Domanda: Da tempo si parla di crisi d’indentà della poesia: è possibile — sulla base delle nuove proposte inventive e del folto dibattito critico — ipotizzare una nozione di poesia più rispondente alle tensioni del cosiddetto post-moderno?
Risposta: La poesia rimane la forma primaria di identificazione di una crisi necessaria — quella dell’essere uomo e storia — per cui si tratta di individuare nel post-moderno le premesse culturali innovative rispetto a quelle da cui ebbe origine il Novecento su cui possa innestarsi la nuova ricerca. Le premesse culturali della nuova polis, a cui la poesia del Novecento può d’altronde avere contribuito in qualche modo, permettono di ipotizzare una nozione di poesia più rispondente ai nostri giorni: ovvero una poesia meno letteraria e più incisiva nella ricerca dell’essere uomo e storia.
Probabilmente ci troviamo di fronte ad un nuovo vocianesimo in cui la componente morale non è scissa da quella conoscitiva per cui la maturazione coscienziale va di pari passo con la poesia della scienza che indaga oggi addirittura nodi leopardiani. E non fu d’altronde leopardiana la tensione dell’asse Sbarbaro, Rebora, Jahier in contrasto con i nuovi lirici del primo Novecento?
Domanda:Nel linguaggio poetico inteso come ipersegno lo «scarto dalla norma» si è ritenuto a lungo coefficiente determinante: quale incidenza — nell’interesse ricorrente per le metodologie strutturalistiche e scmiologiche — può avere ancora tale orientamento sui nuovi modi di intendere e di praticare l’invenzione in versi?
Risposta: Bisogna definire quali siano i nuovi modi di intendere e praticare l’invenzione del verso. Se per nuovi modi intendiamo quelli praticati negli ultimi dieci anni, dalla «parola innamorata» all’orfismo, allora lo scarto dalla norma è facilmente riconducibile alla «norma dello scarto» rispetto alla langue per un ritorno alle parole di tipo neoermetico e per una chiusura elegante rispetto agli stimoli linguistico-conoscitivi del tempo; ma se per «nuovi modi» si intende l’insorgenza di nuovi dati caratteriali della scrittura in rapporto a tutta una serie di problematiche esistenziali, filosofiche ed epistemologiche allora lo «scarto dalla norma» letteraria è evidente. Esiste una creatività diffusa che rimanda al multimediale e che rimane al di sotto del livello di guardia per un ipolinguaggio privo di scarto, ma è pur sempre su quello spalto, vissuto con ben altra tensione accentuativa, che lo «scarto dalla norma» può essere tragicamente vissuto.
Domanda: Dopo l’ermetismo, l’ipersperimentalismo, le neoavanguardie, le diversioni crepuscolari, il «riflusso», infine, del neoorfismo, è possibile avanzare qualche caratterizzazione legittimante delle tensioni emergenti nel nostro Parnaso? O risulta più che mai salutare l’idiosincrasia per ogni sorta di etichette?
Risposta: Le etichette si applicano sempre a prodotto confezionato per cui la definizione di ermetismo, neorealismo, neoavanguardie, neoorfismo etc. risultano spesso di comodo e rifiutate dai poeti medesimi che sotto queste «diciture» vengono condizionati.
Se Salvatore Quasimodo è il capostipite dell’ermetismo, nessuno più di lui è stato portatore di una semantica pluriversa e connessa a radici etniche solari e drammatiche; se Pasolini è un Maestro del neorealismo, nessuno più di lui ha contribuito ad una sperimentazione dialettica di largo rigore filologico ed antropologico; se Sanguineti è il prototipo del neoavanguardista, nessuno più di lui ha percorso ecletticamente i «campi» della scrittura rimandando ad un suo crudo e nudo esistere.
Direi che da sempre è esistita «una salutare idiosincrasia per ogni sorta di etichette» verificabile nelle stesse opere. Diverso è il discorso concernente i riferimenti di poetica oggi addirittura inclusi nella scrittura creativa per un’estrema fragilità di senso e di segno.
Domanda: La sistematica attenzione alle proposte poetiche delle nuove generazioni nell’ambito dei singoli quadri regionali, favorendo la coscienza dello sfaccettato polimorfismo espressivo che si radica anche nell’ambito di realtà antropologiche e di territorio, potrà concorrere al maturarsi di una poesia in più felice equilibrio tra recezione, del concreto e naturalezza del profondo?
Risposta: La risposta è senz’altro positiva. Per il principio di provincialismo universale che proviene dalla nostra letteratura otto/novecentesca, il senso più riposto della poesia sta proprio nel suo radicamento/sradicamento all’humus di partenza. Si pensi come il cosidetto ermetismo di Quasimodo non sia concepibile senza un riferimento alle «isole del dio» per cui la mediterraneità diviene elemento spazio temporale ubicato in una ben precisa «infanzia del mondo», ovvero in nette ed inequivocabili epifanie.
La forza della poesia sta proprio in questo segreto (cos’è altrimenti il mare/padre di Montale?), la inconsistenza del postmoderno sta proprio nella rarefazione di questa «fusione nucleare» per una squilibrante «fissione».
È appunto la naturalezza del profondo l’ago della bilancia del poièin.
Domanda: In rapporto ai nuovi orizzonti dell’ethos storico — dalle delusioni del «socialismo reale» alla crisi delle ideologie, dalle frustrazioni ininterrotte dell’«orizzonte d’attesa» al disimpegno socio-politico di connotazione qualunquistica — è possibile che la nuova poesia, privilegiando l’indulgenza intimistica, il liberatorio della «confessione», fino alla teatralizzazione esibizionistica del «vissuto», rischi ancora le secche dell’ambiguo solipsismo o dello sterile narcisismo?
Risposta: Il rischio è possibilissimo, anzi già in atto. Il superamento di determinate premesse culturali non può significare il rifugio in un’indulgenza intimistica, bensì la faticosa ricostruzione di altre premesse culturali che non è detto debbano nascere da un’assoluta inconoclastìa.
La delusione del «socialismo reale» non deve far dimenticare che esiste comunque un «paese reale» a maggior ragione attivo perché non tutelato dalla sovrastruttura; la crisi delle ideologie non comporta immediatamente un superficiale abbattimento di costanti entrate a far parte dell’uomo e del suo essere storia; l’orizzonte di attesa, proprio in quanto orizzonte, richiede la pazienza per un vissuto vivibile e non l’accantonamento per un solipsistico esercizio di sé.
In effetti il narcisismo è il vizio del momento camuffato da mito neoorfista. Diversa valutazione merita una fase manierista (si pensi all’ultimo Pasolini) necessaria talvolta fra due cicli storici divaricati.
Occorre verificare quale osmosi fra il vecchio ed il nuovo — ideologicamente, ma anche tecnicamente — opera un determinato manierismo (si pensi, per dire, alla «bancarella» govoniana).
Domanda: Fino a che punto, e su quale direzione di rinnovamento della nozione stessa di poesia, i poeti potranno ancora incidere, in positivo, sulle metamorfosi dell’uomo e del mondo?
Risposta: La poesia segue ed anticipa, nel suo farsi, il flusso dell’essere uomo. Avverte e propone i segni del rinnovamento. Tale è il suo compito, la sua «scienza». In tal senso la poesia più che incidere «decide» sulle metamorfosi dell’uomo e del mondo. Questo è un dato di fatto. Per quanto concerne la direzione di rinnovamento penso che oggi viviamo un momento preciso della storia e della cultura in cui occorra riscrivere qualche fortiniano Foglio di via o qualche diario di «marcia alpina».
«La miseria non fa guerre, ma semmai rivoluzioni» scriveva Jahier. Egualmente la poesia connessa al suo tempo: è un flusso che si rinnova per necessità, per penuria dell’essere uomo e storia.
A ben pensare, noi ci troviamo nel polso di una faglia particolarmente attiva, al centro di una rievoluzione che può condurci, per azzardo, ad un nuovo umanesimo.