Domanda: Qual è stato il suo rapporto con la poesia del ‘900 con i gruppi e con i singoli poeti?

Risposta: La situazione politica e culturale a partire dagli Anni Cinquanta è talmente cambiata, per cui la scrittura prima che con se stessa deve fare i conti con questa storia che l’avanguardia in parte ha interpretato, ma più spesso ha solo illustrato reificandovisi. D’altronde questo mio modo di visualizzare le ultime correnti letterarie viene da lontano e fu un componente non minore dell’ipotesi di «Quartiere» già nel lontano 1963, in relazione al convegno di Palermo e anche a seguire. Per quanto concerne il Novecento, nessun dubbio che esistano i Maestri che vanno da Saba a Luzi, passando attraverso Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo, Gatto, Penna, etc. di cui è stata permeata la nostra adoloscenza.
Ma già allora sentivamo in loro il limite dell’infanzia del mondo e anche un’approssimazione ideologica e non a cui sfuggiva l’ipotesi gramsciana dei rapporti con la storia e sfuggiva inoltre l’elemento determinante la durata, fuori dell’area gramsciana, della negazione della borghesia. Sfuggiva, intendo, la presente universalità del taglio di Kafka.
Se questo è chiaro, se in tutti questi anni questo discorso è riuscito a traversare le sacche del riflusso e del manierismo, allora è anche chiaro perché non sono mai andato oltre una pratica di civiltà della scrittura che intende essere scrittura di una civiltà, maturata attraverso il progresso di una cultura che sta nascendo ex novo oltre l’indagine, anche impietosa, del mito dell’individuo. Il nostro tempo ha caratteristiche diverse in cui la crisi della coscienza e la coscienza della crisi vanno di pari passo con la crisi delle forme e le forme della crisi e nessun innesto può essere, ahimé, prezioso e salvifico. Anche per quanto concerne la classicità mi trovo nella stessa convinzione: concordo nella sostanza, nella necessità di chiarezza delle forme della crisi, appunto, mentre in dettaglio può risultare di maniera l’assunzione del modello postavanguardistico.
Infine, penso che oggi ci sia bisogno di uomini che sanno scrivere frammenti di verità che lacerano la vernice della storia e in questo mi pare che abbiamo davvero le carte in regola per essere tali, mentre un processo di istituzionalizzazione, di organizzazione in gruppo con un manifesto nuoccia al costruirsi della medesima singolarità.
Questa schietta conferma del mio pensiero porta ovviamente a ben precise conseguenze: l’apertura dell’amicizia e della collaborazione lungo sentieri disegnati con il machete e non lungo strade in effetti più canoniche, più praticate e praticabili.
«Io allora vidi le Muse / Tra le foglie larghe delle quercie / Mangiare ghiande e coccole». E la citazione è forse la riprova di quanto interno e accorato, e non esterno o distruttivo, sia questo mio intervento che intanto salva l’uomo proponendo senza ipocrisia la pratica antigruppo.

Domanda: Come si colloca la sua poesia nelle poetiche più attuali?

Risposta: Dove va la poesia? Leggendo i cronisti letterari, sulle pagine dei quotidiani, si rischia di non comprendere e soprattutto si rischia di farsi un’idea «privata», «personale» di un genere di cui si è tentato, proprio recentemente, una pubblicizzazione, una riqualificazione in sé e nella storia.
La poesia è appannaggio di pochissimi privilegiati e, in quanto opera, dono accessibile all’intera umanità: la poesia è eternabile; la poesia è un discorso precario, destinata all’oblio: come precari e destinati all’oblio sono molti che la praticano. Due tesi opposte, dunque e che sembrano escludersi a vicenda. Ma, tertium datur, perché non pensare alla poesia del quotidiano, al quotidiano in poesia, alla documentazione della crisi dei valori e non, all’opposto, alla valorizzazione formalista della crisi in quanto tale? L’uomo, proprio perché inserito nel flusso del tempo, è sempre stato oggetto di crisi proprio perché il flusso comporta la crisi dell’oggetto, delle sue forme esistenziali e sociali. Dunque, perché non porgere alla fissione del quotidiano il termine fisso a cui deve commisurarsi la trasformazione dei tempi più lunghi? E se il quotidiano fosse eterno o almeno eternabile? Il quotidiano dei poeti, il loro difficile qui ed ora confrontato con quello degli uomini normali (perché i poeti sono dei diversi nella misura in cui sono poeti). Di tutte le velleitarie teorizzazioni, di tutti i motivi non motivanti, rimane in bocca qualcosa di artificialmente agro, amarognolo. Certo; la cultura ha il suo peso nella composizione del discorso poetico, ed i programmi anche, ma in quanto divengono qualcosa di diverso dal dato culturale e dell’ipotesi; così come l’eterno ed il precario hanno senso se stanno nella parentesi aperta del giorno e se il giorno degli uomini accetta la poesia come un’ulteriore chiarificazione della propria volta del cielo. Ma questa indicazione è anche un’ipotesi remota perchè la poesia è, come sempre, divisa fra chi la intende dottrinaria e perciò coatta, deperibile di fatto in concetti, fra chi gioca la carta dei tempi lunghi (ma quanto, se non c’e tavolo su cui giocarla?); mentre il «quotidiano» è un terreno poco praticabile per la ritrosia della società a dare spazio e credito alla poesia, nonostante certe vampate rotocalchistiche. D’altronde, se è difficile scrivere poesia, ancor più difficile è viverla. Dunque, bisogna cominciare da qui: dal viverla nella parola, naturalmente.

Domanda: Qual è la sua weltanschauung letteraria?

Risposta: Se non è troppo generico parlare di nuovo umanesimo, di graduale assestamento, per tempi lunghi, delle costanti che promuovono la liberazione dell’uomo dentro quelle che sono entrate ormai nella curva di estinzione come “variabili impazzite” di un sistema che non cede ma insieme decade, allora credo che intorno a questo termine si possano aggregare le forme (ormai cospicue) dell’autocritica, all’interno della borghesia, delle avanguardie storiche le quali hanno evoluto linguaggi utili per una nuova koiné e di una cultura popolare che ha ormai perduto la ‘vergogna di sé’. E questo nuovo umanesimo non è detto nasca nelle “corti”che sono i centri del potere tecnologico. Come accadde al “volgare” ed alla cultura rinascimentale, quando la “periferia” ebbe il suo peso nel dare forma e forza al rinnovamento, così oggi esistono dati oggettivi che ci fanno avvertire nelle masse una ricerca di lingua, di forma non automatiche.
Credo dunque che vivendo onestamente questa contraddizione, del nostro essere borghesi e del non volerlo più essere (almeno in termini quietistici), del nostro essere oggetti con parvenza di privatezza e del voler diventare soggetti di una dimensione pubblica, stia la scelta necessaria per trasformare la realtà; agendo anche e soprattutto quando le corti del nuovo rinascimento tecnologico tendono, in un paese come il nostro, che arranca alla ricerca di un suo effettivo e generalizzato sviluppo in un quadro mondiale peraltro di crisi, a consumare gli «originali» della cultura ed a trasmettere alla periferia, che peraltro, come si è detto, non è vuota né inerme, solo le veline degli esecutivi burocratici.
Il discorso potrebbe chiudersi qui, ma, per certe esemplificazioni, può anche essere utile procedere. L’equivoco più evidente consiste nel definire poesia una volta e per sempre un determinato autore, una determinata scuola, un determinato gruppo, una specifica generazione. Partiamo dal nostro assioma: il computer non sente (dunque non può «fare poesia»), io sento (dunque posso «fare poesia»). Se questo è un discorso di attualità, a mio avviso va posto in altro modo: la poesia oggi è minacciata da un razionalismo freddo, burocratizzante, omicida e dunque occorre rilanciare la poesia come un fatto di libertà storica dell’uomo.
Allora i computers sono proprio i poeti della decadenza, mentre l’oggetto elettronico è solo una metafora.

Domanda: A quale poeta del ‘900, anche se trascurato dalla critica. ritiene necessario restituire uno spazio importante anche come modello complessivo di Vita?

Risposta: Penso a Pavese. Oggi l’attualità di Pavese può essere ricercata come un aspetto attivo ma circostanziato, nel più largo contesto del farsi della nostra cultura.
Non sono più i tempi, infatti, di grandi movimenti culturali unitari e operativi come si presentavano. ad esempio, nella seconda metà degli anni ’50, quando l’arte e la letteratura vivevano un momento di forte progettualità e la presenza di Pavese era ampia e indiscussa. Parlo di una stagione che vide la nostra generazione affacciarsi alla storia e trovarsi, fortunatamente, con un patrimonio di testi di poesia che, pur provenendo da diverse aree, avevano in comune la mediazione con i fatti dell’uomo, con gli eventi del tempo.
Anche gli ermetici offrivano allora al lettore testi temprati al fuoco della storia, si pensi a Il dolore di Ungaretti, a Le occasioni e a La bufera di Montale, alle Primizie del deserto e a Onore del vero di Luzi; ma si pensi anche a È subito sera di Quasimodo, Foglio di via di Fortini, È fatto giorno di Scotellaro, Le ceneri di Gramsci di Pasolini, testi antiermetici che, tuttavia, ne complementavano in modo nuovo l’immersione nel tempo. Naturalmente, in un clima così rigenerato, Lavorare stanca, Le poesie del disamore e Dialoghi con Leucò, di Pavese (oltre alla produzione narrativa) ponevano il poeta al centro della situazione culturale per la sintesi di vita vissuta eppure simbolica che lo caratterizzava. Al di là delle sigle, sempre fuorvianti se usate come codici di maniera, l’ermetismo, il neorealismo, lo sperimentalismo che tanto somigliano, nel linguaggio dei critici letterari, a marchi di abiti pret-à-porter, fu quella una stagione di grande rilievo che non va misurata dal 1945 al 1955, ma va ampliata nell’arco di un ventennio che vede la risposta al fascismo (già intorno al 1930) e la conclusione di un mito (intorno al 1950). In questo arco di tempo maturò una letteratura di grande rilievo e complessità che ebbe il suo momento di verifica attraverso lo specchio ustorio della seconda guerra mondiale.
Insomma, è nella cornice della Terza generazione poetica e letteraria, e in alcune presenze emergenti della Quarta (per usare una classificazione allora proposta da Oreste Macrì e ancora valida) che si realizza interamente la presenza di Pavese poeta, il quale, a mio avviso, offre con Lavorare stanca il pendant a Conversazione in Sicilia di Vittorini. Prosa e poesia si gemellano in due testi fondanti che rimarranno a riprova della ricerca linguistica e della creatività di una generazione.

Domanda: Più specificamente, in cosa consiste oggi l’attualità di un “modello”?

Risposta: Oggi, la situazione della poesia si muove su una bipolarità che vede una larga tendenza di mitografi (poeti abitati dal Verbo), scaturiti dal nucleo formatosi intorno alla Parola innamorata negli Anni ’70, e una tendenza egualmente ampia e sfrangiata di poeti «segnici» che continuano la lezione delle neoavanguardie, ma con aperture anche al discorsivismo dell’ultimo Montale.
Sono poeti che rappresentano le due facce di una stessa medaglia: poeti dell’anima i primi, dell’anima negata i secondi.
In un clima come questo, in cui i giovani bruciano la loro «stagione all’inferno» essenzialmente sul candore della pagina bianca e nello spleen dell’anima bella, dove e come cercare l’attualità di Pavese? Non si può certamente parlare di un modello a cui i giovani scrittori affermati si rifanno. Così come accadde, sia pure maldestramente, negli Anni ’50; e neppure si può parlare di un poeta storicizzato dai critici.Insomma, i tempi brevi delle cronache letterarie e i tempi lunghi delle Storie vedono Pavese poeta splendidamente assente.
Allora, la sua attualità andrà cercata altrove, al di qua della letteratura affermata (d’altronde, chi si accorse di Lavorare stanca al suo primo apparire?), in una temperie morale e storica che sembra segnare da una ventina di anni le giovani generazioni che si affacciano alla storia.
A cura di Antonio Nesci

Questa è il sito del poeta Franco Manescalchi, che è venuto a mancare il 29 settembre 2023.

La famiglia vuole lasciare visibili i contenuti del sito, come testimonianza della sua attività culturale che ha coltivato nel corso di tutta la sua vita fino alla fine.