, ha scritto e pubblicato alcuni libri che, in realtà, costituiscono un unico poema sulla condizione meta/fisica dell’uomo contemporaneo.
Presentando Lancette 1995, Alessandro Parronchi , che certo non elargiva prefazioni per i nuovi autori (si conteranno sulle dita di una mano), scrisse: “L’autore si è formato poeticamente sull’esempio della più alta poesia del Novecento. Insieme, egli possiede una conoscenza approfondita del mito classico e da esso sa evolvere la trama dei singoli componimenti, con risultati di perfetta compostezza e levigatezza parnassiana” .
Vittorio vettori, notissimo studioso di letteratura del Novecento,anch’egli molto critico e selettivo nei confronti del nuovo, nel presentare La catena dei giorni 1998, scrisse:
“Ciò che impressiona di più in quest’opera di Giuntini è la matematica solidità dell’impianto, che trova riscontro soltanto nell’eredità dei grandissimi, di quelli che potremmo chiamare i “padri fondatori” della tradizione letteraria italiana, riecheggiati in area novecentesca dai maggiori “poeti nuovi”…Certo è che in tutta l’area del nostro Novecento poetico, nuovo e nuovissimo (Novissimi a parte), inutilmente si cercherebbe un altro ‘caso’ di altrettanto rigore architettonico”.
Un’architettura evidente anche in questo testo tessuto di luci e colori di un luogo a me caro per antica frequentazione: il parco dell’Anconella, con le sue piante che si affacciano vibranti sull’Arno, rallentando la “fretta” del tempo, cosicché il poeta possa notare come “Impercettibile/
si smorza adagio l’onda, ove al mio sguardo/Firenze a sera muore, intorno al pino.”
19:15
Periferie
Firenze a sera muore, intorno al pino
che mi sorveglia, cerchi di torpore
giunti prima al Bisarno che alla cupola
del Brunelleschi, cerchi più discreti
degli anelli di suono che disperdono,
sulla piazza del Duomo, le campane.
Eppure la città si fa presente
sussurro anche nel pigro movimento
che nasce qui di fronte, avvolge il pino
e passa silenzioso sulla casa
di Manescalchi e si distende lungo la
piana dell’Albereta. Impercettibile
si smorza adagio l’onda, ove al mio sguardo
Firenze a sera muore, intorno al pino.
Da Lancette, Polistampa, Firenze, 1995
p.69/70 paesi
DOMENICO GIULIOTTI E IL PAESE DI DIO
Nel primo Novecento, contro l’avvento del rinnovamento politico e culturale che sconvolgeva assetti millenari, Domenico Giuliotti (San Casciano in Val di Pesa, 1877 – Greve in Chianti, 1956) si pose come paladino “duro e puro” di un cattolicesimo integralista, e tale rimase, per tutta la vita: “omo salvatico” ovvero della “salvezza”.
Ma la poesia, come si sa, nasce nonostante le ideologie che sono un po’ le “armature”, retoriche e temporali, di un sentimento universale più profondo, come nella narrazione “Il mio paese” (da L’ora di Barabba), dove Giuliotti descrive la piazza di Greve in Chianti alla fine dell’Ottocento, offrendoci un nitido fermo d’immagine sul Medioevo della provincia
Infatti, la “piazza” era per Giuliotti l’archetipo di un presepe vivente, perché un tempo la vita nei paesi si somigliava, di diverso avevano solo il nome.
Una vita ordinata da Leggi medievali,dove tuttavia la necessità imponeva il rispetto delle parti, ed anche il contadino, umil-mente, aveva nello sguardo non una totale remissione verso il padrone, ma la dignità e la misura del campo lavorato.
Giuliotti ce ne dà una conferma, seppure paternalistica: “Mio padre, fattore , era l’amico e il padre dei suoi sottoposti”.
Questa bella pagina, dove la polemica antimodernista lascia il posto a un austero tratteggio dell’umano, rappresenta una finestra nitida e nuda di alta poesia.
Dall’incipit temporale alla messa in evidenza del movimento sulla rustica scenografia della piazza, fino alla didascalia finale dove la drastica conclusione si riscatta nell’intimità fra uomo e Dio, il poeta realizza una sorta di sonetto in prosa da incorniciare ad uso di memoria per chi – alfabetizzato – si interroghi su un tempo in cui, nonostante tutto, “l’analfabetismo leggeva in Dio.”
IL MIO PAESE
Ho quarantadue anni. Mi sembra d’aver vissuto millenni. Se ne rifò trentacinque all’ indietro, mi trovo nella preistoria.
Allora i contadini (qualche vecchio portava sempre le campanelle agli orecchi e i calzoni con lo sportello) vestivano di mezzalana l’ inverno, di vergatino d’estate e quando, la domenica sera, calavano dai poggi, in paese, assistevano in Chiesa, a tutto il vespro, inginocchiati
sull’ impiantito e, dopo una mezz’ora dall’uscita delle funzioni, si risparpagliavano per la campagna, con dei gran sedani sotto braccio e la sporta a reni.
Il mio paese era un villaggio affumicato. Tutti chiudevano gli usci alle ventiquattro, tutti avevan sospetto dei « forestieri ». Sulla piazza « a baccalà », circondata di loggiati e lastricata di ciottoli, ci nasceva l’erba.
Nel mezzo, c’era un pozzo chiuso, con una pompa a dondolo; e, più in là, sopra una base di pietra, una croce di ferro. Qualche donna, passando, si fermava a baciarla; qualche vecchio, curvo, si levava, con reverenza, il cappello.
Si sentiva, tutto il giorno, il martello del ciabattino, la pialla del legnaiolo, il rumore metallico di qualche mezzina attaccata al ferro del pozzo, e lunghi cicalecci, da uscio a uscio, di donne.
Il Sindaco, nella processione del Corpus Domini, accanto al prete, parato, che portava il Santissimo,
reggeva (e se ne teneva} l’ombrellino giallo.
Giornali non ne venivano. Il maestro faceva leggere il « Giannetto ». L’analfabetismo leggeva in Dio.
(Da L ‘Ora di Barabba, Vallecchi, Firenze, 1920)
MARIO SODI: SCANDICCI, UNA CITTÀ E UNA QUERCIA
Mario Sodi, è un importante protagonista della poesia moderna, capace di usare ancora la misura del verso tradizionale con una musica nuova per la freschezza delle immagini e dei sentimenti.
Abitando a Scandicci, ha composto un piccolo capolavoro, La quercia di piazza Boccaccio, nel quale è descritta la storia di una “quercia abbattuta” di pascoliana memoria.
Il testo è uno spartito in cinque strofe da seguire come una modulazione musicale.
All’inizio il poeta intreccia i due tempi della quercia: la sua funzione di “specchio” di un “felice” passato agricolo, paesano, e la sua solitudine arresa fra le mura di cemento del presente.
Non specchiano più i rami gli ampi spazi
fioriti fra le vigne,
i gelsi
da podere a podere, le operose
coloniche col fiato dei camini
e le feste sull’aia.
Spenta ogni vena
tra i cupi casamenti,
nel silenzio murato del giorno
e nella notte dei freddi schermi.
Segue la descrizione dell’abbattimento e la combustione della quercia dal cui fuoco si sprigiona “un infinito giro di pianeti”.
Picchia sul tronco l’accetta
ed il cuneo d’acciaio rompe la fibra
sprizza la sega il midollo
e
lentamente
dal cielo sulla pietra
schianti
carni bianchissime
e un infinito giro di pianeti
intorno al tuo fuoco.
Il testo si conclude con una rapsodia finale in due tempi dove il poeta fa scaturire odori della sua infanzia da quello, forte, della resina dell’albero reciso, per ripristinare infine la presenza simbolica di questa “creatura verticale” nel “nostro moribondo lunapark” dove la dantesca “semplice vita” non ha più molto spazio.
Quello spazio vuoto
vo ricreando,
saturi i sensi di un acuto aroma
dal corpo reciso.
Come il profumo delle scoppiettanti
bruciate della nonna,
o l’odore del Corriere dei Piccoli
nella magica bottega di via Duprè
.
Il mio sguardo per sempre ti disegna,
verticale
creatura
nel nostro
moribondo
lunapark.
Parafrasando Palazzeschi, “Chi sa”, se una poesia da antologia come questa, col suo “infinito giro di pianeti”, nato dalle ceneri della quercia come un‘araba fenice, “ce l’ha/una grande città?”
FIESOLE
GIANNOTTO BASTIANELLI, LA “FRAGRANZA” DELL’ALBA FRA FIRENZE E FIESOLE
Chi, mosso da grandi sentimenti, riesce a esprimerli in modo chiaro senza artificiali giri di parole, dà vita a pagine che sono continuamente ravvivate dalla luce “mattutina” dell’animo, come ci insegna Giannotto Bastianelli in questo suo testo.
Nato a San Domenico di Fiesole nel 1883, da genitori livornesi, Bastianelli visse fra Firenze e Montereggi, dove strinse una fraterna amicizia con Bruno Cicognani che di lui ci lascia la più esatta istantanea definendolo “una figura di maledetto naturalistico-crepuscolar o neoscapigliato”.
Grande musicista (musicologo, compositore, pianista), collaborò con tutte le riviste del tempo, da “Lacerba” a “Solaria” e pubblicò saggi che rimangono chiavi interpretative della musica moderna.
Già dal 1911 dette un impulso al rinnovamento col manifesto “Per un nuovo risorgimento” a cui aderirono Pizzetti, Malipiero e Respighi, richiamandosi all’esempio del «genio» Musorgskij.
Il resto è nei libri di Storia della Musica.
Per la sua preparazione interdisciplinare, per la musica svincolata da canoni accademici, Bastianelli illuminò la sua funzione di insegnante di Conservatorio con una sorta di libero Magistero negli incontri con i grandi amici, fra Firenze e Montereggi, dove la contessa Paolina Alemanni Niccolini, nella villa “Il nido”, svolgeva opera di mecenatismo.
In una lettera a Papini, Soffici, Slataper, Bastianelli ci consegna il senso della sua poesia qui allegata, tratta da “La voce” (le due patrie: Montereggi e l’Arno, mentre la sua originaria inquietudine labronica rimane racchiusa nel mistero della sua morte, nel 1927, a Tunisi).
Carissimi Papini Soffici Slataper,
io sono per andare al mio divino Montereggi a trovare nel suo silenzio i temi per i miei nuovi lavori. Vorreste domani domenica verso l’ora che vi piaccia di più, venire a sentire le mie sonate? Se venite, avvertitemi. ..Ò letto il tuo Ignoto toscano, caro Soffici, che mi è stato portato ieri. In due cose ci troviamo d’accordo: nel lavorar molto e nell’adorare l’Arno. Mi sento anch’io profondamente
toscano.
Saluti dal vostro Giannotto Bastianelli.
MATTINA
Il Lungarno nell’acrezza mattutina come la riva d’un
molo gòcciola d’acqua al sole e odora acuto
d’un odore umido e fresco che ubriaca la bimba
bionda che sol da poco porta le sottane lunghe.
Ma il ragazzo del tea-room nemmen la guarda che
di mattina, a lavorare, si è innocenti anche in città
e il selciato del Lungarno sa d un umido sano tal
quale spiaggia di mare, e ad aprire un bel negozio
a pulirne i vetri grandi a lucidarne i lisci ottoni
a sbatacchiarne gli stoini colorati
a vedere e non vedere tra ‘1 lavoro la sempre vista
compagna giovane, è com’a essere in campagna
quando a brùzzico si guida tra i filari i bovi fumidi
e il sole nasce e l’aratro è tra le zolle
lustro liscio levigato con il vomere celeste in mezzo
al bruno della terra e l’anima tranquilla
gode d’esser nel corpo senza voglie con la fresca
noce di latte dentro il mallo ancora verde
15 febbraio 1915
Luigi Fallacara
Fiesole sembra avere due anime: una agreste, rivolta a monte, (Montereggi, Monte Fanna) il cui grande cantore è Bruno Cicognani, e quella più universalmente nota che dall’alto incorona Firenze.
Questa Fiesole iniziale ed iniziatica annovera “cittadini” illustri che dal 1600 a oggi l’hanno visitata, scritta e dipinta, perché salirvi è insieme una ascesa e una ascèsi che si pone come “evento” di cui non si può dare una definizione univoca.
Dipende dal momento di luce, nella “sera” o nella “solarità meridiana”, e da altro, imprevedibile, che non sta nelle guide turistiche.
Per la sera aulica, D’Annunzio, risalendo con Eleonora Duse dalla Capponcina verso Fiesole, evoca parole fresche come il fruscio delle foglie di gelso che il contadino si attarda a cogliere con la sua “opra lenta” , nel silenzio della sera, su “l’alta scala che s’annera/contro il fusto che s’inargenta…”.
Leonardo Sinisgalli, dalla piazza di San Domenico, si ritrova invece nei falò accesi sulle colline, scanditi da un fanciullo antico a ritmo di tamburo: “ Torna stasera l’ombra mia/remota nel fuoco del falò,/si accosta lieve e con ali ai calcagni/il fanciullo che ha battuto il tamburo”.
Per il “ meriggio” Hermann Hesse, che a Fiesole si trova “A casa in una lontananza senza nome / nel paese della pace e delle stelle”, scrive: “Oh che bellezza! […] Quando i muretti lungo i sentieri dei colli cominciano ad arroventarsi e i coppi assolati invitano alla prima sosta nella calura! Come si stira e risplende la terra in quei giorni, mentre i monti in lontananza si protendono sempre più azzurri e anelanti, finché il cuore si riempie di una dolce, incalzante febbre di vagabondaggio!”.
Ma, a ben pensarci, Fiesole ha una sola anima, come ci conferma Bruno Cicognani dal suo osservatorio di Montereggi: “Al tramonto si accendono barbagli a S. Francesco e a San Girolamo come incendi ai castelli della fantasia. E Fiesole, la sera, si costella di luci”.
A presiedere questa unità e questo gioco di luci sta il “cuore” etrusco di Fiesole, mosso e inquieto come ogni energia tellurica, che Carducci coglie in un flash visivo-sonoro: “Su le mura, dal rotto etrusco sasso/La lucertola figge la pupilla,/E un bosco di cipressi a i venti lasso/Ulula, e il vespro solitario brilla.”
È proprio “Il rotto etrusco sasso”, che affiora vivo anche nei giardinetti nei pressi dell’anfiteatro, come una forte presenza archetipica e larica.
Affidiamo infine a Luigi Fallacara, (1890 Bari – Firenze 1963), protagonista nel milieu fiorentino da Lacerba al Frontespizio, la testimonianza di questo sentimento di elevazione.
Animato da una profonda visione cristiana, di cui la sua vita e la sua opera furono tessute, egli, in “Sera a Fiesole”, di cui riproduciamo una parte, rappresenta un percorso della sera e nella sera, dalla nostalgia dell’ascesa alla serenità di piazza Mino che ancora, nel tramonto, “tiene/ore d’azzurro in cima alla sua torre”.
Sopra il colle di Fiesole la sera
vicina al cuore dolente mi sta.
Se la guardo dal basso, con sospiri
esilia gli occhi a celesti contrade;
ma in questa piazza, ancor di caldo sole
odorata, che all’orlo ha l’ombra e tiene
ore d’azzurro in cima alla sua torre,
a un volger lento dello sguardo io miro
come nella serena aria si crei.
Generata gentile dentro il cielo
dell’ulivo signore dei sentieri,
sale il colle, s’addensa nei cipressi
e, per leggeri mandorli scoperti
nell’aria della terra, effonde intorno
respiri calmi e sapore di miele.
BRUNO CICOGNANI A MONTEREGGI – LA FONTE A BUIANO, LA CASA DI KRISSE E LA FIESOLE AGRESTE
Quante volte ho fatto la coda, fino agli anni ottanta, per l’acqua della fonte a Buiano!
Era il rito del sabato, per ritornare, appunto, alle sorgenti, quando la civiltà dei consumi stava uscendo dal mondo agropastorale, ma era ancora possibile tenere uniti i due mondi.
Continuava così una lontana tradizione che accese l’animo di un grande scrittore come Bruno Cicognani, il quale aveva risieduto in prossimità del fontanello, in una casa – torre talmente esposta ai venti che veniva chiamata la Spifferona e nella quale convenivano i maggiori scrittori del tempo.
Nella sua narrazione il senso profondo di questo attingere alla fontana che rimanda a un centro di vita e alla sacralità evangelica dei pozzi di Palestina.
“Appena in letto, febbre a oltre quaranta. E tra i vaneggiamenti della febbre, in un momento di felicità per esser cessato il dolore, si dispiegò agli occhi della mente la visione del mio Montereggi.
E all’anima fu come un richiamo: « Torna quassù! Sempre ài avuto pace, sei guarito ogni volta d’ogni tuo male, quassù » .Rivedevo vive e parlanti, nella esaltazione della febbre, le dilette figure e, rivelanti il loro incanto segreto, i luoghi e le cose: la strada, allora, azzurrina per la breccia di colombino; la fonte davanti al mio eremitaggio: ogni passante a quella si disseta, vengono i manzi e lungi, nell’arsa stagione che à prosciugato ogni vena d’acqua, con botti e secchie, le genti. Richiama, la fonte, alla fantasia i biblici pozzi di Palestina. […] Davanti alla fonte, il praticello col gelso immenso , donde prender le mosse per salire in cima al poggio regale. E di là dal prato la silenziosa casetta assorta in una sua ventilata illusione di altezza.” (Da Viaggio nella vita, Vallecchi editore Firenze 1952)
Lì, la balza di Montereggi ”invitava” Cicognani a lunghe camminate fino a Poggio Pratone, dov’è un cippo a lui dedicato che riporta queste sue parole, (tratte da Il figurinaio e le figurine, Vallecchi editore, Firenze 1920) “e in questa cerchia che è proprio il tuo cuore, o Toscana, le cose più care e più belle del mondo, del mio mondo, i luoghi ch’io conosco ad uno ad uno, la mia fanciullezza, la mia giovinezza, i miei sogni, i miei canti, l’amor disperato di libertà randagia che voi soltanto siete riusciti, incantando, a quietare”. Lì, dove il poeta (perché così deve essere detto nonostante la scrittura in prosa) si distendeva “felice, sul giallo caldo dell’erba” e dove suo figlio gli aveva scherzosamente dedicato, lui ancora in vita, una sorta di monogramma paleolitico con pietre “bianche e lisce”, poi sprofondate nell’erba.
Oppure risaliva alla casa del contadino Krisse, dove sembrava “abitare”, in un mondo senza tempo, il pastore virgiliano Menalca, col suo canto e col suo flauto; ma infine era il contadino, pagano-cristiano Krisse, a ripetere, per Cicognani, le grandi verità universali dell’uomo.
“..a destra la strada conduce in salita – ciliegi famosi ; sul fianco che guarda là in fondo il Mugnone! – conduce alla casa di Crisse !
La casa di Crisse ! Stazione di felicità! di felicità favolosa alla pari del nome: Crisse ! per cui rivivono i miti e sono di ieri i travagli ulissèi. Un noce, immenso davanti alla casa, di sotto ‘I balzo, le fa riparo da ogni intemperia e, nello spiazzo tra ‘l balzo e la casa, all’ombra posa lucente l’ aratro, posano sparse qua e a e poggiate a muro le zappe, e vanghe,.le marre, dai manichi lustri all’impugnatura .; e sta il ceppo dl leccio scheggiato ma eterno e giaccion le treggie in riposo e il carro aspetta, che, anch’esso, à imparato dai bovi pazienza. […]
Chi mi si farà sulla porta ? Non Polifemo, no certo. Menalca? Chi sa ? […] Crisse bestemmia e dispera, a parole (come fo io); ma seguita a lavorare (lo fo io ?) lui seguita a lavorare mattina e sera la terra, a medicare le viti, gli ulivi, i ciliegi: egli sente che è fatto di terra e non può disperare: che s’el!’è malata non sia per colpa degli uomini ? e per penitenza degli uomini ? e, questi guariti, non sia rinsanichita la terra, anche lei ?” (Da Il figurinaio e le figurine, op.cit.)
Quanto futuro possibile, in questa antica saggezza
Alfonso Gatto
Molte sono le memorie che mi legano fino dalla mia primissima infanzia a Settignano e alla sua poesia.
Ragazzo, salivo le tre rampe della Capponcina, dolce la prima, un “muro” la seconda, al termine della quale si trova la villa di D’Annunzio, da noi allora detta “dei canini” per le statue in terracotta sulle colonne del cancello, tortuosa la terza tra le ville e i poderi declinanti sotto villa Gamberaia.
E si arrivava così, col fiato in gola, ma respirando a pieni polmoni l’aria di collina, all’altezza della piazza.
Questo era il nostro viaggio verso il cimitero, dove erano sepolti i nostri nonni.
La stessa strada percorrevamo per le Feste d’autunno e lì ricordo, sulla piazza, di avere ascoltato le ottave dei i cantastorie Ceccarini e Piccardi, che fecero nascere in me un desiderio di poesia.
E poi, a primavera, con i compagni di scuola e le insegnanti, da Ponte a Mensola lungo le balze di Settignano per cogliere fiori di balza.
Crescendo, imparai a conoscere il rapporto fra il paese, con tutta la sua poesia naturale, e gli scrittori e gli artisti che vi hanno vissuto, vi si sono soffermati, ne hanno scritto, ne hanno dipinto gli aspetti più suggestivi condividendo il quotidiano con scalpellini e contadini.
Fra i pittori, uno per tutti, Telemaco Signorini e fra i poeti Vincenzo Cardarelli.
Per chi volesse approfondire lo spirito che sembra aleggiare sul “colle armonioso” suggerisco di “rivisitare” il mito pagano di Africo e della ninfa Mensola da un lato, o quello cristiano della fanciulla Giovannella, a cui si riferisce un affresco attribuito al Botticelli.
Alfonso Gatto, interprete dell’anima dei paesaggi, da non confondere con i letterari “paesaggi dell’anima”, ha colto in questa poesia lo stupore del sole calante sui colli, la botticelliana dissolvenza delle luci e delle voci nella sera e, infine, il velo lieve del novilunio.
Tre flashes in dissolvenza per la rivelazione di un unico mistero: l’epifania di della primavera.
Primavera Settignano
Il giorno stupirà del suo calante
lume che tenne all’orizzonte i colli.
La campagna fiorita degli ulivi
avrà la sera e le fanciulle al canto
che lasciano sparendo.
A onde vane
e del suo dolce porgere la notte
è così mite che a sfiorarla il cielo
passa velando il novilunio.
MUGELLO
Ogni vallata della Toscana ha caratteristiche specifiche. Rispetto alla scabrezza del Casentino e alla profonda sinuosità del Valdarno superiore, il Mugello si presenta come una conca larga e accogliente, già dalla sua apertura rinascimentale alla città.
Qui la mia famiglia ebbe origine in una sorta di comunità agropastorale, nel Medioevo, a Vicchio, nella vallata di Mucciano, dove ora gli amici Checchi – che vi abitano – mi guidano alla riscoperta della terra e del cielo originari.
Quando si pensa agli scrittori del Mugello, due sono le voci che emergono , fra l’altro intrecciate per parentela e consonanza poetica: Nicola Lisi e Margherita Guidacci.
Nell’intraprendere, insieme a Alberto Frattini, la cura del repertorio “La poesia in Toscana”, per l’enciclopedia, edita da Forum nel 1983, che riguardava tutte le regioni d’Italia, chiedemmo alla Guidacci una scelta rappresentativa di sue poesie.
“La mia valle” era fra i testi di apertura, come sintesi ideale delle opere giovanili e dei luoghi che aveva amato e in cui si era formata. “Tu sei la soglia del tempo e la madre dei giorni…”.
E non si tratta di un testo “datato”. L’autrice medesima, nella didascalia di accompagnamento, dichiara: “Se metto accanto le poesie di quando avevo diciott’anni e le ultime, recentissime, non trovo fra di loro alcuno stacco…”.
Sul tema della Madre, D’Annunzio, in “Consolazione”, scrisse: “Tutto sarà come al tempo lontano./ L’anima sarà semplice com’era;/e a te verrà, quando vorrai, leggera/ come vien l’acqua al cavo de la mano.”.
Ecco, il Mugello è una Valle materna dove si torna naturalmente, come acqua “al cavo de la mano”.
E mai il binomio Valle – mano aperta all’accoglienza fu più a proposito.
Esiste tutta una “letteratura” in questo senso, a partire da Giovanni Morelli, “mercante malinconico” del 1400, volto al ritorno arcadico, per il quale “Il Mugiello è il più bel paese…”. Così, fino ai nostri giorni.
Questo conferma la poesia della Guidacci che si abbandona alla Valle della formazione interiore e insieme la illumina con l’universalità del suo canto.
La mia valle
Tu sei la soglia del tempo
e la madre dei giorni
per me, dolce parlata ove compresi
la prima volta d’esser viva.
Da te partita seppi solo
la struggente speranza del ritorno.
Alberi, cielo e volti
solo in te sento amici.
Così vorrei che a me tu offrissi il varco
finale come il primo: da te uscire
verso l’eterno
come tanti che amavo e che recarono
di là per ultima visione
l’immagine dei tuoi puri confini.
E questo desiderio compie il cerchio
che ha inizio nel ricordo; come un ramo
favoloso t’incurva, da cui pendono
infanzia e morte: il frutto
dorato il frutto d’ombra,
del loro forte, commisto succo alimentando
il calice che piano
d’ogni altro sapore si svuota.
Da Paglia e polvere, Rebellato, 1961
Foto di Dario Checchi
IVO MORINI, NEI LUOGHI DI DINO CAMPANA
Al Centro Studi Dino Campana di Marradi è possibile documentarsi, circa la vita del Poeta dei Canti Orfici, da una mostra di grandi pannelli fotografici, corredati da ampie e rigorose didascalie, realizzata da Ivo Morini, che da circa venti anni rivolge il suo interesse primario verso Campana, a cui ha dedicato anche alcune opere drammaturgiche.
Partecipai direttamente alla costruzione di questa mostra inaugurata nel 1999 presso il Palazzo Comunale di Scandicci e poi esposta al Caffè Le Giubbe Rosse, dove Dino Campana visse alcune tempestose esperienze letterarie e diffuse a braccio la sua opera, come narrano le cronache culturali del tempo.
Inoltre, attratto dai luoghi campaniani, Morini ha scelto di vivere a Moscheta, in una casa rustica sul torrente Rovigo, all’inizio della Valle dell’Inferno, proprio dove si consumò il “folle amore” di Campana, che scrisse alla Aleramo: “Come sapete ho la testa vuota” per, “il vento iemale che empie questa valle d’Inferno”.
Anche se le guide turistiche indicano la valle come un susseguirsi di scenari meravigliosi prima di raggiungere Casetta di Tiara, dove Campana e Aleramo vissero il loro tormentato idillio, in realtà, a livello florofaunistico essa conserva la natura primordiale di “nicchia ecologica” e Morini ne ha percepito il significato metaforico di scenario selvaggiamente campaniano.
Qui la natura vive come alle origini le proprie dolcezze e le proprie crudeltà, e l’uomo vi viene presentato e rappresentato per ciò che è, senza maschere, con una ricerca davvero originale.
Si tratta di questo: Ivo Morini, in una sorta di nomadismo campaniano, ricerca nel bosco, fra gli ammassi di legname, grandi radici divelte che con le loro forme alludono a strane creature di una di una genesi onirica e le utilizza per capovolgere il senso apparente delle cose.
La realtà, sottopelle, non è come pare, ma come si manifesta nella drammatica nudità di quelle radici.
Perciò, per Morini “Radici e parole sono un solo linguaggio”, come emerge dal titolo di un suo libro in cui raffigura il viaggio dal big bang alla alienazione di massa attraverso questa allegoria composta di parole e immagini.
Fra l’altro, questa raccolta e modellazione di radici ha dato vita, nella Valle dell’Inferno, a un Museo di “figure – verità” nel quadro degli studi sulla “civiltà del castagno”, oltre che della pietra, nella zona di Firenzuola.
E sono “chimere” salvate in omaggio alla grande “chimera” campaniana che è una intravisione di quanto massimamente l’uomo possa leggere nello spazio e nel tempo,facendo leva dal profondo di sé, da cui nasce anche un sentimento desiderante, come in questa poesia di Morini, che si libera e libra dal contesto aspro della Valle dell’Inferno di Moscheta, animata dallo stesso fremito che Dino e Sibilla espressero nei loro scambievoli versi.
Credo che “spiriti e materia” così coincidenti siano davvero rari e Morini (autore di alcuni importanti poemetti, sempre ispirati a una rivelatrice visione di soglia) li ha colti.
PRIMA CHE IL FIUME SIA SCARSO
Spaccherò la pietra più dura
sgorgherà limpida acqua
riempirò la brocca di rame
berrai in coppe d’argento.
Colmerò canestri
di bacche vermiglie
more di rovo
fragole di bosco.
Stenderò tovaglie di lino
su prati fioriti.
Prima che bruci l’estate
ed il fiume sia scarso.
Da Radici e parole un solo linguaggio, Novecento poesia, Firenze, 2012
PRATO
IL “SACCO DI PRATO” A “VOCE VIVA” NEI VERSI DI GIUSEPPE PAOLINI
In questo anno si commemora il 500° anniversario dal Sacco di Prato.
Si era nell’agosto del 1512, quando le truppe spagnole, provenendo da Bologna e dirette a Firenze per abbattere la Repubblica Fiorentina e riconsegnare la città ai Medici, assalirono Prato saccheggiandola e perpetrando un’orrenda strage.
A Porta Serraglio, proprio nel punto cui ebbe il suo inizio, presso la chiesa di Sant’Agostino, si può leggere un’antica lapide commemorativa.
A seguito di questa devastazione, i fiorentini – che neppure avevano mantenuto la promessa di partecipare alla difesa di Prato – aprirono senza combattere le porte della loro città agli Spagnoli.
Per questo, ancora oggi, come scrivono le Storie, rimangono “rivalità” non sopite: “La rivalità si è estesa nel tempo e non c’è occasione che non venga riaccesa, anche se a livello epidermico e, d’altra parte, secondo una tradizione tutta toscana”. Ne sono esempio alcune rievocazioni, come quella tenuta a Vernio.
L’evento è stato “narrato” in un poemetto in sonetti da Giuseppe Paolini (Prato: 1883-1960), definito dalla critica il cantore più schietto della sua città.
E Paolini fu “cantore”, in altro modo, anche nella corale “Guido Monaco” che nel 1952 gli conferì un altissimo riconoscimento per la sua lunga partecipazione.
È stato scritto che Paolini, oltre ai temi drammatici, “canta a gola piena le sconfinate bellezze dei cieli di Toscana”, mentre Salvatore di Giacomo chiosò: “ho molto ammirata la spontaneità e la vivacità della sua poesia”.
Il poeta stesso confessa che i suoi versi hanno “l’unico pregio di nascere liberi e schietti da un animo acceso di venerazione e amore verso la propria terra natia…”
Ma c’è un dato, nelle sue dichiarazioni di poetica, da evidenziare: l’auspicio del riscatto del vernacolo, “se un giorno, come mi auguro, potrà vedersi fra gli altri vernacoli annoverato anche il nostro, la mia città non avrà che a compiacersene.”
A conferma, in “Spiriti di materia”, a difesa dei vernacoli abbiamo inserito periodicamente poeti dialettali di rilievo assoluto come Paolini.
Giustamente, perché nei suoi versi il “Sacco di Prato” assume un’evidenza quasi visiva e “parlata” che sembra riportare all’oggi – tempo ancora di “sacchi” – un evento del Cinquecento.
Sonetto XXVII
Prato oramai la si po’ di’ perduta.
In nessun punto un c’è più resistenza.
Tutta la gente la s’è fatta muta
e par che abbia smarrita la ‘oscienza.
Le donne, chi è impazzita e chi è svenuta;
chi scappa a destra e chi a sinistra, senza
sapere in dove, e chi nun si stramuta,
perché nun crede ancora all’evidenza.
Ma i papalini corran pe’ le strade
furibondi e feroci come iene,
con le lance puntate e con le spade.
E cominciano a far carneficina,
e chissiunque tra le man gli viene,
lo squartan come fusse una gallina.
Il sacco di Prato, Stabilimento tipografico
M. Martini, Prato 1925, p. 38.
OMAGGIO A MALAPARTE – “SALUTAMI LA CALVANA”
Passando da Prato sempre ho sentito un intenso richiamo per i monti della Calvana. Sarà stato un caso, ma ho poi trovato che i miei avi, maniscalchi e agricoltori, vi hanno vissuto sul versante occidentale nel 1500, e in quello orientale nel 1600.
Non deve trattarsi di una sensazione soggettiva se Ardengo Soffici ebbe a descrivere la Calvana: “tutta bigia, con qualche boschetto di cipressi neri qua e là! L’ho vista d’estate al tramonto, tutta dorata, piena d’ombre azzurre e calde, e mi ha fatto pensare, non so perché, alla Grecia”.
Tuttavia, nella poesia moderna la Calvana e il Monteferrato si trovano solo per citazioni.
Gabriele D’Annunzio, ad esempio, in “Elettra” scrive di “Prato, ombra dei di perduti” e, sulle tracce dell’”eroe” Garibaldi (”il piloto /re d’Itaca mi parve men divino”), cita “Spazzavento, alpe delle mie virtuti/che lustri come di ferrigna scoria”, e “Vaiano, cammin di Spazzavento” di cui “ i macigni / e gli sterpi indagai pien di spavento”.
Inserisce così il dato paesistico e memoriale in un discorso di “erudizione […]che accumula nozioni storiche intorno alla citazione dei luoghi”, come commenta Giorgio Barberi Squarotti in una sua storia letteraria.
Per trovare descrizioni “poetiche” di largo respiro bisogna leggere alcune pagine dalle opere di Curzio Malaparte, il quale chiese di essere sepolto proprio sullo Spazzavento con una frase, in “Maledetti toscani”, divenuta leggendaria: “Vorrei avere la tomba lassù, in vetta allo Spazzavento, per poter sollevare il capo ogni tanto e sputare nella gora fredda del tramontano “.
Questa sua richiesta, prorompente e non “becera”, era un atto d’amore per un mondo aperto ai venti, con doline e prati rasi, solido e precario, la cui vastità poteva tuttavia essere raccolta, com’egli scrive, nel vibrare quasi fiammingo della lucerna di un casolare: “I pastori e i boscaioli alzano il viso verso lo Spazzavento, e le donne si siedono in circolo nelle cucine a far la treccia, recitando il rosario, mentre l ‘olio gocciola dalle lucerne appese come se la casa tremasse.” (Da Il dorato sole dell’inferno etrusco”)
Immaginiamo dunque Spazzavento fra la nudità del mausoleo a lui dedicato e la luce segreta di quella lucerna che continua a vibrare nelle sue pagine.
E ancora una volta la prosa, per la chiarezza inimitabile dell’in/canto, acquista il diritto di essere definita poesia – ammesso che si possa tracciare uno spartiacque fra i generi.
Durante un momento della seconda guerra mondiale, da un tetto di Firenze, Malaparte evoca in un solo cielo una vasta cerchia di monti e colline coronata dalla Calvana:
”Nella notte d’estate rotta dai lampi di un temporale lontano, parlavamo a voce bassa tra noi, mirando la luna pallida salire lentamente nel cielo, sugli olivi di Settignano e di Fiesole, sulle selve dei cipressi di monte Morello, sulla nuda schiena della Calvana.” (Da “La pelle”). Una frase che è un diadema.
Questo suo in/canto era talmente noto e universalmente condiviso che Emilio Cecchi, ( Da «Il Tempo», 30 giugno 1946), scrive: “ Salutami la Toscana, soprattutto la Calvana e Monte Morello quando li rivedi”.
Sull’onda di questi sentimenti sono salito sulle sue tracce a Schignano, da cui si dirama la strada per raggiungere Spazzavento.
In questo paese, dove lo scrittore, uomo glocale, condivise qualche aspetto del “quotidiano”, mi sono fermato per un pomeriggio a scambiare con la gente qualche franca parola, come un antico, e infine non ho trovato di meglio che accomiatarmi con la frase di Emilio Cecchi a Malaparte : “Salutatemi la Calvana”.
GIANCARLO VIVIANI: “MUSICO VAGABONDO” DELLA CALVANA
Nel mio non breve lavoro di critico letterario mi sono sempre domandato perché certi paesaggi, per quanto suggestivi, non trovino spazio nell’attenzione dei poeti.
E sono giunto alla conclusione che, per vana questione di immagine, spesso si scrive su luoghi già battezzati da scrittori illustri.
Purtroppo la lezione di Montale (“Ascoltami, i poeti laureati/ si muovono soltanto fra le piante/
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti./ Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi/
fossi…”) è rimasta inascoltata.
Forse per questo motivo anche la Calvana, la vasta dorsale che va da Prato a Barberino di Mugello, di cui ha scritto solo Curzio Malaparte, e per motivi puramente biografici, per quanto la si trovi in splendidi quaderni fotografici, non ha emozionato lo sguardo dei poeti.
Fintanto che, sfogliando il mio archivio, non è emersa una poesia visiva inedita dell’amico – da tempo scomparso – Giancarlo Viviani, da me incluso negli anni Ottanta nell’antologia Poeti della Toscana con un altro testo dedicato ancora alla Calvana.
E questo- penso – perché teneva presente l’indicazione montaliana.
A conferma di ciò, viene a proposito un aneddoto su questo “petit-maitre” dell’ultimo Novecento, amico di Vasco Pratolini, Piero Santi, direttore artistico delle Giubbe Rosse, presenza inquieta fra i gruppi istituiti: quando qualche presuntuoso e sterile verseggiatore, frequentando le Giubbe Rosse, gli chiedeva con sussiego se fosse “laureato in lettere”, lui – che lavorava alle Poste – rispondeva ir/ridente: “Sì, in lettere e cartoline!”
Queste due poesie – una visiva e una lineare -per la loro chiara profondità ripagano la Calvana dall’assenza di altri riferimenti..
Qui il poeta si definisce “musico vagabondo” mosso da un romanticismo antropologico: ” per amore/di serenata due note invento. / […] fra le ombre dei contadini che / […] con lo spruzzo di verderame/per il cielo si incamminano/lieti di tingerlo di azzurro”.
In Viviani echi di Leonardo Sinisgalli, del pittore poeta Luigi Bartolini, di Vincenzo Cardarelli si modulavano in una voce nuova che sapeva di terra e di cielo, perché non a caso era cresciuto nella periferia fiorentina di Novoli, fra fabbriche e cascine, di cui mi portò a vedere, con l’orgoglio dell’esserci stato e radicato, un album fotografico di aie e porticati.
La sua morte prematura fu accompagnata dal rimpianto degli amici ma, come spesso accade, anche dall’oblio della critica.
Questa sua doppia testimonianza poetica per la Calvana rimane un unicum che certamente lo attualizza per chi ama gli “spiriti di materia” che si aggirano su quella selvaggia dorsale.”per tingere il cielo di azzurro”, contro”i mucchi di divise ancora pronte”, di una guerra – tabù, almeno nella poesia.
SUI MONTI DELLA CALVANA
Sui monti della Calvana
lungo il Bisenzio sopra la foschia
nel silenzio fatto di fruscii
con il vento tra gli arbusti
e di lucertole sui sassi caldi
come loro io a godere il primo sole
di questa insolita forse ultima primavera.
Dai monti della Calvana
frugo una domenica nelle case di Vaiano
con gli uomini a giocare a carte
e le donne a coccolare i bambini.
Un deserto di uomini-case-fabbriche
e intanto nel cielo un reattore
lascia un fiume bianco come il Bisenzio
sui mucchi di divise pronte.
Da Note e non, edizioni Collettivo r, Firenze, 1985, prefato da Vasco Pratolini
UNA NEVICATA “FANTASTICA” A PONTASSIEVE (FIRENZE)
La poesia, come la musica, è suono, per cui le parole si concatenano in uno spartito fonetico che viene prima di tutto. Così accade che, solo per questo motivo, un nome possa evocarne un altro.
Ad esempio, in Giorgio Caproni il tema del ritorno trova la sua immagine compiuta evocando Livorno (Proprio quest’oggi torno, /deluso, da Livorno, da Preghiera). La musica sarebbe finita se avesse scritto “torno da Genova”, città che pure lo riguardava.
C’è poi un uso dei nomi delle città, come in questa “nevicata a Pontassieve”, addirittura solo in funzione della musicalità.: “e lieve lieve/cade la neve/sull’alta pieve/di Pontassieve”.
Naturalmente, l’evento accadde soltanto sulla pagina di .Ernesto Regazzoni,(nato Orta nel 1870 e morto nel 1920), il più importante poeta umoristico italiano del Novecento, seppure ormai “di nicchia”, legato alla scapigliatura e autore di saggi e traduzioni per Stivenson e Nietsche, Goete, Allan Poe, Victor Hugo.
Di lui è ancora possibile trovare in libreria una bella edizione einaudiana, a cura di Sebastiano Vassalli, dal titolo “Buchi nella sabbia e pagine invisibili”, che è tutto un programma.
Regazzoni , muovendosi fra D’Annunzio e Gozzano, che frequentò e conobbe, trovò un suo spazio sviluppando una scrittura paradossale, anglosassone, un po’ come Achille Campanile fece poi nella prosa.
Recentemente, David Riondino, ha eseguito una lettura scenica delle sue poesie, con il seguente autocommento: “La lettura di Regazzoni, accompagnata dalla chitarra per alcune poesie da me musicate, con riferimenti a poeti umoristici che a lui molto devono, è una enciclopedia di temi metafisici, affrontati e risolti in maniera improbabile, sorprendente e divertente.”
A dimostrazione cito due epigrammi.
Sulla sua attività di giornalista:
È finita. Il giornale è stampato,
la rotativa s’affretta,
me ne vado col bavero alzato,
dietro il fumo della sigaretta.
Oppure l’epitaffio:
Morì. Qui giace Ernesto Ragazzoni d’Orta
d’essere stato vivo non gli importa.
La “nevicata a Pontassieve” è il suo divertissement più riuscito e universalmente noto, fra gli estimatori del genere, e, forse, dato il carattere giocoso della composizione, perché non destinare al suo nome almeno un “chiasso” in prossimità della Pieve che non c’è?.
…e lieve lieve
cade la neve
sull’alta pieve
di Pontassieve
e il tetto breve
che ne riceve
più che non deve
si fa ben greve
ahi troppo greve
sempre più greve
e cade in breve
non più la neve
sovra la pieve
sibben la pieve
sovra la neve
che cade lieve
sull’alta pieve
di Pontassieve…
7 gennaio 1909
L’intuizione geniale del poeta consiste poi nel ripetere la poesia, ripartendo da “…e il tetto breve”, come se la nevicata non avesse fine, facendo cadere continuamente la neve sulla pieve e viceversa.
IL VALDARNO
VITTORIO LOCCHI DA FIGLINE A CAPO MATAPAN
Esistono poeti trascorsi come meteore nel mondo della letteratura. Uno fra questi è Vittorio Locchi, famoso nel primo Novecento per il poemetto La sagra di Santa Gorizia dove esalta senza alcun orpello retorico il coraggio dei giovani nella prima guerra mondiale per la presa di Gorizia.
In apertura del poemetto Locchi enuncia la sua poetica che ha qualche riferimento al nascente vocianesimo:
“Bisogna cantare umilmente,/come quando, la sera,/cantano i fratelli,/ripensando la mamma,/a Padris, a Villanova, 7nella quindicina di riposo./Perciò, parole,/amore mio,/vi scrivo come sgorgate,/vi lascio come fiorite,/umili e sole,/senza rime e senza studio,/semplici, disadorne/come la tenuta del fante/sporco di fango…” e conclude “Chi cerca l’Arte/non mi sieda vicino/e non mi ascolti./Non so che dico;/parlo vagellando…”
Nato a Figline Valdarno (Firenze) l’ 8 marzo del 1889 morì il 15 febbraio 1917 nei pressi di Capo Matapan sul piroscafo “Minas”, affondato da un sottomarino tedesco, che non volle abbandonare per condividere la sorte di altre centinaia di fanti.
In effetti, fino da ragazzo- durante gli studi – aveva mostrato un carattere fiero e indipendente, “educato” dall’incontro con Diego Garoglio, suo insegnante, che lo avviò alla poesia, descrivendolo poi in questi versi.
Uno rivedo coi luminosi occhi
sopra me fissi, dal suo banco a scuola
lampeggianti a ogni fervida parola,
ti riconosco mio Vittorio Locchi
Altre opere che si distinguono fra la produzione, talvolta sperimentale di un ventenne, sono “Le canzoni del Giacchio” e“Elegie del sereno” da cui è tratta la poesia in calce.
Il Giacchio era una Compagnia di giovani, guidata da Locchi, che si dilettava a leggere poesia muovendosi lungo le sponde dell’Arno, soffermandosi sul Ponte agli Stolli di Figline o avventurandosi nella collina.
Aveva preso il nome da uno di quei giovani, detto Il Giacchio perché magrissimo e con in dosso una giubba lunga e sdrucita come una rete da pescatore: un “giacchio”, appunto.
C’era, in Vittorio Locchi, una originaria energia valdarnina, nata dalla sinergia fra il fiume, l’Appennino e il cielo sempre da guadagnare.
Merito di Ettore Cozzani, direttore dei Gioielli dell’Eroica, avere salvato questo poeta dalla dimenticanza a scoprire Locchi e a pubblicare tutta la sua produzione.
Tanto era il suo amore che, concludendo l’introduzione a La sagra di Stanta Gorizia, scrisse: “e mi rivolgo a tutti i poeti d’Italia […] perché mi aiutino a onorare questo giovane, che fuuna delle più belle espressioni della forza della nostra stirpe e della nostra terra…”
Noi, con questo scritto, lo facciamo.
LA SERA SULL’ARNO
Oh dolce in terra d’Arno, la sera di Giugno, vagare
per le colline accese dal sereno tramonto.
Tremano l’alberelle sentendo la notte che viene,
sopra i cipressi chete si accendono le stelle.
Come una nave immensa nel mare de’ piani ancorata,
sventola il Pratomagno gli stendardi dei nuvoli.
Dal suo balcone affacciasi a rider sui sogni la luna,
e l’amor mio s’affaccia, su la deserta via.
Vittorio Locchi
“Elegie del Sereno”, L’Eroica, Milano, 1934
Angelo Australi: Figline Valdarno come i paesi che crescono sulle sponde del Mississipi, raccontati da Mark Twain
Angelo Australi, nato nel 1954 a Figline Valdarno (Firenze) dove tutt’ora vive, esordì nel 1980 con il romanzo Roscio nella collana «Narrare oggi» diretta dallo scrittore Vincenzo Guerrazzi per “Ciminiera” di Reggio Emilia. Fu un esordio di spicco, sull’onda di un neorealismo rivisitato dai Gettoni e dal Menabò di Vittorini, a cui ha fatto seguito una serie di romanzi e libri di racconti che rappresentano una narrazione dello svolgersi della vita del paese, vista e vissuta dall’interno dal personaggio protagonista, Roscio/Spartaco, alter ego dell’autore, insieme ai suoi compagni di avventura.
Tanti “capitoli” di un romanzo di formazione, ma, come dichiara Australi in un’intervista, “anche epico, secondo me. Epico in un senso classico del termine, dove grazie al significato delle metafore la realtà incontra una dimensione sospesa nel tempo e nello spazio.”
Per chi voglia approfondire il rapporto fra l’autore e il suo paese è possibile consultare un’antologia della rivista MicroMacro, di cui fu animatore, curata da Fabio Flego per le edizioni Pezzini, nel 2009, e le pubblicazioni del Circolo Semmelweis, nella cui collana di narrativa escono Magalodiare (1989), I grandi navigatori (1996), I sogni in Tv (2002), Non ci sono troppe vie di fuga (2007).
Poi, con le edizioni Pezzini, Australi pubblica opere di più largo respiro, Zia Oria (2003), Dalla foce alla sorgente (2005), in una collana che ha ospitato nel tempo nomi importanti come Piero Bigongiari, Oreste Macrì, Rolando Viani, Moses Levy.
Ultima opera L’usignolo di provincia (Pagliai, 2010).
Per intendere la sostanza della sua scrittura, concludo con un mio breve giudizio tratto da “Le telluriche onde della Storia” in “Onde di terra, percorsi nel paesaggio letterario della Toscana 2”, Polistampa, Firenze, 2002.
“Non c’è bisogno di aver letto Tozzi, Bilenchi, Pratolini e Cassola per essere vicini a loro, se si viene dallo stesso mondo. Questo penso quando leggo i racconti di Australi, che poi hanno magari molto a che fare anche con gli scrittori americani, per esempio con il molto amato, da lui e da me, Jerome David Salinger.”
AREZZO
CASENTINO: VALLE DEL PIANTO O CULLA DELLA VITA
Nel Casentino la terra è una cascata di rughe verso la valle e i frutti della natura sono una conquista di uomini, modellati in solide volute come le balze, che hanno conservato ancora le caratteristiche ancestrali, il fulmineo intuito ed il concreto gusto della vita da condividere con gli altri.
Ricordo, abitando un periodo della mia vita a Castel San Niccolo, il cesto di agre verdure che il contadino Sereni lasciava a sorpresa, di prima mattina, sulla porta di casa.
Qui i valligiani parlano della Verna, di Camaldoli, di Vallombrosa come di mete domenicali secondo un rito memoriale, prima che consumistico. Sono le creste che emergono sull’ondulato altopiano in cui tutto si smorza fino al silenzio ed anche una mietitrebbia su un lontano pendio è solo un punto rosso, mobile nel giallo, mentre le strade scintillano a mezza costa di rade auto, quasi elementi di un altro puzzle, in questa geometria di boschi e paesi a filo di immaginazione.
Ed è il silenzio a prevalere, con le sue promesse e premesse di verità perché tempo e spazio ritrovano un senso e una ragione nel pensiero del quotidiano.
Qui, anche l’ultimo uomo è in realtà un filosofo sottile ed un indagatore delle questioni di fondo del vivere: prevede le variazioni del clima e le leggi degli umani rapporti come un etrusco, perché il tempo e lo spazio, per quanto lacerati, sono ancora la dignità di ognuno e non lacerti di storia di cui vergognarsi.
Alberto Severi (Arezzo, 2 aprile 1883 – 24 nov. 1958), giornalista, scrittore autorevole di prose e poesie anche in dialetto aretino, autore, fra l’altro, dei versi per la Giostra del Saracino, poi musicato da Giuseppe Pietri, visse intensamente la vita culturale e politica della città, con la parentesi di un’inquieta partecipazione al Regime del Ventennio, ma più in lui va sottolineato il recupero dell’originaria umanità degli aretini, rimasti fedeli ai punti cardinali del vivere e del morire, come in questa doppia sestina che coglie ed accoglie il pensiero finale, vero e amaramente antiretorico, di una contadina, come accadeva nella veglia, quando il dialogo si alternava per aforismi, similitudini, metafore, proverbi e il senso dell’esistere trovava le sue giuste definizioni.
Valle di pianto
Doppo aère una vecchia lavoreto
quante un ciuco da basto o più de lue
cadde, venta dal mèl, ‘ntur uno steto
dal quel, poaretta, nun s’ arizzò piúe.
Or prima che dal mondo se ne visse
chiese al cureto che la benedisse.
« Il ciel vi attende, disse il sacerdote,
il ciel ch’è bello e delizioso tanto
mentre il mondo sì pien di tristi note
è una valle di spasimi e di pianto.»
Rispose glie’, seguendo i su pinsieri :
« Ma qui ce piagnio tanto vulintieri!»
Quattro versi in pinzimonio. Poesie nel dialetto del contado
aretino, Arezzo, Tip. E. Sinatti 1957
Pietro Pancrazi,
una visita a GiovanniPapini a Bulciano
Continuiamo il “viaggio” fra i luoghi familiari, per quotidiana dimestichezza, ai poeti e quelli ”visitati” per la loro suggestione paesistica, componendo così un tessuto di presenze, di parole immagini che restituiscono un’anima al nostro mondo..
Questa volta andiamo con Pietro Pancrazi, (grande studioso della letteratura italiana e scrittore di talento, nato a Cortona nel 1893 e scomparso a Firenze nel 1952) a Bulciano di Pieve Santo Stefano, paese natale di Giovanni Papini, dove questi trascorse poi con gli amici una parte della sua vita.
Tecnicamente, diamo spazio alla prosa d’arte e alla scrittura di tipo rondista che ricompose il senso e la misura alla nostra lingua, tanto che l’Assemblea Costituente richiese a Pancrazi la consulenza al fine di trascrivere in lingua formalmente e stilisticamente corretta la Costituzione della Repubblica italiana.
Atri tempi, quando politica e cultura interagivano per una chiara e nobile cifra comunicativa.
Oggi, orribile a dirsi, ci sono governanti che definiscono indecifrabile il linguaggio della nostra Costituzione e intendono “ammodernarlo”..
c’è davvero da temere il peggio.
Al di là di simile barbarie, questo frammento di prosa d’arte ci conferma senza ombra di dubbio come non vi sia distinzione fra prosa e poesia quando il sentimento che le muove e gli strumenti espressivi raggiungono il massimo della propria potenzialità.
CON GIOVANNI PAPINI A BULCIANO
Sul muraglione che regge lo spiazzo davanti alla casa di Papini, sopra una bozza del
sasso, Soffici scalpellò una arruffata testa del suo amico, peggio che somigliante. Cave domi-
num, c’è scritto sotto; ma nessuno ci crede.
Nella pace attonita del meriggio e dei monti, sotto il sole pieno, gli ospiti mi accompagnano per la scesa ciottolosa del ritorno. Sotto le ali bigie del lobbia, la faccia nubila di Papini trova un’ impostatura paesana, una bonomia che la rischiara.
Gip, un cucciolo da pecoraio sempre in ruzzo, intrampola i nostri passi; e la gattina bionda di casa, smilza e sottile, ci segue col suo trotterello sbadato, senza rumore.
Sotto lo Spicchio, dalla sassaia della croce, una serpe lunga, un frustone, sbuca al sole e a spire lente traversa i nostri passi e il sentiero.
Le donne di scatto arretrano per l’antico ribrezzo; la gattina s’ inarca a un tratto, tutta meraviglia e difesa. Solo Papini placido spinge avanti il volto curioso e pare che i suoi occhi miopi d’ eterno lettore, sul lungo dorso variegato del serpe, decifrino una parola.
Agosto 1925.
Da Donne e buoi dei paesi tuoi, Vallecchi editore, Firenze, 1943
Vittorio Vettori
Il Casentino e l’homo viator
Il Casentino è terra di poeti e per poeti, forse perché vi ha la sorgente “il fiumicel che nasce in Falterona”, l’Arno “balsamo fino”, cantato dal Medioevo fino ai giorni nostri.
Dal passo della Consuma, lasciandosi alle spalle i tratti rinascimentali del paesaggio della Valdisieve, si apre in tutta la sua evidenza la nudità agreste della vallata del Casentino, come un invito a un viaggio nel tempo, con davanti – per citare Dino Campana – “La Falterona verde nero e argento: la tristezza solenne della Falterona che si gonfia come un enorme cavallone pietrificato, che lascia dietro a sé una cavalleria di screpolature screpolature e screpolature nella roccia fino ai ribollimenti arenosi di colline laggiù sul piano di Toscana”.
Una tappa obbligata è Stia, e quando, in piazza Tanucci, siedo da Filetto per una scodella di acquacotta, mi viene naturale immaginare il trafelato hidalgo, che fece coincidere la sua opera col viaggio da Marradi al Casentino ed alla Verna illuminò, in un verso, ”una colomba si librava molle”, la più alta icona francescana della poesia del Novecento.
Il Casentino, inoltre, nel primo Novecento, è stato al centro di grandi eventi e intrecci culturali.
Basti dire che Prezzolini, homo viator, racconta di avere ideato “La voce” , in una “passeggiata” di quaranta chilometri dalla Consuma fino a Bulciano, dove Papini abitava in estate.
Vittorio Vettori, casentinese di Castel San Niccolò (1920-2004), poeta e saggista (studi su Dante e la sua opera), che con Prezzolini intrattenne un importante epistolario, ha continuato “quella” vocazione a dilatare tempo e spazio in un presente più consapevole.
Di Vettori, chiudendo questa nota sul tema dell’Arno, che “per mezza Toscana si spazia”, presentiamo la poesia “ Specchio e musica” (da Metanovecento, Mauro Baroni editore, Viareggio-Lucca, 2000).
Specchio e musica
Mia nativa acqua d’ Arno, che conservo
sempre dovunque vada, come specchio
al sensibile mondo e come musica
intima, come murmure segreto,
mia nativa acqua d’ Arno che mi segui
sempre dovunque vada, nel mio petto
chiusa come una voce e nello sguardo
aperta come un’ onda che rifletta
quanto trascorre sopra lei nel cielo,
restami amica tu, mia vena d’ Arno,
specchio e musica tu, musica e specchio.
FILIPPO NIBBI E LA “FANTASTICA” STORIA DI CORTONA
La “fantastica” storia di Cortona ha radici lontane. In una delle prime guide che si conoscano, stampata a Roma nel 1639, Giacomo Lauro collega Cortona alla stirpe di Noè:
“Il regno di Crano venne chiamato Turrenia perché le città che la discendenza di Noè costruì avevano alte torri. Questo fu il primo nome della Toscana e Turreni furono chiamati i suoi abitanti”.
I “turreni” avrebbero dato vita al popolo greco per poi tornare, dopo la guerra di Troia, a Cortona.
Ulisse da ad Itaca sarebbe tornato in Italia e più precisamente in Etruria, nella città di Curtonaia e sepolto sul monte Perge. Si aggiunga la leggenda che anche Pitagora avrebbe abitato a Cortona, nel sito archeologico detto “la tanela diPitagora”.
Che il nome Tirreni venisse da “turreni” e questo da “torri” è davvero un’etimologia…fantastica.
E, guarda caso, Filippo Nibbi, poeta, nato a Cortona, ha, per pura coincidenza, fondato la “Fantastica”, “momento di autenticità assoluta conseguito mediante la re-invenzione linguistica e la ri-fondazione della realtà”, come riporta il Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli.
Esempio: da Shakespeare: “Il mondo intero è una ribalta”, oggi si traduce ”il mondo intero dà di balta”
Nibbi è anche autore del poema “Parlando di mio nonno Polifemo”, in cui riscrive – “fantastica-mente” – proprio la storia di Cortona e sceglie, come capostipite, Polifemo, dunque la radice autoctona, antimitica.
Questo poema è un’opera di stupefacente gestione del reale, del mito e degli etimi, in cui narra, con la voce trepida del bambino che il poeta era nel secondo dopoguerra, la scoperta della vasta galassia di acque terra della Chiana.
Una figura fra tutte, il “bove gigante” simbolo del maltollerato dominio dei Medici su Cortona.
Infatti, “Al tempo della dominazione medicea, il cardinale Giovanni de’ Medici, divenne intimo amico di Silvio Passerini di famiglia Cortonese nobile che aveva come stemma un bue ritto su tre monti.”
E Nibbi scrive: “Si racconta di un bove gigante/che passava la notte all’aperto:/la sua stalla era ai piedi di un monte./Per paura del bove i bambini/si attanagliano al collo dei vecchi.”
E tutto con la felicità/facilità di una neolingua che certamente attinge alla ilare vocalità “ctonia” degli etruschi, sempre da decifrare come “le nebbie del Nibbi”
Las casa natale
Era il Loggio una casa in cui stava
il mio babbo con Pietro Pancrazi,
con Gigetto e altri amici.
Con la luna e col sole si stava
sotto un grande loggiato che vede
la campagna. Si amò il Trasimeno
e le strade che vanno
con l’abbàio dei cani a rimorchio
di universi.
Paesi come puzzle
Tra paese e paese c’è spazio:
il contorno dei muri non varia.
Si è portati a iniziare un bel gioco,
disponendo i paesi a memoria:
è sicura che i loro contorni
poco dopo riaffiorano in sogno.
Si racconta di un bove gigante
che passava la notte all’aperto:
la sua stalla era ai piedi di un monte.
Per paura del bove i bambini
si attanagliano al collo dei vecchi.
Pesca in Val di Chiana
Nella Chiana si pesca l’anguilla:
chi ha pazienza ne trova a bizzeffe
(ora no, perché il fiume è inquinato):
Mentre il luccio è una pésca più dura:
per finirlo occorreva un coltello.
Più difficile è vendere il pesce,
nonostante ci sia la vigilia
che costrinse a comprarne dei chili.
PISTOIA
RITORNO A PISTOIA CON GIANNA MANZINI
Gianna Manzini (Pistoia 1896 – Roma 1974), scrittrice elitaria di grande prestigio, raggiunse l’attenzione del vasto pubblico col romanzo “Ritratto in piedi”, del 1971”, per il padre anarchico- antifascista, amico di Malatesta e di Gori, confinato a Cutigliano dove morì nel 1925 per le persecuzioni del regime.
Qui la Manzini ne ricostruisce l’immagine evocando frammenti della memoria, con una prosa mossa e imprevedibile, fortemente poetica.
Non a caso Giacomo Debenedetti scrisse “certamente la Manzini è riuscita e riesce a pronunciare parole che, fino all’attimo precedente, avevamo creduto impronunciabili […..]in tal modo […] ci può descrivere un visibile che anche noi dovremmo vedere, ma da soli non vedremo mai”.
Insomma, un’opera di prosa tramata da una trepida nostalgia della città d’origine, Pistoia, dove era cresciuta col padre, prima che questi fosse confinato.
Io, a ventanni, ho potuto muovermi in quel vivo scenario, come soldato di leva, alla caserma Marini, dal luglio del 1960. Una data che è una macchia nera della storia d’Italia.
Tuttavia, i miei / nostri ventanni, naturalmente “anarchici” secondo il principio ineludibile di “libertà vo cercando…”, non potevano essere piegati da un tentativo di “golpe” e alla liberuscita ci sperdevamo felicemente per le strade della bella Pistoia, ognuno fedele a se stesso, come in questa strofa di una mia poesia dal titolo Soldato : “ Si viene da tante parti,/ ognuno ha la sua Storia:/il pastore racconta la Sardegna/che parla con le bocche dei fucili, /i contadini sono radici,/a guardarli, negli occhi nelle mani,/gli operai sono fatti/di tubi ruote e catene…”
Una stagione indimenticabile di cui, però, si erano sfumati i dettagli che ritrovo ora nel rileggere queste righe della Manzini:
“…E i nomi di alcune strade. Via del “T”, via del Pizzicone, via Abbipazienza… ; e il giardino pubblico di piazza Mazzini, col busto di Cino: una pena vedergli il naso rotto, a lui, un poeta; e 1’ora rituale del passeggio, al tramonto, con le ragazze da marito; due passi avanti alle mamme e alle zie; e i tanti odori. Ma esisteranno ancora? Ogni terrazza versava torrenti di glicine ; e che gara, fra chi aveva orti e giardini, per la piantina che nessuno ce l’ha, rèseda, vaniglia… Mai più visti mughetti, cosiì veementi e altrettanto carichi di profumo.”
In questo contesto “floreale” si muoveva il padre della Manzini, Giuseppe, anarchico”scalmanato” dall’animo gentile: …prediligeva le gaggie. Talvolta ne portava una all’occhiello. O ne teneva un minuscolo mazzolino legato col filo bianco in un vasetto simile a un portauovo. Un fiore così poco appariscente; ma così intenso. Non avrebbe dovuto aiutarmi quella sua scelta a capirlo di più?”
Anche noi, reclute, girovagavamo proprio in quello scenario, per fare tappa in piazza Mazzini, ancora oggi ritrovo per i giovani pistoiesi, in una città che conservava il passo lento e misurato della provincia, con una sua esibita dignità
Piazza Mazzini, che il fascismo nel 1928 ribattezzò di San Francesco, non sapendo di esaudire così un desiderio “francescano” di Giuseppe Manzini e di tutti gli uomini di buona volontà, anarchici e insieme francescani e dove noi, fra una chiacchiera e l’altra, gettavamo briciole di focaccia ai piccioni che ci zampettavano intorno,
Infatti l’autrice ricorda l’ultima richiesta del padre, disattesa, che da sola racchiude il senso intero della sua vita: “Avrebbe voluto per la sua sepoltura, e lo disse, non fiori; bensì piccole ciotole col miglio per gli uccelli, Quanti ne sarebbero venuti. Che canti, che voli dall’alba al tramonto. Che compagnia. E non per me soltanto”…
Anche un poeta, volendo, non può chiedere di più del grande anarchico Giuseppe Manzini.
PISA
DINO CARLESI: LA MEMORIA DEL NORD, OVVERO L’ATTESA DEL PESCE ROSSO
Per chi ami la poesia, i nomi di Luciano Erba, Giovanni Raboni, Clemente Rebora, Vittorio Sereni e poi Giorgio Gaber, Enzo Iannacci, Roberto Vecchioni, richiamano alla mente una Lombardia cólta, europea, non chiusa in un perimetro etnico.
E in anni non lontanissimi la parola “padana” faceva pensare solo ad una”pianura” per la quale Attilio Bertolucci cantava “Le gaggie della mia fanciullezza/dalle fresche foglie che suonano in bocca.”, e Corrado Govoni coglieva la luce/ombra del crepuscolo sul Po “Dove il fiume fa un ansa e il sole cuoce/sopra gli spini l’oro dei ramarri/è dolce quel tremare dell’acqua buia…”
Questo il nord, un mito da visitare, nel suo sfumato di nebbia, di terra e di cielo e nelle sue geometrie di città futura, vivificato dal mito mediterraneo di Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Raffaele Carrieri, Rocco Scotellaro che lo sradicamento rendeva anche più sinergico, come ci ricorda Quasimodo nella sua famosa “Lettera alla madre”.
Tuttavia erano anche anni nei quali un oscuro personaggio, infiltrato nei salotti letterari fingendosi poeta dialettale per uscire dall’anonimato, si preparava, come il tarlo, a distruggere tutto ciò e a esprimere poi, col ”celodurismo” del dito medio, lo “spirito” di un nuovo stato, la Padania, chiuso in se stesso come un feudo medievale.
Anche se la parola padania è solo una parola (un nome simile a quello degli staterelli da operetta dei film di Stanlio e Ollio), magari si potrebbe usare in risposta per la frase “vai in Padania”, come dire “vai a quel paese”.
Come toscano di adozione, noi abbiamo avuto un poeta e storico dell’arte, Dino Carlesi, scomparso a Pontedera lo scorso anno, che può essere preso a modello della naturale apertura.
Nato a Milano nel 1919, nella sua lunga vita ha fatto opera di promozione dell’arte del Novecento quando ancora non era stata ufficializzata.
Ricordo le Biennali da lui organizzate a Pontedera dove, con spirito lungimirante, evidenziava artisti e movimenti in tempo reale come, per dire, il neonaturalismo patrocinato da Francesco Arcangeli.
E non amava le faide municipali. Quando Quasimodo vinse il premio Nobel e i poeti ermetici fiorentini, per contrasto, negarono al “geometra” che aveva ricevuto un così alto riconoscimento l’accesso ai propri salotti, fu Dino Carlesi ad accoglierlo nella sua “terra di litorale”, come narra in una sua poesia. A Salvatore Quasimodo: “Dopo Stoccolma/tu Giacomo ed io/guardavamo il mare di Calafuria…”
Inoltre Carlesi pubblicava e inviava agli amici, come augurio di buon anno, un libretto di poesia e prosa a bassa tiratura a cui abbinava l’opera grafica di un artista .
Io, questi libretti li ho conservati sia perché rappresentano una rarità bibliografica, ma soprattutto come prezioso ricordo di Carlesi, a cui ero legato da grande amicizia.
La sua scrittura era caratterizzata da uno stile in cui erano compresi dialogo ed elegia, intelligenza ed emozione, tipico della linea lombarda.
Egli sapeva che non si ha realtà senza poesia, un esempio questi versi per la sua amata Pisa: “La piazza dei Miracoli vera/è quella di Viviani/l’altra è falsa:/è senza cani./Il Battistero d’alabastro/una mattina/gli fiorì dalle mani.”
Fra i suoi testi, scelgo qui non a caso Il nord racconta dove il poeta propone la Milano della sua prima infanzia: “la memoria del nord”, con i toni teneri che ricordano inoltre da vicino il gusto impressionistico di Bertolucci e Govoni, e che conclude con un’immagine universale: “soltanto speranze/sul volto mite di mio padre”.
Il nord racconta
Il nord racconta piano alla vecchia memoria
perfino i tetti, le strade di Milano
sulla neve orme che sanno
i sentieri dei portoni,
scie calde di passanti
con storie di fiato narrate
alla luce dei lampioni.
Il nord ha scritto da tempo sere di silenzi
e fulmini e stupori,
gli occhi perduti nell’ansia delle vetrine
delle folle dei gridi delle sirene.
Morivano case e lamenti
sui canali di periferia, col vecchio cappotto,
il treno, un treno verde di latta.
Memoria di ruggiti
di circo di pennacchi da ragazzo,
di attese del pesce rosso
che ci salutasse in superficie: soltanto speranze
sul volto mite di mio padre.
Da Impronte digitali, Scheiwiller, Milano, 1981
PISA: PIAZZA DEI MIRACOLI NEI VERSI DI ROBERTA DEGL’INNOCENTI
Spesso sono luoghi particolari a rendere memorabile una città. Non di rado è la cattedrale con la sua piazza che si popola di visitatori.
Ciò vale anche per Pisa, col Duomo al centro di «Piazza dei Miracoli», così definita da Gabriele D’Annunzio per lo stupore e l’ammirazione che coglie chi si trova di fronte al candore dei marmi e al verde smeraldino della piazza erbosa.
Per me, poi, che ho fatto il servizio di leva nella attigua Via Roma, la piazza era il naturale approdo della libera uscita, ricordata in una quartina del mio ultimo libro:
“com’ è piccola Pisa /col suo campo smeraldo/e la gente che passa/attaccata ad un filo/di matasse d’azzurro.”
In effetti, Pisa e il suo territorio hanno luoghi e momenti di luce folgorante.
Roberta Degl’Innocenti, nella poesia su Pisa in allegato, affida emozioni e sentimenti che questo habitat sollecita ad una compiuta modulazione del verso, sintesi di un complesso sostrato culturale.
Ricordiamo che l’autrice opera a tutto tondo, dalla critica alla narrativa, ha al suo attivo un ciclo di conferenze sul rapporto fra poesia e psicologia; presentazioni in Firenze, presso il Caffè Storico Letterario Giubbe Rosse, le librerie Edison Book Store, Martelli, Alfani, il Centro d’Arte Modigliani, ecc.
Questa sua visitazione della piazza del Duomo, in un tardo pomeriggio invernale, è “folgorata” dalla luce, tanto da titolare “folgore di bianco” il testo dove alla dissolvenza fra la geometria e la luce dei monumenti si aggiunge l’intreccio di colori e suoni delle bancarelle che stazionano sul lato della piazza.
L’incantamento è dichiarato già nei primi versi dove la “filigrana della pioggia” panneggia “leggera” la “folgore di bianco della Piazza” e in quel “cerchio acceso” anche “le parole si piegano all’erba mossa del prato”, al modo delle “fresche parole” dannunziane.
Poi, mentre la sera “si sveste dei colori”, la piazza “sorride un po’ sorniona” e la città, con le sue “note dolci e strane”, sembra carezzare chi candida/mente vi si attarda, il nitore dell’assoluto e la festa del quotidiano si uniscono in un “fermo d’immagine” che, rimanendo vivido nella memoria, sfida il tempo.
FOLGORE DI BIANCO
(Pisa, in dicembre)
C’è una pioggia leggera in filigrana,
Piazza dei Miracoli è folgore di bianco,
si stagliano le sagome improvvise,
quasi un senso remoto, fanciulla
che si perde, ombre segrete trepide.
Nel cerchio acceso si piegano parole
all’erba mossa, inginocchiata fiera.
D’intorno il sogno è tintinnìo cortese,
le bancarelle giocano dicembre
in ritmi lenti e dondolìo di corpi.
Suadente la sera, si sveste dei colori,
sottile quanto basta al candore
di battiti gentili.
Nastri funamboli rotolano intatti
di giocolieri e fate madreperla.
Mi sorride la piazza un po’ sorniona,
in attesa composta, quasi un vanto,
al turgore bagnato del respiro.
Carezza inquieta, folletto impertinente.
Città Mistero di note dolci e strane.
Dal libro di Roberta Degl’Innocenti I graffi della luna (Edizioni Del Leone, 2012)
LUCIANOFUSI E IL PAESE DI BUTI: IL CORPO DEL LUOGO
Luciano Fusi, nato a Pontedera, attualmente, risiede Ponsacco (PI) dove, nel 1997, ha fondato l’Associazione Culturale e teatrale “Il Teatro di Campana”.
Da un’accurata scelta della propria produzione letteraria sono stati pubblicati alcuni volumi quali: “ Rivolte di passione” (1986) a cura della Provincia di Pisa e del Comune di Pontedera, “Nuovi idilli” 3°quaderno della rivista letteraria “Ghibli” (1992), “Il corpo del luogo”, (1996), Piero Manni ed. Lecce, “Nonostante voi”, (2000) Piero Manni ed. Lecce, “Nel ricordo d’antico Sogno” (2002) ed. Bandecchi e Vivaldi, Pontedera, “Immagini di scrittura” a Che Guevara, (2007),ed. Felici Pisa, “La stanza di Haar” (2009), ed. Felici Pisa.
Nel libro “Il corpo del luogo” Fusi considera i paesi del suo “viaggio” come corpi vivi, pulsanti, condividendone addirittura il respiro, e in questo senso li interpreta.
Lo storico Giorgio Barberi Squarotti, prefatore dell’opera, vi nota una struttura di tipo espressionistico che si placa quando il poeta si ferma ai “paesi dell’esistenza e dell’anima”, Buti e Pontedera, dove il discorso diviene “descrittivo – evocativo”.
Poi Squarotti cita il testo Buti di carne di sassi come uno dei più enigmatici e fascinosi.
Vediamo perciò di sciogliere “l’enigma” e descrivere “il fascino” di Buti, paese ricco di memoria e di una vita culturale, legata al Maggio epico che ha radici anche nella storia dell’antico borgo medievale, coronato da otto castelli per difendere la sua posizione strategica sui Monti pisani, al tempo delle lotte di conquista fra Lucca, Pisa e Firenze.
Di ciò scrive Carducci in Faida di Comune, dove traduce al presente, in una sorta di tableau vivent, un incontro/scontro fra pisani e lucchesi e fa dire a Bonturo Dati, capo della delegazione lucchese che restituisce Buti ai pisani: “Bacchian li uomini le rame, /Le fanciulle fan corona, /E di canti la collina / E di canti il pian risona…”.
Mai castello di pietra espresse una maggiore pulsione di vita. E forse l’enigma dell’ossimoro “pietra/carne” è stato risolto.
Il “fascino”, può darsi derivi, in un paese, dalla convivenza dell’antico col moderno, in questo caso affidata alla voce di Pietro Frediani, famoso“poeta pastore” della prima metà dell’Ottocento, lettore dei Classici e autore di Maggi, il quale in un’ottava avverte: “Chi viene a casa mia per onorarmi / Spinto da fama o da curiose voglie / Invece di salir puliti marmi/ Vede rozzo macigno aver per soglie..”
Tanto che, per suo merito, Eugenio Montale, frequentatore del paese per la dimestichezza con un importante poeta locale, Leopoldo Baroni, definì Buti “il paese più maggesco della Toscana”.
Questo avverte Fusi quando scrive di “uomini nel doppio di ognuno”, di “più voci sovrapposte/, strumento di un madrigale da piazzale”, di “figure dai passi arcuati e rotondi” come di antichi castellani, del “largo /dove si allungano le facce dei più giovani” per “sentire lontano il caldo muscolo delle case” Così, nel visitare un paese se ne incontra “il corpo del luogo”,
Buti di carne di sassi
Per il paese
uomini nel doppio di ognuno vanno
in ombre scalze per i vicoli senza voltarsi.
Li ritrovi poi
a pronunciare le labbra nella bella sera
in dialogo dialetto a più voci sovrapposte
strumento di un madrigale da piazzale.
Di Buti figure dai passi arcuati e rotondi
nel poggiare i piedi nello schiaffo del largo
dove si allungano le facce dei più giovani
a cercarsi inconsci nella controviolenza
per altri versi appena dolcezza nell’indolenza
di sentire lontano il caldo muscolo delle case
e delle strade disperse
d’innamorata pietra urbana
quasi fiorita all’udito estremo
che mischia resistenze umane nella calcina del luogo.
LUCCA
PIERO BIGONGIARI
Pescia-Lucca
Ho vissuto
nelle città più dolci della terra
come una rondine passeggera.
Lucca era
un nido difficile tra le vigne
impolverate, in fondo a bianche strade,
donde sarebbe traboccata
con ali troppo folli
pe’ tuoi cieli molli, Toscana,
antica giovinezza.
Malcerta ebbrezza, malcelata infanzia
lungo le case di Lunata
sfiorate in tram accanto al guidatore,
la morte è questa
occhiata fissa ai tuoi cortili
che una dice sorpresa
facendosi solecchio dalla soglia:
è nata primavera,
sono tornate le rondini.
Da Le mura di Pistoia, Mondadori, Milano 1958: Pescia-Lucca
ENRICO PEA – GLI ANGELI DI SERAVEZZA
Enrico Pea (Seravezza, 29 ottobre 1881 – Forte dei Marmi, 11 agosto 1958), poeta e narratore, ebbe successo soprattutto nella prosa, a partire da Moscardino – 1922, con opere in cui espresse una tormentata tensione religiosa personale e tipica di un contesto popolare segnato dalla povertà e dall’emigrazione, mosso da grandi contrasti sociali e mutamenti di costume; il tutto narrato al di là del verismo, in un quadro di saggia rivisitazione e di poesia.
Ebbe una Gioventù avventurosa. A partire dagli anni Venti fino agli anni Cinquanta dette vita a Forte dei Marmi, all’ombra del quarto platano del caffè Roma, ai mitici incontri estivi, con gli amici Ungaretti, Malaparte, Gadda, De Robertis, Montale, Papini, Moravia, Pratolini e tanti altri.
Altro suo merito, avere recuperato i Maggi epici, che, a suo avviso, “vanno visti, nei gesti e nei colori, e uditi nella loro declamazione cantata”. Un interesse da me condiviso.
E se, come ha scritto Eugenio Montale, in una poesia a lui dedicata (All’amico Pea, da Il Ponte, luglio agosto 1978), egli, “come scalpellatore di parole e di uomini”, ancora “sta prendendo appunti/per dirci cosa è oltre le nubi”, dovremo intanto ringraziarlo per averci mostrato, nei suoi scritti “terrestri”, gli angeli “scalpellati” dagli artigiani nelle botteghe di Seravezza, suo paese natale, dove “si creano dal marmo i santi con le trombe ed i guerrieri minacciosi.”
La pagina sugli angeli (da Il volto santo) è da lui “incisa” in una prosa lirica col ritmo armonioso e insieme sincopato degli artigiani medesimi dei quali, in un periodare strofico, coglie la gestualità.
“C’ è chi smodella e sgrassa con la subbia a punta quadra.
Chi rifinisce le pieghe dei panneggiamenti con raspe curvate larghe come coltelli, o tonde e a punta come code di topo.
C’ è chi dà movenza ai fiori, con uno strumento curioso che prilla, mosso da una funicella tirata da un bardotto, mentre il maestro guida la punta del trapano roditore, sotto le foglie dei fiori, che si fanno leggeri come fiori incantati.
E chi inanella i riccioli… .
E chi piega le ali sulle spalle degli angioli.
E tutti cantano.”
La nota finale coglie gli scultori che, nel soffiare via la polvere dal marmo finale, sembrano dare vita alla loro creazione:
“Gli artefici, hanno un berrucco di carta in capo e il viso infarinato come i pagliacci.
Fischiano, e soffiano nella faccia degli angioli per togliere la polvere.
Quel fiato umano sul volto dell’angiolo di marmo statuario, a me ragazzo dava soggezione di essere al cospetto di Dio e della sua creta.”
Ma l’Angelo primario, per il poeta, è quello mariano, evocato nei suoi “recitativi” che molto somigliano a quelli medievali, rivisitati e cantati, a cielo aperto, nei ritmi iterativi dei Maggi epici della sua terra, con una retorica arcaica che rimodula la voce monodica dell’angelo.
Mi faccio bimbo e ti chiamo Maria
e mi risponderai come rispondi
ai piccolini cui inanelli il capo.
Rimanda il tuo Angelo custode:
il poeta è creatura che si turba,
ché ha paura di restare solo.
Da Arie bifolchine, Vallecchi, firenze, 1943
POESIA A LUCCA, UNA VOCE PER ILARIA: LAURA MARIA GABRIELLESCHI
Lucca, nonostante il suo stare in disparte rispetto alle grandi città d’arte, ha il fascino particolare di una “bomboniera” – come è stata definita – ove Ilaria di Jacopo della Quercia, ispiratrice di innumerevoli poesie, sembra quasi con la sua morte avere magicamente fermato il respiro del tempo.
Pasolini vede addirittura l’Italia perdersi nella sua morte: “Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia/Perduta nella sua morte, quando/La sua età fu più pura e necessaria”.
Forse per questo è la città più cantata e narrata dai poeti: per limitarsi agli italiani si annoverano Dante,Tasso, Alfieri , Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale, Quasimodo, Gatto, Pasolini e tantissimi altri, come documenta l’antologia “Poesia a Lucca” di Dante Maffia (Pacini Fazzi editore, Lucca).
Corrado Alvaro, riferendosi alle sue scenografie e al parlato cantilenante del suo popolo, scrive: “non sembra, camminando per Lucca, di leggere ancora Dante?” e Mario Tobino aggiunge: “Perché ami così Lucca?/Perché è un villaggio,/nonostante i marmi/ne ha il cicaleggio.” Tutto ciò determina anche, all’opposto, di rompere l’incantesimo, per avventure individuali rigeneratrici.
Non a caso Ungaretti si scopre “con terrore nei connotati di queste persone” e, per non perdersi nell’immedesimazione, conclude: “in queste mura non ci si sta che di passaggio”, così il Serchio rimane solo uno dei “fiumi” della sua vita.
Il Serchio, che pure, come scrive Pascoli, è sinonimo della sua gente: “O Serchio nostro, fiume del popolo! /Tu vai sereno come un gran popolo.”
In questo contesto, così arcaico, anche la donna conserva una sua connotazione, come la canta Pieraccio Tedaldi ai tempi di Dante: “La gaia donna che del mio paese/vidi fra l’altre donne ch’eran tante/ col velo in capo e con le trecce avvolte/adorna acconciamente alla lucchese“.
Laura Maria Gabrielleschi (poetessa neolirica che traggo come viva testimone dall’antologia di Dante Maffia) si è formata in una città così fortemente permeata di suggestioni. Fra le sue colline e le rive del fiume, cui scendeva quasi ogni giorno per raccogliere i sassi piccoli e bianchissimi, si è svolta la sua adolescenza e il “male” di scrivere è nato proprio dentro quelle le Mura, anche se da anni vive a Grosseto dove svolge attività di promozione culturale.
Di lei si evidenziano alcuni libri prefati da Dario Bellezza e Franco Loi, con i quali ha vinto importanti premi di poesia, fra cui il Montale 1997 e dei quali si sono interessati alcuni fra i maggiori poeti e critici del secondo Novecento.
Nei testi dedicati a Lucca, la sua poesia, continuamente mossa e commossa fino a sfiorare il silenzio, sembra nascere dal riverbero del”parlato” antico di cui scrive Alvaro e vive del contrasto fra la totale identificazione con la città, il necessario distacco e la nostalgia del ritorno (“ho i tuoi marmi candidi/immersi nel sangue,/ho i tuoi odori festosi/dei primi anni”).
Fiume Serchio
Sulle tue sponde
mi rifugio
caro fiume Serchio
io e te sotto lo stesso cielo.
Osservo quieta
il gioco dei gabbiani.
i pensieri come rami
si spezzano sotto il maestrale
Invano sfioro la mia ombra.
L’acqua fluisce come una colpa.
Sono sterile qui.
Sulla terra.
Scenderò smemorata nel limbo.
Inedita 2001
LA NATIVITÀ DEL MAGGIO DRAMMATICO DELLA GARFAGNANA – IN UN’ARIA DI NATALE
Nel Maggio Drammatico della Garfagnana “La Sacra Rappresentazione della Natività” spicca fra le altre che trattano temi diversi, legati alla tradizione epica e cavalleresca.
Per dare voce a questo evento qui i pastori, non di gesso, come nei presepi consueti, ripartono da se stessi; da tempo remoto partecipano alla compilazione dei testi, alla esecuzione delle basi musicali che vengono da lontano, lente, iterative, modulate lentissimamente come le voci dei personaggi che si alternano, muovendosi con gesti elementari ma regali, indossando costumi per lo più fatti in casa, su una nuda scena nella quale la Sacra Rappresentazione assurge a “evento medievale”.
Essi ci riconducono alle origini, al momento nel quale passione e compassione, sorpresa per il Nuovo che stava irrompendo nella Storia e presa di coscienza di un ruolo in funzione di un riscatto da pagare addirittura col sangue, coincisero con la ricomposizione del divino nell’umano e viceversa.
Ricordo una Rappresentazione della Natività tenutasi molti anni orsono a Firenze nella chiesa di Santa Margherita a Montici, interamente restaurata intorno al 1970, il cui interno a una sola navata, col tetto a capriata, dava la suggestione di tornare molto indietro nel tempo.
Fu “cantata” dalla Compagnia della Gragnanella.
Ne conservo il copione ciclostilato, redatto dal grande ricercatore Gastone Venturelli, scomparso prematuramente nel 1995; un quaderno con molte segnature interne per averlo utilizzato in una scuola.
Peraltro, chi vuole trova il testo e un video in internet.
L’originalità di questo Maggio consiste nel “narrare cantando” della figura del Bambino, non ponendolo in primo piano, in funzione agiografica, ma nel “campo lungo” della Storia perché i “maggianti”, contadini e pastori, hanno conservato nel loro DNA la consapevolezza di un evento che ancora li riguarda in quanto si riferisce al riscatto degli Umili e degli Ultimi.
Giuseppe già immagina il “Pargoletto/tra gli affanni ed il periglio”, Maria lamenta un inverno gelido che molto somiglia a quello delle forre della Garfagnana: “Freddo vento, orrido inverno /
Sposo mio certo ci affanna” e Giuseppe conclude con la fatale presa di atto: “Sposa mia,per questo mondo / non vi regna altro che pianto”. Versi, peraltro, bellissimi.
– Giuseppe:
Madre Vergine del Figlio
Nostro, amabile e diletto;
già lo vedo Pargoletto
tra gli affanni ed il periglio,
– Maria
Freddo vento, orrido inverno
Sposo mio certo ci affanna;
su da questa umil capanna
incomincia il regno eterno.
Vedo il bue, l’asino accanto
stare al nudo e tremebondo
– Giuseppe
Sposa mia,per questo mondo
non vi regna altro che pianto.
E poi il lamento delle madri dei figli uccisi nella “strage degli innocenti” che nel tempo, in vario modo, sempre si ripete.
– Donne
Sventurate madri siamo
tutte quante ai nostri tempi
Della plebe enormi scempi
da Giudea oggi vediamo.
Ma nei Maggi il Bene deve sempre vincere sul Male, tanto più in questa Rappresentazione e ricordo l’alta voce del cantore, nella chiesa di Santa Margherita a Montici che sembrava più grande nel farla risuonare, a cui era affidato il messaggio finale del Bambinello:
Sempre paventi l’empio / l’Epifania e rispetti. / Popoli miei diletti, /ci rivedremo in ciel.
Poi, uscendo dalla chiesa, sul sagrato, insieme ai “maggianti” che col loro Maestro Gastone Venturelli tornavano al pullman, la notte stellata, in un’aria di Natale, sembrò meno fredda.
LUNIGIANA: I CERCHI A MANGIA:
La tenibile alluvione della fine di ottobre, nella Toscana settentrio-naIe e nella Luniglana, è avvenuta mentre stavo concludendo una ri-cerca S\Ù luoghi dove si erano rifu-giati i Guelfi bianchi, dopo il bando da Firenze de11302, e, particolar-mente, i membri della grande fami-glia Cerchi, cacciata insieme a Dante. Oltre ad Arezzo, a Pisa e nel Mugello, i Cerchi si erano insediati in un paese della Lunigiana, Mangia di Sesta di Godano, già marchesato dei Malaspina, presso i quali proprio Dante si era soffermato nel 1306, dopo la sconfitta ghibellina al castello di Monteaccianico di Scarperia, prima di muovere verso la Francia. Ricordiamo, a conferma, la citazione dantesca dell’asperità del territorio lunense come termine di paragone di un costone del Purgatorio: “Tra Lerici e Turbia ,la più diserta ,/ La più rotta ruina è una scala , /Verso di quella, agevole ed aperta”.. Fra l’altro, ho rintracciato una curiosa omonimia: una famiglia del posto si chiamava Dighero, che è cognome diffuso nell’area spezzina. Giovanni Fenaroli, in “La vita e i tempi di Dante Alighieri”, del 1882, scrive che Dighero deriva da Aldighero, e questo è una variante di Alighiero, forse per una distinzione genealogica. Tornando ai nostri giorni, Mangia è un piccolo paese edificato dai Cerchi agli inizi de11300 e conserva ancora il mulino e altri edifici dell’epoca.. Ma c’ è di più, molti abitanti di Mangia, che sono una cinquantina, si chiamano ancora Cerchi e, colti nei video in internet, durante la coraggiosa reazione al fango, accostandoli con le immagini e i documenti disponibili dei Cerchi del 1300, ne confermano l’aspetto e la franca volontà di gruppo, di ripartire da zero e subito. Peraltro, questo entroterra è stato alluvionato insieme a Monterosso, Vernazza, Corniglia, Moneglia, luoghi di Eugenio Montale e di tanti altri artisti ed eletti dall’Unesco a patrimonio dell’umanità, divenendo infine Parco Nazionale protetto ad alta antropizzazione, caso unico in Italia. Ripartendo proprio dalla presenza umana, i Cerchi di Mangia intendono salvare, con le loro case, le cose e gli affetti e già hanno dato appuntamento, agli uomini di buona volontà, nel paese, per rimuovere il fango e ripristinare il paesaggio per riprendere quanto prima i rituali trekking nel verde che tanto ricordano la condizione dell’homo viator. Dedichiamo perciò, a chi è stato colpito da questa calamità, i versi scritti da Eugenio Montale, che delle Cinque Terre è il Poeta, per l’alluvione di Firenze nel 1966. L’alluvione di Firenze lo rimanda ad un’ altra calamità, quella della sua generazione separata dalla storia e in crisi di identità: “gli eventi/ di una realtà incredibile e mai creduta” per la quale il suo “stato civile fu dubbio fin dall’inizio”. Ma la Poesia , in realtà, sempre si ( ci) salva dalle acque dell’ emarginazione dell’assenza, appunto come si salvarono i Cerchi dalla diaspora, in tempi remoti,.con una nuova ripartenza.
In conclusione, due gemellaggi:
una comune calamità e un incrociarsi di luoglù: e di tempi fra Firenze e la Lunigiana…
Da Dante a Montale,
come in un cerchi/o
L’ALLUVIONE HA SOMMERSO
l’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, delle carte, dei quadri che stipavano un sotterraneo chiuso a doppio lucchetto. Forse hanno ciecamente lottato i marocchini rossi, le sterminate dediche di Du Bos, il timbro a ceralacca con la faccia di Ezra, il Valèry di Alain, l’originale dei Canti Orfìci -e poi qualche pennello da barba, mille cianfrusagIie e tutte le musiche di tuo fratello Silvio*. Dieci, dodici giorni sotto un’atroce morsura di nafta e sterco. Certo hanno sofferto tanto prima di perdere la loro identità. Anch’io sono incrostato fino al collo se il mio stato civile fu dubbio fin dall’inizio. Non torba m’ha assediato, ma gli eventi Di una realtà incredibile e mai creduta. di fronte ad essi il mio coraggio fu il primo dei tuoi prestiti e forse non l’hai saputo. *La poesia dedicata alla moglie, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1984 Ci sono tre diverse“letture” del verso dantesco: rotta ruina- romita via -minuta via. Quella che tu hai scelto è la più forte.
GENTE DI TERRA E DI MARE
I viareggini, gente di terra e di mare, nella loro accezione autoctona, sono “vageri. gente d’onore e di rispetto”, per dire col titolo di un libro del 1926 di Lorenzo Viani, il quale, sintetizzando,
riunì in questa definizione il nucleo dei pescatori poveri, i vagabondi, gli irregolari e, insieme, gli artisti e i poeti che su quella precarietà esistenziale svilupparono la loro poetica, anarchica e visionaria proprio in Viani, più affidata ad un primitivismo rigeneratore in Enrico Pea, Mario Tobino, Guglielmo Petroni.
In ogni caso, il dato essenziale di questa operazione consisté nell’individuare il punto in cui la natura si fa storia, conservando le correnti carsiche delle radici, poeticamente dilatate in una lingua ancora originaria.
Mario Tobino, viareggino di nascita, infine fiesolano a villa Olivetti, fu narratore, ma si dedicò anche alla poesia, per la quale, come egli scrisse, “si soffre soltanto, a meno che uno, rarissimo su milioni, non sia riamato dalla poesia”.
Tuttavia, questo “sofferta” elaborazione rende il testo più suggestivo perché risolto – con un franco labor limae – nel rapporto fra parole e cose, dando voce allo stupore e al dolore del contesto da cui scaturisce.
Così parla l’uomo di terra:“Scioglietemi il cuore, o monti sereni/che alimentate le antiche e ingenue foreste […] /sì che buono io possa guardare/la luce rossa del sole che muore/e adorarti, o Signore, /come un contadino saggio paziente”.
Questa nostalgia di tornare come e con gli umili, gli ultimi che sono “saggi e pazienti”, conferma la comune poetica di Tobino, di Pea e dei “vageri” per i quali, ripeto, la condizione di natura deve rimanere causa efficiente nel e del tessuto sociale; né, comunque sia, può essere omologata perché, per i viareggini, anche quando si muore, in un trasporto di fiori e di popolo, “ le onde sono le rose, i bastimenti sono le vigne”. E così parla l’uomo di mare.
In effetti, terra e mare sono costitutivi di un unico modo di vivere e di sentire per cui, alla fine, il mare diviene terra fiorita e vignata, abitata ed abitabile, anche per dopo.
Le onde sono rose
Girar per le strade
Cullate di notte dal rumore del mare,
entrar nelle case di allegre ragazze
svelte a picchiare sulle mani lunghe;
in darsena l’ascia tenere come una penna
sicura a disegnar bastimenti;
navigare fino alle fredde gole
che versano il vento del Nord,
e presto tornare a Viareggio;
essere uno che quando muore
gli fanno uno spontaneo trasporto
dolce di fiori e di popolo.
Questa è la gloria dei viareggini.
Le onde sono le rose,
i bastimenti sono le vigne.
Da L’asso di picche, Firenze, Vallecchi, 1962
FORTE DEI MARMI E “LA TENDA SELVAGGIA LONTANA”
Abbiamo narrato, in una delle precedenti puntate, di Bruno Cicognani sul Poggio Pratone di Fiesole, “supino” in mezzo all’erba come il pastore Menalca nella terza georgica di Virgilio.
Lo ritroviamo adesso a Forte dei Marmi egualmente “supino” questa volta sul fondo di una barca, nella materna accoglienza del mare, da lui defìnito “l’immensa sensibilità” e di cui offre un quadro perfetto nel quarto capitoletto intitolato “Forte dei Marmi” che nel libro “il figurinaio e le figurine” segue, non a caso, quello su Montereggi. Anche qui Cicognani parte dalle radici etniche, da una Versilia dove, andando in carrozza dalla stazione di Seravezza a Forte dei Marmi, si poteva incontrare “una fila di carri trainati da coppie di bovi -i bovi scuri della Versilia bassi, panciuti, con le corna spropositate; e i carri nani che quasi toccano terra, tozzi, con su, le masse de’marmi incatenati” che rallentavano il passo. Ma la strada, “ Che strada ! Fra gli olivi amarocupi tenuti su ad albero e i gattici tutt’un tremolio d’argento al maestrale”. E poi i pescatori, per quanto narrati con taglio veristico, emergono poeticamente come figure mitologiche: “i vecchi àn la barba ch’è schiuma di mare”, con cui egli condivide la natura silvana: “Io ho la mia tenda selvaggia lontana” dal “fìttume”.
Tant’è che, in un giorno di tempesta, si porta sull’estremità del pontile che” cammina come una nave; cammina nel mare: aumenta di velocità, mi porta in alto; mare con un crescendo di velocità”.Avventurandosi poi sulla riva, gli è possibile cogliere, in un flash, “ gli schizzi fin sopra i capelli” di ragazze in corsa” “ e acqua nel ritirarsi via subito, si lascia dietro una bella seminata di brillanti che non fanno a tempo, inghiottiti dalla rena, a rituffarsi nel mare”. Canto ed incanto quasi come in Ulisse di fronte a Nausicaa e le sue compagne, nell’isola dei Feaci. Infine le Apuane viste dal mare: “ Nudo, supino sul fondo di una barca a vela balocco in alto mare del maestrale, nell’ ora che ei si leva di sorpresa, a fior d’acqua, e a soffi leggeri rompe tutto il piano in fiotti che scoppiano bianchi e a spiaggia ripete più fitte le bianche orlature! Le Alpi si tingono tutte di rosa, e dalle strinature selvaggie, giù per le enormi ferite, per le venature di latte e per le macchie di sangue raggrumato dove la fascia degli uliveti cuopre i radicamenti …Chi è che non soffre di questa bellezza? Le Alpi si tingono tutte di rosa.” Mettessimo gli “a capo”, sarebbe uno scritto musicale in versi, con i due dodecasillabi finali: “Chi è che non soffre di questa bellezza? Le Alpi si tingono tutte di rosa.”
LIVORNO
Giorgio Caproni
Giorgio Caproni, nato a Livorno, nel 1922, a dieci anni, si trasferì con la famiglia a Genova.
La sua poesia è legata spesso a queste due città.
I versi livornesi sono contenuti in “Il seme del piangere”, Garzanti, 1959, dove egli fa rivivere il mondo della madre, Annina, immedesimandovisi e rendendolo universale attraverso il respiro poetico.
Chiarificatrice la citazione dantesca in esergo: …udendo le sirene sie più forte/pon giù il seme del piangere ed ascolta…”, ovvero, un viaggio oltre il pianto, seguendo un richiamo più alto.
Nella composizione Eppure, di cui qui riproduciamo la parte centrale, Caproni evidenzia il distacco di Annina da Livorno, nel giorno delle nozze, mentre saluta la città dal treno.
Il tema offre al Poeta un modo per eternare – con toni da ballata cavalcantiana – luoghi popolari e memorabili della città, dal Magazzino Cigni, casa di moda dal sapore ottocentesco frequentata dalla madre in giovanissima età, all’antico Teatro Avvalorati, ai Bagni Trotta e Pancaldi, al caffè liberty e popolano La Tazza d’Oro, ai luoghi degli incontri giovanili: le “barcate” sul Fosso reale del Voltone – ovvero Piazza Grande – e poi Calambrone e la spiaggia libera del Marzocco, dove non si pagava “scotto”.
Chi ama Livorno sa come il tempo vi sia in amore per una magia che intride terra, mare e cielo
in una imprevedibile insorgenza di vita che, per ossimoro, si fa poesia.
E Giorgio Caproni ne è il massimo, intimo cantore.
Da Eppure
….
Felice in pieno giorno
diceva addio a Livorno.
Addio a un Magazzino Cigni,
ai Trotta ai Pancaldi:
addio alla Tazza d’Oro e ai caldi
specchi, e addio ancora
(Annina era rapita,
correndo la sua intera vita)
ai fitti applausi sgorgati
dal cuore, all’Avvalorati.
Addio ai valzer d’erba,
notturni, e al Calambrone;
addio al Voltone
alle barcate matte
di ragazze, al tocco
vocianti verso il Marzocco
senza pagare scotto.
…
Da Il seme del piangere, Garzanti, Milano, 1959
Il Marzocco – Elaborazione al computer di Franco Maniscalchi
Omaggio a Giorgio Caproni
Livorno come una piega
dolceamara alle labbra
non fosse per quel mare
di terra e cielo di vie
dove ancora scompare
sul fare della mattina,
fuor dalle righe, Annina*.
Così cercando Caproni
– che più non c’era – e i suoi luoghi
leggeri come canzoni
felice mi persi in quel mare
di cielo, da navigare
– chiglia o piuttosto conchiglia –
di Annina
oltre le ciglia.
*Madre cantata dal poeta
MARCELLO LANDI: LETTERE DA LIVORNO
Marcello Landi nacque nel 1916 a Cecina (Li), ma, ci teneva a dire, da “casata” fiorentina.Visse a Livorno dove svolse un’intensa attività di poeta e pittore, a partire dal 1948 quando sottoscrisse il Manifesto dell’Eaismo (analogo al Movimento nuclearista), che fu inaugurato nel 1949 alla Casa Dante di Firenze. Componenti, oltre a lui, il poeta Guido Favati e i pittori Voltolino Fontani, Angelo Sirio Pellegrini, Aldo Neri. Un Manifesto rimasto nella storia dell’arte. Landi fu continuamente proiettato verso Firenze e la sua cultura, non a caso nel 1955 gli venne assegnato il prestigioso Premio Città di Firenze. Sentiva Livorno come un limite, e – tuttavia -il fuggirne quasi una colpa. In una poesia manoscritta in mio possesso, rivolgendosì a un’amica del paese d’origine, scrive: “ Ma / c’è un relitto, quaggiù, sogna una vela, la vela / che non c’è./ Resta ai Sabbioni, Franca” Firenze, ripeto, era il suo mito e la sua meta, e, forse, un immaginario ritorno ai luoghi della “casata”. Così, intrattenne con me un fitto epistolario al quale affidava le sue amarezze e ì suoì progetti che – nelle “fughe” da Livorno -veniva a manifestarmi di persona. Ricordo, una volta, sì era nel 1963, lasciata la casa di un famoso poeta, ormai sulla strada fummo nuovamente salutati dalla finestra aperta su Borgo Pinti e Marcello raggìante commentò: -Queste cose succedono solo qui…La complessa condizione di poeta anarchico nato nella Maremma superiore, inurbato a Livorno, dove coltivò ideali prepolitici ed echi nervaliani esoterico -onirici (Livorno mia,/ero un soldato nero / che porta una croce, in “Livorno mia”), con la mediazione dei poeti ermetici fiorentini si riscattò nella dimensione di un’utopia cosmica, metafisica. Questa miscela di terra e di cielo, di lucida melanconia e auspicato approdo in utopie ultraterrestri lo ha reso unico nella poesia del secondo Novecento. Come pittore sviluppò una tecnica di nette campiture che gli permise di realizzare paesaggi surreali, di grande evidenza, della sua Maremma e pare che l’ultimo Rosai, con cui ebbe contatti, abbia tratto spunto dalla sua opera per l’uso di toni più chiari. Questo mi disse Landi, a viva voce; mentre nello studio di Livorno mi mostrava le sue tele.
Nel 1977 si trasferì da Livorno a Roma, dove “il soldato nero che porta una croce”, dopo un vita
difficile e travagliata, provato dalla sua stessa sfida per la conquista di spazi assoluti, visse una stagione di decadenza fino alla morte nel 1993. Abbiamo abbandonato troppe cose che ci restano in gola; non c’è più la città sui gradini del mare, la città come donna del nostro cuore, anche se a volte, d’estate, la solitudine era spavento così rapita nel sole: non c’è più e tu non puoi tornare nel suo effluvio cercando il dono della giovinezza perduto in lei: di noi fu colpa o destino, il commiato. Non c’è più all’infuori del timbro di una lettera che un amico ti manda, e penso a te, Mario, parlavi con gli angeli e ascoltavi le nostre parole, asciugavi le lacrime con un sorriso e non si parlava degli anni, di questo inganno, brullo come l’inverno che inonda i vetri e l’ ansia dentro di risponderti, Mario, e di non dire…
Da Malmenati orizzonti,Editore L’Officina Libri, Roma, 1982
Giorgio Fontanelli, da Livorno alla “Maremma amara”
Giorgio Fontanelli, (Livorno nel 1925 – 1993), giornalista, poeta, critico letterario, raccoglitore di canti e testi popolari, drammaturgo e regista, docente di Storia dello Spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Carrara, è stato per lunghi anni pioniere della cultura a Livorno.
Andrea Mancini, nell’introduzione al libro “I sogni degli altri – Teatro e cultura a Livorno dal dopoguerra agli anni Ottanta” (opera postuma in cui sono raccolti molti suoi scritti), conclude: “Se oggi Livorno può essere madre di Paolo Virzì e di Bobo Rondelli, e insieme a loro di tanti altri artisti e intellettuali, lo deve anche a Fontanelli”.
Kiki Franceschi, artista e scrittrice di origine livornese ricorda: “Negli anni Sessanta alla casa della Cultura Fontanelli aveva portato il Living Theatre e vidi l’Antigone,rimanendovi sbalordita. Ecco, così doveva essere il teatro del passato e dell’oggi”.
Il mio primo incontro con Fontanelli- autore risale alla pubblicazione di una sua raccolta di poesie dal titolo ‘E bisognò cantare’, quasi una risposta alla celebre poesia di Quasimodo, “e come potevamo noi cantare”, ispirata a un brano biblico.
Poi ci siamo seguiti da lontano coltivando interessi e sentimenti comuni. Quando nel 1987 lesse il mio libro di poesia in dialetto “Le scapitorne”, frutto della rivisitazione delle radici contadine mi scrisse: “Io non credo che alcun poeta abbia mai dato di più, sacrificato di più, sperimentato di più sulla propria pelle”. E certo ricordava una sua analoga ricerca così riassunta in un questionario per “Poeti di Toscana” da me curato: “sono dovuto andare a cercare radici mie, e che sono -penso non male -espresse in quello che ritengo il libro dato con maggior amore e sofferenza: Georgicon V, la georgica cioè che Virgilio non scrisse, rivissuta senza civetterie di moda né suggestioni di Scotellaro, Tozzi o Fucini.”
E quella ricerca partiva da una ventosa Livorno (“Il solito/intrrminabile alterco/tra la costa e il libeccio9-/una coppia sbagliata/senz’amore né storia”) e conduceva ai contadini dell’Alta Maremma e alla loro storica estinzione.
Un pessimismo temperato dalla nascita del figlio Maurizio, con cui aprì un dialogo e gli permise di riscoprire il filo di speranza che lega le generazioni, già da lui enunciato nel libro “E bisognò cantare”:” …Non chiedo ormai per te – ma con i figli/torna per tutti un giorno come quello/che s’era fanti e stanchi, ma un villaggio/apparve a un tratto, e bisognò cantare”.
Un villaggio che Fontanelli conosceva benissimo, per averlo visitato nel cuore degli Avi, e dove ora, citando Foscolo, continua a vivere per avere lasciato “eredità di affetti”.
Da “Breviario di estetica”
…tu sai che tuo padre
non era mai stato a Parigi,
cantava a memoria soltanto
di un vecchio treno a vapore
che sapeva d’estate insinuarsi
tra le ginocchia strette
delle nostre colline –
cantava dei vecchi in Maremma
che separarono la terra dal mare
così come nel secondo giorno
fece anche Dio, e col badile
prepararon le tele ai pittori
del Rinascimento.
Poi tacque, perché la poesia
non sia la pianola
che, dentro uno sporco saloon
di risse e linciaggi,
rende sopportabile tutto.
RENZO RICCHI E IL TEMPO SOSPESO DELL’ELBA
Il rapporto simbolico fra le Isole e il Mare ha affascinato i poeti fino dai tempi di Omero e l’isola d’Elba, per le sue peculiarità, può essere presa a modello d’ispirazione.
Confermano ciò due grandi elbani, Raffaele Brignetti e Luigi Berti, i quali recuperano un rapporto col mare come habitat e destino ineludibile, con esplicite citazioni a Herman Melville, Joseph Conrad e Thomas Stearns Eliot.
Brignetti nella sua opera più bella, “Il gabbiano azzurro”, evidenzia tale esperienza del mare, come si evince da questa nota critica: “Uniformemente vario, inarrestabilmente impassibile, il mare fa affiorare ogni tanto un tessuto di storia e subito lo immerge”.
Ma in altre pagine si individua, con lirica accentuazione, la presenza dell’uomo: “…dopo un’onda, un’altra, cento, mille altre (…) la mia barca di riflesso le avverte e si inclina lasciandole passare…”
Berti rende più esplicita questa consonanza: “L’isola sei tu come le stelle/e gli uccelli del cielo, il fiore e la pianta del campo,/il campo stesso, la casa che fuma, la nave che si culla / in rada…”
Renzo Ricchi, poeta sempre in ascolto dell’anima mundi, è autore di numerose raccolte di versi nelle quali disvela con chiarezza l’onda dell’umano divenire e coglie il soffio originario della vita sfiorandone amorosamente il fluire eracliteo.
Né va dimenticata una sua radice “etrusca”, com’era in Vincenzo Cardarelli, con un interrogarsi sul destino proprio dei Tirreni, che doppiamente lo avvicina all’Isola.
Ed è dunque il poeta che meglio ha colto e definito la complessa tessitura creaturale di questa nicchia ecologica in un testo, Il luogo, dedicato a Marciana Marina, scandito fra visioni e lirici paradigmi, dove l’approdo serale dei gabbiani evoca un’antica memoria o un presagio, dove ha soltanto senso l’orologio del destino e la vita animale e vegetale se ne sta “nel cerchio lucido del cielo” e del tempo sospeso dell’isola.
Il luogo
Ogni sera
ad ora esatta
vi accorrono i gabbiani
in formazioni perfette.
Coltre tiepida e bianca
sullo scoglio corroso dai marosi
per antica memoria
o per presagio.
A vertice sul mare il sonno fa pace con le stelle.
È il luogo della morte e della vita
– rosa le piume all’ alba
nel balenare di luce e sangue –
né gioia né dolore hanno più senso
c’è solo l’orologio del destino.
A un giro d’orizzonte
ride la bouganvillea tra i rami d’oleandro
l’agave sterile dopo il primo fiore
tende al sole i suoi tentacoli
è un guardarsi di rami rive animali
senza un grido
nel cerchio lucido del cielo.
(Isola d’Elba, s. Andrea, agosto 1975)
SIENA
CATERINA TROMBETTI E MONTALCINELLO
Traversando le terre di Siena, nella linea ondulata del paesaggio si incontrano paesi lungostrada che si impongono allo sguardo con la loro antica bellezza, mentre altri, annidati in nicchie di spazio e di tempo, bisogna andarli a visitare per labirinti di strade.
Uno fra questi ultimi è Montalcinello, patria elettiva fino dalla prima infanzia di Caterina Trombetti, che, non a caso, scrive: “Curve, curve a non finire,/e finalmente la macchina,/giunta al quadrivio,/si è tuffata nella strada/che porta al paese.”
Aggiungiamo che la poetessa è stata allieva di Mario Luzi, per il quale Siena e le sue terre sono una “categoria dello spirito” e Pienza , dove è stato istituito il Centro di Studi che porta il suo nome, il luogo da lui prediletto.
Montalcinello si trova vicino a Pienza, nel susseguirsi di quelle pieghe di territorio assunte come modulazioni dell’anima, per cui si possono considerare realtà gemelle.
Lì Caterina Trombetti porta il suo contributo culturale.
Nata a Firenze, dove vive, ha pubblicato diversi libri di poesia ed è presente in varie antologie e riviste letterarie.
Nel luglio 2005 è stata invitata alla Biennale di Venezia e, nello stesso anno anche dall’Istituto di Lingua e Cultura Italiana nel mondo a Mosca e nel 2006 ad Algeri.. Per molti anni è stata amica e collaboratrice del poeta Mario Luzi e anche sua collaboratrice al Senato, dopo la nomina a Senatore a vita.
La sua poesia ha lo sviluppo armonico di una linea lirica dal messaggio sapienziale e il borgo di Montalcinello, che offre un tracciato medievale ben conservato, stradine (“chioche”) selciate, segni evidenti di fortificazioni e di casetorri, e una popolazione pronta all’accoglienza e disponibile al dialogo, è lo spazio ideale dove trovare la giusta misura della propria voce.
Montalcinello
Ancora una volta sono tornata
a respirare l’aria dell’infanzia,
che solo qui ritrovo.
Ancora una volta me ne andrò,
sola,
per i “chiassi”
a ricercare me stessa
e nei vicoli l’odore del pane.
E’ cambiato il paese
come io sono cambiata
e inutilmente cerco.
Ma nei “chiassi” deserti,
posso trovare ancora
le immagini di allora,
posso sentire risate e grida,
rimbalzi di pallone
sul selciato di pietra,
e vedermi
là,
nei giochi dei bimbi,
correre leggera.
(Da “L’obliqua magia del tempo”, Polistampa, Firenze)
GROSSETO
MORBELLO VERGARI, CANTORE DELLA MAREMMA
Fra i poeti toscani con testi in dialetto Morbello Vergari è , forse, il più noto, anche per il suo eclettismo che lo ha visto protagonista nel canto popolare, come fondatore a Grosseto del Coro degli Etruschi, ricercatore di tradizioni folk, volontario in campo archeologico (fu “custode” della città etrusca di Roselle dal 1955).
Ed è proprio questa ultima attività che gli permise di intessere rapporti con giornalisti, scrittori, musicisti e con gli esponenti della cultura grossetana.
Il poeta era nato 1920 a Santa Caterina di Roccalbegna. Figlio di minatore non poté seguire corsi di studio regolari, ma si dedicò a letture assidue e formative, come accadeva non di rado a questi talenti naturali.
Ricordo – ad esempio – un altro grande poeta popolare, Florio Londi, che Francesco Guccini chiamava il Londi di Carmignano, al modo di un antico condottiero.
Dalla bibliografia di Florio risulta che abbia attinto da “un armadio di libri” ereditato da un parente e perciò – ricordo – parlava e scriveva con la lingua dell’Ariosto.
Tale è stata la stazza di questi Poeti che hanno partecipato a vivificare la cultura del secondo Novecento.
In effetti, la bibliografia su Morbello Vergari è nutritissima, così come la documentazione d’archivio che lo riguarda.
Ne emerge un grande interprete della Maremma che ha saputo cantarla, scriverla, documentarne gli aspetti più radicati e radicali, con l’umiltà (in senso etimologico) della sua presenza fino al 1989, anno della sua scomparsa, quando ancora aveva progetti aperti.
Per me, che faccio parte del gruppo di Toscana folk diretto da Alberto Bencistà e che molto conosco per diretta esperienza, Morbello Vergari rappresenta una presenza speciale nel palinsesto della mia ricerca.
Tanto più mi ritrovo nel dettaglio della poesia che segue, dedicata all’acquacotta, delle cui ricette (varie secondo i luoghi), sono cultore, non avendo perso “il gusto” di apprezzarle dal vivo.
Qui, dopo il proemio, come avviene nel canto in ottava rima, nel quale narra la genesi dell’ “l’essere cuoco “, Vergari scrive:
A un certo punto de la su’ carriera
quando san Bisognino Poveretti – (la miseria)
lo costrinse a mangià robba da poco
ti ‘nventa ‘na minestra saporita
che manda l’odore da lontano
fatta di gnente e la chiamò acquacotta.
-Ma se fatta di gnente-chiederete-
era un piatto di gnente senza piatto?
Be, dico, proprio gnente è un pochino,
ma co’ un pezzo di pane casereccio,
un ovo, ‘na cipolla, un pomodoro
e un goccio d’olio de’ nostri uliveti
ti viene fòri l’acquacotta nostra
modesta sì ma piena di buon gusto
come ‘na bella donna maremmana,
diventa talmente popolare
che a fargli un monumento coi cucchiai
che l’hanno trapanata
verrebbe alto come ‘l Monte Amiata.
Da : ” Cucina in versi e prosa di Morbello Vergari” in ”Maremma a Tavola” di Morbello Vergari e Corrado Barontini Edizioni Tellini G.Eredi (1984)
Indice
due momenti storici
Con Yorick Su e giù per firenze – Pablo Neruda a Firenze –
L’arno
Luzi – Fozzer – nistri
Nel cuore di firenze
Fortini – pratolini – betocchi – bigagli – setti – socini – frattini – bertolani – fucini /aranguren –
Periferie
Parronchi – Giuntini – pescioli – gheradini
Due patrie
Verbaro – samà
firenze – Cultura dal vivo
Gerola – Camaiti – favati – conti – il ristorante dei poeti – boncinelli – nardini – la voce di piero (tredici)
Paesi
Pancrazi – Papini – giuliotti – sodi –
Fiesole
Bastianelli – Fallacara – cicognani – gatto
mugello
Guidacci – albisani – morini
Prato
Paolini – malaparte – viviani
Valdarno
Regazzoni – locchi- australi –
Casentino e arezzo
Pancrazi – severi- vettori – nibbi – fazzi
Pistoia
Manzini
Pisa
Carlesi – degl’innocenti – fusi –
Lucca, la versilia e garfagnana
Bigongiari – pea – gabrielleschi – il maggio – montale – tobino – cicognani – lena
massa
i cerchi di mangia
Livorno isola d’elba
Caproni – landi – fontanelli – ricchi
siena
trombetti –
grosseto
vergari
fabbri arno
da fare – siena luzi – grosseto – bigongiari arno – fabbri
Due storie
Con Yorick Su e giù per firenze – Pablo Neruda a Firenze –
L’arno
Luzi – Fozzer –
Nel cuore di firenze
Fortini – pratolini – betocchi – bigagli – setti – socini – frattini – bertolani – fucini /aranguren –
Periferie
Parronchi – Giuntini – pescioli – gheradini
Due patrie
Verbaro – samà
Cultura dal vivo
Grola – Camaiti – favati – conti – il ristorante dei poeti – boncinelli – nardini – la voce di piero
Paesi
Pancrazi – Papini – giuliotti – sodi –
Fiesole
Bastianelli – Fallacara – cicognani – gatto
mugello
Guidacci
Prato
Paolini – malaparte – viviani
Valdarno
Regazzoni – locchi- australi –
Casentino e arezzo
Pancrazi – severi- vettori – nibbi – fazzi
Pistoia
Manzini
Pisa
Carlesi – degl’innocenti
Lucca e la versilia
Bigoniari – pea – gabriellescchi – ll maggio – montale – tobino – cicognani
Livorno
Caproni – landi – fontanelli – ricchi