Da Verso n.2 – Codici della poesia dello scriba, Ancona, 1984

Non c’è dubbio che il rapporto fra poesia ed editoria è di natura ideologica e non tecnica, per cui stretta è la connessione fra il progetto editoriale e l’oggetto poetico. Mi pare doveroso, all’inizio di questa scheda, affermare che il condizionamento è di duplice natura coinvolgendo l’intenzione del potere e la gestione del prodotto poetico a cura di un ristretto gruppo di intellettuali autori di poesia essi stessi, delegati dal potere alla progettazione dei modi e delle mode poetiche.
Ritengo cioè che questo sia il meccanismo perverso attraverso il quale si realizza un determinato iter poetico e non intendo con ciò demonizzare la situazione o escludere che, nonostante ciò, nella produzione poetica possa esservi del buono.
Ma il discorso non è questo. Diciamo che l’editoria è oggi giunta ad una fase di subalternità alla creazione di bisogni indotti, si è talmente trasformata essa stessa in ideologia, per cui la scrittura risulta un valore sociale nella misura in cui rispetta i codici del potere. Ed il potere chiede oggi alla poesia di essere tale sulla base di modalità scolastico-accademiche.
Precisiamo. Il potere ha una precisa visione della poesia: una visione schematica, non viva. Sta dunque ai poeti «vestirsi » di questa visione schematica per farla vivere ed essere in/vestiti d’autorità.
Ma quali poeti? Quelli che trovano spazio nell’editoria ufficiale che è il binario operativo tracciato dal potere medesimo.
In questo modo, nel farsi, tecnicamente, come poesia, l’operazione si contraddice e diviene automaticamente ideologia in quanto le collane letterarie non esulano dalla funzione di servizio mimetizzata sotto la vernice dei nuovi o vecchi valori.
Ci troviamo così in un clima di idealismo tecnologico nel quale si dà per accertato che la poesia sia un frutto sovrastrutturale ancora per pochi fortunati mortali, e che la si possa comunque leggere a più livelli (venga allora anche Castelporziano) e che dare credito al reale, ovvero alla «condizione» storica, sia un atto demagogico.
Naturalmente, non è rovesciando la medesima che se ne modifica ipso facto corso ed immagine, ma certo tale esclusione appare per ciò che è, schermatura ideologica di una grande fragilità poetica e, per contro necessariamente, di una ben munita falsificazione.
Perciò spesso la questione dell’editoria diviene di capitale importanza per comprendere dove la storia, gli uomini, anche attraverso la poesia, stiano andando.
Si assiste ad una sorta di fusione per cui l’editoria è (vuole essere) poesia, mentre, molto spesso, la poesia emarginata presume di non essere tale trasformandosi in oggetto editoriale.
Non sto procedendo per paradossi, chi segue la poesia militante sa che in concreto, un poeta, emarginato dalle collezioni che contano, magari perché la sua ricerca mitografica non è sufficientemente smaliziata e capace di offrire prodotti modellati ad una certa « temperatura » analogica, può farsi editore del proprio tema, aggregare altri emarginati, ed immediatamente, in quanto editore, (e dico in termini astratti, filosofici) sconfiggere la propria emarginazione e divenire poeta. Nella fratrìa del potere avrà un suo spazio non sommerso, seppure non emergente.
Questa «nuova ideologia» coinvolge dunque in negativo il formarsi di gruppi, così come avveniva nel Novecento, poiché il gruppo oggi ha un senso in quanto è «editore», nasce proprio con queste finalità, ovvero con lo scopo di rendere un insieme di approssimazioni un pack utile ad affermare l’esattezza di un teorema invece discutibile.
Che l’editoria (anche quella di poesia) si trovi in una situazione assai discutibile ci è confermato dal suo essere ideologia, cioè ipotesi subordinata ad un progetto ambiguo.
Infatti, nessuno che operi nel settore poetico si preoccupa oggi, ad esempio, delle tirature né della fruibilità o della fruizione in rapporto a nuovi standard culturali. Basta che il copyright garantisca, anche al limite del myself, perchè l’immaginaria operazione culturale divenga una legittima operazione dell’immaginazione contro chi non ha o non vuole copyright, contro chi si perde fra gli spazi delle contraddizioni per ricomporre una storia vivibile.
E allora riaffiora il sospetto (ma anche qualcosa di più) dell’impotenza del per-benismo o del perbenismo dell’impotenza che si allineano a chi (quieta non movere) vuole tenere o detenere in «dorate» catene la periferia del proprio impero.
In questo modo, azzerata ogni distanza, trasformato il fare democratico e pluralista in una scacchiera di forme e formule, il gioco è fatto e, salvate le apparenze, la poesia come possibile emergenza, l’editoria come operazione non condizionata e lo stesso potere, come perno di una dialettica che lo alimenta e pregia, rimangono operazioni impossibili.
Certo, di fronte ad un giudizio così negativo, il sospetto di demonizzazione, come ho scritto sopra, può affiorare, ma in realtà questo giudizio non è, né vuole essere, apocalittico.
Diciamo le cose come stanno ora, qui, in una situazione di fortissima concentrazione di potere culturale/editoriale in mano a gruppi oligarchici – e non credo vi sia bisogno di ricordare le carte mischiate fra finanza corrotta ed editoria – rispetto a situazioni internazionali assai più articolate e democratiche. Vorrei, per scendere al concreto, produrre un esempio di altra area ma egualmente calzante. Parlavo, qualche tempo addietro, con un giovane artista valido per doti personali ed uscito da buona scuola. Mi accennava che forse non avrebbe neppure recuperato le poche centinaia di migliaia di lire spese per la produzione artistica di un anno, mentre un mercante, durante una mostra in Inghilterra, gli aveva proposto un contratto per tempi lunghi a buone condizioni. Ora, qui il discorso che riguarda i giovani produttori di cultura creativa prevede l’appiattimento, l’accettazione della logica del ricalco o l’emarginazione.
Come nasce tutto questo, da dove? Dall’inaridimento degli spazi-tempi della parola, dalla demonizzazione della storia in favore di una gestualità linguistica da chierici di una perduta ecclesia ed infine dall’isterilirsi di una dialettica generazionale fondata sul vissuto e sul vivibile.
Questo risalta in un’area illustre come quella post-ermetica in cui, dal 1945 ai nostri giorni durante la fascia che dalla Resistenza conduce al nuovo misticismo odierno, non è più stato consacrato un solo poeta. Possibile che durante il ventennio fascista la cultura abbia potuto esprimere i Maestri ermetici che stanno nelle storie letterarie mentre nei successivi quaranta anni non sia nato, in Toscana (madre dell’ermetismo) un solo poeta pubblicato? Solo alcuni poeti della diaspora – Pignotti, Ramat, Viviani – hanno trovato spazio
presso l’editoria ufficiale. Vediamo le quadrature di questo freddo cerchio attraverso i premi di poesia nella stessa regione nel 1982.
I premi letterari, al di là della vanità della cerimonia, sono un momento di mediazione fra produzione libraria e pubblico e dunque interessano direttamente sia l’editore che l’autore.
In un periodo di crisi del libro di poesia come l’attuale, questo istituto e la sua strutturazione sono rigorosamente programmati. Infatti, anche chi si affida a canali di diffusione diversi dalla libreria (ma ormai i canali alternativi sono usati anche dalla grande editoria che cerca sbocchi attraverso le biblioteche o le vendite per abbonamenti, tanto per citare alcuni esempi ieri ritenuti «underground» ) non può considerare il premio come una struttura in contrasto col proprio operare e cooperare.
D’altronde si tratta di istituzioni gestite quasi sempre da enti pubblici o comunque da questi sempre patrocinate, per cui il rapporto dello scrittore col potere, anche in questo caso, è nelle cose.
Ad una prima sommaria verifica dei premi letterari in Toscana (per rimanere all’area in cui maggiormente insiste la presenza dei grandi ermetici) si rilevano aspetti, dal punto di vista sociologico, inquietanti, più prossimi ad un paternalismo delegato che all’esercizio democratico di un moderno istituto. Una mappa dei premi che vada da Pontremoli a Prato a Firenze a Marradi (ed entrando in una dignitosa provincia l’elenco sarebbe ben lungi dal cessare) mostra gli aspetti negativi sopra enunciati e denunciati.
a) La presenza in giuria, in vari premi, di un gruppo egemone fisso, l’elenco dei cui nomi sarebbe lapalissiano, che opera scelte non pluraliste (non diciamo clientelar-parentali) e diviene dunque, di fatto, strumento di impoverimento della cultura sul territorio. Su un territorio peraltro già così povero a causa dell’assenza di stimoli promozionali.
b) La presenza, nelle varie giurie, di esponenti di una gloriosa generazione che non può tuttavia, per integralismo ideologico e consolidata qualità del gusto, avvertire o comunque evidenziare il diverso da sé.
c) La soggezione o l’adesione di questi scrittori al volere dell’editoria del triangolo industriale che impone, loro tramite, i propri prodotti anche in premi, per la sostanza, promozionali.
Se andiamo a verificare i premi di poesia assegnati in Toscana nel 1982 li vediamo spartiti fra Garzanti (Viareggio), Mondadori (Vallombrosa), Einaudi (Carducci), Società di poesia (Pozzale). Spartizione perfetta, senza un doppione o un’assenza, come si nota.
Tutto questo avviene perchè ci troviamo di fronte ad uno stato di fatto che contraddice scopertamente anche il dovere di una gestione democratica della cosa pubblica.
Come è possibile infatti che gli enti locali, promotori o patrocinatori di premi letterari, diano luogo a commissioni in cui imperano scrittori onnipresenti e che, spesso, con la poesia, poco hanno da spartire. Non è possibile che una oligarchia continui a gestire questi istituti pubblici condannando al privato scrittori che negli Anni Settanta hanno così apertamente puntato sul pubblico le proprie carte. O è forse proprio per questo, per ricacciare nel privato chi ha conquistato un minimo di pubblico, che questa oligarchia si è arroccata dentro gli arcadici castelletti delle case editrici, delle pagine dei quotidiani e delle giurie dei premi letterari.
Il mio lavoro di critico militante mi permette di chiudere questa nota con alcune concrete esemplificazioni. Fra le centinaia di libri di poesia che mi giungono ogni anno pochissimi sono i titoli degli editori ufficiali (quei titoli, cioè, 42 Codici della poesia varcano il migliaio di copie). Per lo più si tratta di autoedizioni con tiratura al di sotto delle cinquecento copie e con distribuzione alternativa (non si trovano in libreria) affidata alla trasmissione a braccio dell’autore medesimo. Spesso non si tratta di giovani alle prime armi, ma di persone che hanno varcato la quarantina (c’è, fra questi, chi ha raggiunto l’età della saggezza) e con un ricco bagaglio di pubblicazioni alle spalle.
Che senso ha, in questi casi, la funzione equanime della critica che talvolta rivolge qualche riga di attenzione anche a questo sommerso? Anche il ruolo del critico, così scrupolosamente deontologico (peraltro interamente coinvolto, come ho scritto, a livello di consulenze editoriali e di giurie letterarie), risulta fortemente ideologizzato e livellatore di valori proprio nel momento in cui si esprime un minimo promozionale con cui evidenziare una disparità di valori fra ufficiale e sommerso.
In conclusione, dopo i movimenti storici progressivi degli Anni Settanta che permettevano ai cosiddetti giovani (termine che all’emarginazione sposa anche una dose di ironia) di affacciarsi nella produzione e nella distribuzione, siamo ritornati ad un livello minimale, purista, restaurativo e ciò ha riproposto gli stessi troni, come dopo il Congresso di Vienna. Ma l’esempio vale per quel che è: un esempio, appunto.
Non credo che i cosiddetti giovani vogliano ritornare alla condizione di carbonari, come alla fine degli Anni Cinquanta, ma vivano invece pubblicamente con dolore, senza rassegnazione, il riflusso, evitando di dare il braccio alla contraddizione che pure li attanaglia. Questo, almeno, è auspicabile.

Questa è il sito del poeta Franco Manescalchi, che è venuto a mancare il 29 settembre 2023.

La famiglia vuole lasciare visibili i contenuti del sito, come testimonianza della sua attività culturale che ha coltivato nel corso di tutta la sua vita fino alla fine.