Tre voci: Guido, Bruna, Franco

PARTE PRIMA:
Prima dell’Esodo

GUIDO

1
Nel 1952 il tempo si sbriciolava ormai con le molliche di pane raffermo sulla tavola della cucina e le donne lo spazzolavano nervosamente a colpi di saggina insieme alla polvere del focolare. Le campigiane corrose del pavimento sembravano bere quella pioggia di bruscoli, proprio come se il tempo precipitasse in un oscuro pozzo senza fondo.
Briciole di tempo erano dovunque: frammenti di pagliuzze macerate rilucevano come pepite nella concimaia da cui si sprigionava un acre odore di ammoniaca; bottoni dorati, con àncore e stemmi, splendevano qua e là sugli abiti redati dei vecchi fermi al fuoco e dai quali esalava un forte odore di orina.
Eppure, sino ad allora, il tempo aveva lievitato con il pane che gonfiava e si trasformava come una crisalide nel forno di casa: era il capoccia ad impastarlo (farina, acqua e fermento) con le sue grandi mani sporche di terra. Tempo e pane sembravano la stessa cosa: qualcosa di sacro che doveva essere consumato con parsimonia, dopo un segno di croce.
Di briciole, in giro, neppure da parlarne, allora. Non era raro che la madia rimanesse vuota ed i padroni rispondevano ai contadini imploranti: Se non hai pane non fai le briciole.
“Dammi del cane, ma dammi del pane”, “Al tempo del re cane, due soldi la libbra il pane ; ai tempi del re bono due soldi e pocobono” si diceva in quegli anni.
L’infornata, ricordo, si faceva il lunedì e doveva bastare per tutta la settimana: erano pani da un chilo, duri di corteccia ed asciutti di mollica, che dopo due giorni divenivano raffermi, tanto che masticarli era davvero un’impresa.
Per i ragazzi c’erano i pupazzi di pane e, durante la settimana, larghe fette condite con olio e sale, cantucci ripieni di pomodoro a pezzi e sigillati con la loro stessa mollica. Le briciole oliate, rimaste nei piatti, venivano raccolte con ingordigia, come vere prelibatezze. E poi di corsa lungo le viottole chiomate di erbe alte e fluenti. Il pane ed il sole, due lieviti di cui ci nutrivamo all’ aria aperta, nel breve spazio di terra lavorata.
Ma in un breve volgere di anni le cose, anche per i ragazzi, erano peggiorate, avvolte in una tela di ragno come quando, durante la guerra, il pane era un impasto di crusca e patate e faceva concorrenza con quello nero, a cassetta, dei tedeschi.
Ora, in quelle rade molliche sparse sul tavolo della cucina il tempo finiva per sbriciolarsi senza più vita. Così anche l’uva che rideva nei campi cominciò ad annerirsi, a screpolarsi sulla buccia, in quelle estati selvatiche ed in quegli autunni aperti ai primi brividi.
L’uva che, chicco dopo chicco, si sgranava in bocca col pane in un fresco sapore settembrino. Le viti poi si squamavano lasciando cadere lunghe scorze che i vecchi trituravano e fumavano nella pipa, in un canto dell’aia, come colpiti dal fulmine. Ma anche gli alberi da frutta e gli aceri inaridivano avviluppati dalle braccia drammatiche delle viti senza vita. Unica memoria felice, il pane bianco degli americani, leggero come un soffio, scomparso oltre il filare delle querce, insieme all’ultimo dodge.

II

“L’acqua sgorgava da sottoterra, dalle risorgive, ed era buona a bersi” Penso a volte.
Parlando d’acqua, la voce dei vecchi si apriva come un cielo azzurro. L’acqua, che non lievita come il pane, ma è l’anima antica del tempo, era la vita stessa, per gli ortolani: ancora ai primi del Novecento le campagne giungevano fino alle mura medicee e l’acqua sgorgava dovunque, a pochissimi metri dal suolo.
In primavera i contadini si armavano di vanghe e aprivano buche finché non trovavano la falda ed irrigavano le terre con pozzi stagionali.
Un anno lo zio Geppo, il fratello del babbo, mentre scavava un pozzo stagionale fece zampillare da una grossa buca una sorgente così forte da rimanere semiannegato. Nel ricordare questo la voce dei vecchi schiumava felice. Il pozzo scavato dallo zio Geppo, che quasi ci rimaneva, era così ricco di acque che non fu più interrato: si trovava proprio dove ora si alza la torre della Fiat e lì fu costruito il bindolo. Il campo fiorì. Si era nel 1909. Era un pozzo così acquifero che resse anche quando in San Donato bruciò la fabbrica delle pellicole cinematografiche lungo il Terzolle, in San Donato, e tutti gli altri pozzi furono prosciugati dai pompieri.
I pozzi stagionali venivano scavati a primavera ed interrati ai Santi. Prima del bindolo l’acqua si prelevava con impianto chiamato “mazzacavallo”: al vertice di due pali verticali ne veniva fissato uno orizzontale, a bilanciere con alle due estremità un secchio e una pietra:l’impianto si manovrava a mano, per questo si chiamava “mazzacavallo”. Un modo primitivo consisteva nell’attaccare un cavallo al capo di una corda, mentre all’altro capo era annodato il secchio, così con un viaggio di andata e ritorno il secchio ricolmo era alla bocca del pozzo. Poi venne il bindolo.
Questo nella casa degli avi. A Rovezzano, nel 1933, trovammo il bindolo in fondo al podere: era sotto al muro dei Sordomuti. La mula girava, l’acqua saliva. Poi vennero i motori e la guerra. Gli americani odoravano di tabacco dolce, la primavera trinava il grande muro dietro al bindolo di foglie di nocciolo da cui spuntava la testina verde dei gusci. La guerra, l’abbandono del bindolo (una sorta di spola per pensare: il tempo fatto acqua, fantasia, ragione) segnarono la fine di una storia lunga secoli.
Anche la statua in pietra serena del ”bacchino”, seduto su una botte in prossimità del bindolo nella viottola dell’attigua villa Bracci, aveva incominciato a corrodersi ed indicava col troncone di un braccio le viti attorte in una nera ragna. Lui: Bacco.
Il pozzo sull’aia, quello dell’acqua per la famiglia, invaso dai liquami della stalla fu presto inquinato e così, quasi per un’arsura malefica, anche la famiglia fu screpolata da screzi, le donne impietrite in cucina o sotto gli alberi intorno all’aia, noi uomini straniti nei nostri lavori.

Allora fu venduto il paiolo e col ricavato furono comprate due mezzine per bilanciare fra le due mani il peso dell’acqua attinta nel vicino podere detto, appunto, del Pozzino. Questo sdoppiamento fu una condanna, come era stata una condanna lo sdoppiamento dei poderi ed il dimezzamento dei bindoli (ce n’era uno per podere, prima) ai primi del Novecento.
Il pozzo nel podere vicino, di fronte alle caserme militari, era a cupola, murato: il secchio veniva agganciato alla catena da una buia finestrella. A prendere l’acqua andavano i ragazzi. Cinquecento metri fra l’andata ed il ritorno. La mezzina, in casa, stava sulla credenza, con la sua bella pancia rossastra, di rame.
Bere acqua al beccuccio della mezzina era sensazione unica, certamente il piacere più caro alla memoria. Il fresco del rame alle mani, lo sgorgare dell’acqua alle labbra con la testa piegata indietro; il leggero “amarognolo” del rame dava all’ atto una gioia perfetta, quasi un rito. E non era tanto il lenimento della sete per la calura che gravava intorno: era il gusto dell’ acqua di pozzo, rimasta a freddare nella mezzina tenuta in un angolo fresco della casa.
I ragazzi andavano volentieri ad attingere acqua, per berne lunghe sorsate nel beccuccio della mezzina all’aria mossa dei campi. Era un sentirsi natura e si gettavano per un momento nell’abbraccio dell’erba con la faccia ancora fresca di acqua.
Poi, il distacco dal mondo, la gioia del portico illuminato dal sole radioso, erano le due facce necessarie del mistero della vita. Bene e male erano lì, in una filastrocca: – “Piove e c’è il sole/ il diavolo fa all’amore…” .
Due mezzine, da tenersi lungo i fianchi, ma già due famiglie divise dalla “guerra dei poveri” per non essere riuscite a salvare il pane ed il vino, l’acqua e le stagioni; anche se non c’era proprio nulla da rimpiangere.

III
“E dire che fino al Quaranta gli ortolani ed i mezzadri sotto la cerchia dei colli avevano terra, cavallo e calesse, prima che i poderi di Novoli, Legnaia, Casellina, Gavinana, Varlungo, Rovezzano, Coverciano, Campo di Marte, Cure e Ponte Rosso venissero abbandonati.
La grande comunità degli ortolani che rifornivano di ortaggi il capoluogo e che si incontravano ogni mattina al mercato ortofrutticolo aveva avuto una sua storia.
A Novoli ed alle Cascine si coltivavano cavoli, pomodori, patate, zucche e le famiglie dei Vannini, Carraresi, Marilli, Nutini, Manescalchi, Bini, Becherucci, Saponai riimanevano ancora legate alla terra.
Dov’è via dello Statuto gli Zocchi ed i Giovacchini (poi commercianti di abiti in San Lorenzo) coltivavano “gobbi”. Di là d’Arno, a Legnaia, c’ erano i radiciai (coltivavano insalata, radicchio, radici, bietole) ed erano i Fallani, Mengarini, Mazzoni, Cappuccini e Sarri.
A Casellina, in via del Padule, i Passeri coltivavano zatte e cocomeri..In Pian di Ripoli i Cozzi, i Basagni coltivavano zucche in mezzo ai frutteti. Cavoli verzotti erano la monocultura dei Guasti, Bargellini, Pinzauti, Vannini e Gelli a Rovezzano.
Insomma, ogni zona aveva una sua monocultura. Ma già negli anni Trenta la comunità mezzadrile della periferia fiorentina cominciava a confondersi e le famiglie che, per secoli, erano rimaste nello stesso podere, si muovevano nel giro di pochi anni. Così la cascina di Rovezzano, dove ci eravamo trasferiti nel ’33, negli anni precedenti era stata abitata dai Lippi, dai Caprini, i Marchi ed i Daliana. Gente che aveva finito con lo stabilirsi in città.
Quando fu costruita la Fiat paese, strada, casa e podere furono cancellati, ma rimane tutto vivo nella memoria come un paradiso terrestre .
Con la costruzione della Fiat fu cancellato un “popolo” che esisteva da secoli nella centuriazione romana al limite della città.
Abbattuto il paesino della Macine con la sua piazza tonda in terra battuta ed il pozzo al centro, spianate più di una ventina di cascine in cui abitavano i Bracci, i Grazia, i Vannini e tanti altri rimasero solo le case operaie di San Donato e San Cristofano, ai margini del giardino Demidoff e qualche cascina.

Quando andavo a trovare mia sorella Italia, accasata in via Carlo Del Prete, proprio al confine dov’era il podere, mi aggiravo per Novoli e passavo sotto la casa che fu dei Cecchi del Pingrosso, abitata poi dalla famiglia Parigi detta degli “Ominini” e mi inoltravo in San Cristofano, (ecco: quella la porta del sarto, qui il macellaio) e a San Donato ritrovavo la chiesa e la botteghina di Giobbe.
La chiesa, che allora sembrava così grande, col campanile romanico, addossata al giardino Demidoff, era divenuta poi piccola ed indifesa di fronte alle nuove costruzioni. Poi andavo verso il Terzolle, dov’erano le fabbriche di cenci, di celluloide, di fuochi d’artificio. Infine lasciavo la terra delle “sciabbie” e tornavo verso casa; a volte mi pare di essere ancora sul calesse e di avere fra le stanghe Nella, la cavallina rossa di quando ero ragazzo.
Ma soprattutto ripenso alla vita nella grande cascina durante il bucato per le famiglie borghesi.
La famiglia serviva, fra gli altri, i Tamberi, che avevano una scuderia di cavalli da corsa, ed anche i Digerini e Marinai, che avevano la villa vicino al podere, padroni di una fabbrica di biscotterie, in piazza Alberti, dove le donne andavano a comprare i biscotti: i rottami delle “marie” .
Quando c’era la settimana di bucato la casa si trasformava in una sorta di bagno turco: uno spesso vapore ad altezza d’uomo invadeva ogni stanza al piano terra, mentre i panni venivano portati ad asciugare e piegare in una stanza del primo piano, a “caposcala”. Quella è stata la mia vera casa che dovemmo lasciare perché la zia, detta la “belva”, aveva allontanato i propri figli sistemandoli come fattori, mediatori, garzoni presso facoltosi terrieri ed alla fine aveva chiesto anche la nostra cacciata.
-Vai via te o vo via io, così ci muoio -.Aveva detto lo zio al babbo Gigi che, buono com’era, decise di lasciare quella terra larga, dominata dal monte Morello e dalla Calvana, dove anche in estate a sera scendeva un vento fresco e le cascine erano come ville.
Lo sgombero fu una cosa da ricordare. Occorse l’aiuto di altri due contadini perché c’era da portare anche olio e vino. Per l’entrata in città il dazio fu pagato al Ponte alle Mosse e fu rimborsato, per l’uscita dalla città, al casotto di Varlungo..
Purtroppo, nella nuova mezzadria la ricchezza contadina -un credito a scrittoio di L. 24000 e sette mucche in stalla -scomparve rapidamente. Più che uno sgombero fu il principio della fine.
E ce ne volle di tempo per riscuotere il credito. Fra il 1933 ed i1 1935 continuai a frequentare l’amministratore dei Principi Carrega sia per confidenza che per chiedere il saldo. Ma il sor Giuseppe, che abitava sulle prime rampe di via Bolognese, mi rispondeva -Vedi, i contadini di Careggi i loro debiti non ce li pagano ed allora…..
Insomma, tornavo sempre a casa con un biglietto da cinquecento lire.
Alla fine la moglie del fattore si indispettì – Sàldalo, con tutte queste visite mi secca -.
E veramente ad essere seccato ero io che dovevo inforcare la bicicletta per farmi pagare una piccola frazione di sudore già versato.

IV

Da ragazzi, nei primi venti anni del secolo, la vita si svolgeva sull1’aia e sotto al portico. Da lì partivamo per le nostre avventure nei campi. Ricordo che una volta la mamma mi disse: – Guido, lo sai che il Vannucci ha un campo di ciliegi maturi – piacevano tanto le ciliege, alla mamma – vai a fartene dare qualche rama! – .
Stavo giocando con una cassa da frutta, la lasciai cadere e via di corsa, attraverso i campi. Le donne del Vannucci mi gridarono: – Prendine qualche rama, portala alla Giovanna, vai! – Staccai qualche rama e ripresi, sorridendo al vento, la strada di casa. Lungo la strada del paesello le donne erano sulle porte e mi chiamavano: – Vieni qua, ragazzo – così, di volta in volta, staccarono tutte le ciliegie e non rimasero che foglie. La mamma, fingendo asprezza, mi disse: – Passa attraverso i campi, un’altra volta – ma sapeva che la mia gioia era proprio in quel dare, in quel gioco di mani fra le foglie.
Sull’aia grandi e piccoli giocavano a muriella con piastre di pietra e, poi, di ferro: traversine delle ferrovie. Giocavamo anche in otto o dieci. Una muriella a testa ad una decina di passi dal “sussi” o “ritto”, su cui ogni giocatore metteva una moneta. Le monete andavano a chi riusciva a farle cadere sulla propria piastrella o vi rimanevano vicino. Erano serate intere con le maniche ai gomiti e la tesa del berretto sul filo delle ciglia.
Sull’aia si uccideva il maiale per ricavare qualche lira dalla vendita di spalle e prosciutti. Ricordo che subito dopo la Grande Guerra noi ragazzi rimanemmo senza scarpe ed eravamo un buggerìo. Allora i vecchi ne parlarono dopo cena, al focolare, e decisero di vendere un maiale perché soldi in casa proprio non ce n’erano.
Ho le immagini, come fosse ora. Quando il maiale sentì avvicinarsi il macellaio (ed era ancora lontano, sulla strada) cominciò a ringhiare dal terrore riconoscendo il boia dal fiuto. Era un maiale da due quintali, che avevamo cresciuto noi ragazzi, e lo strazio che sentii allora nel vederlo macellare lo sento ancora oggi.
Col ricavato furono comprate le scarpe per tutti i ragazzi al mercato domenicale di Sesto e ci vollero tre viaggi col calesse, con a cassetta un grappolo di ragazzi sempre diverso, per soddisfare le necessità del famiglione. Tant’è che alla fine si rimase di nuovo senza una lira.
Sotto al portico si riunivano le “conigliate” dei bambini, quando arrivava il barbiere. Il “barbiere” era Ricciolo, un uomo che viveva di espedienti, girava di cascina in cascina come mediatore di maiali e come ruffiano. Infatti aveva fatto sposare anche il babbo: gli aveva detto che dai Cecchi, in via del Rondinino, dove allora erano solo campi, avevano una ragazza da sposare, Giovanna, così si chiamava. Quando portai il tuo babbo dalla Giovanna aveva un cappellino di traverso ed un ciuffo che gli spuntava da una parte – mi diceva Ricciolo mentre preparava le forbici.
Tagliava i capelli con grandi forbici da bestie. Chiamava i ragazzi uno dopo l’altro e diceva: – Sta’ fermo che se no ti fo le scale e ti mando in paradiso – per dire che il taglio non sarebbe venuto bene, ma i capelli venivano puntualmente rasati a zero. Mentre compiva questa operazione diceva qualche battuta, per farci stare buoni: – Che è vero che tu hai detto: signora piscia mi scappa la maestra? – e lì a ridere.
A volte era in vena di scherzi piuttosto pesanti, come quando al garzone Bracale tagliò una striscia di capelli dalla nuca alla fronte ed una da un orecchio all’altro e poi disse, fra le risate dei ragazzi: – Ecco fatto! – .
Sull’aia si comprava e vendeva il bestiame. C’era un sensale per ogni tipo di bestie. Il sensale arrivava sull’aia col cliente. Dopo che quest’ultimo aveva palpato, spregiato, detto di essere stato trascinato lì a viva forza dal sensale, ma che di bestie non aveva davvero bisogno, gettava là un’offerta indegna, da non comprarci un pulcino.
Rotte le trattative, il cliente prendeva la via del cancello fra le grida del sensale che lo inseguiva e lo riportava sull’aia e proponeva infine un’offerta più accettabile stringendo nelle sue mani e dondolandole le destre dei contraenti che tiravano a tutta forza per sciogliersi.
A questo punto le voci si facevano davvero alte ed acute, e ciò voleva dire proprio l’opposto, cioè che l’affare stava per concludersi. Questa recita sull’aia, che poteva durare anche un’ora, era per noi ragazzi qualcosa di terribile: dalla finestra della camera, in cui venivamo per l’occasione relegati, vedevamo questi uomini a misura ridotta, come si seguono i calciatori dalle gradinate di uno stadio, ed il loro muoversi, il loro gesticolare, il loro gridare aveva per noi il senso di una rissa furibonda.
Anche le donne si facevano sulla porta della grande cucina, nei momenti di maggiore eccitazione dell’accordo, davano uno sguardo annoiato e sospettoso per rientrare noi per le loro faccende.
Tenevano comunque pronti fiasco di vino e bicchieri per il momento in cui il contratto fosse andato in porto e gli uomini, sciolta la tensione, fossero entrati in cucina recriminando fra loro per il pessimo affare portato a termine. Ma le accuse fra venditori, compratori e sensale si smorzavano e lasciavano il posto ai commenti sul tempo, sui raccolti, sui padroni(per i quali compravano e vendevano); mentre il sensale delle mucche, un giovane asciutto, biondo, con i riccioli fitti sul capo, scambiava qualche parola con le donne sensibili alla sua bellezza e dava una pacca ai ragazzi a cui era stato permesso di scendere dalle camere. Abituato a queste scene, mi crebbe la voglia di fare il mediatore.
Ma non sempre le cose andavano per il meglio. Una volta sulla Calvana, si stava trattando un bove, il sensale era di Sesto e si chiamava Malandrino: era un uomo magro e spiritato. In cucina era stato allestito un pranzo per tutti a base di farinata bianca su un tavolo di fortuna. A un certo punto il sensale preso dalla foga ed intenzionato a portare a termine l’affare dette un pungo sul tavolo e gridò: – Il bove gli è venduto – .
Ma il pugno fu tanto forte da rovesciare le assi ed imbrattare di farinata gli scarmigliati mercanti che prima cominciarono ad imprecare, poi scoppiarono a ridere e l’affare fu fatto e suggellato da una bevuta.
L’aia era, insomma, il luogo d’incontro con gli ospiti. Perfino i padroni, quelli piccoli, venivano sull’aia a dare ordini al contadino. Ricordo un fatto curioso avvenuto nel podere confinante col nostro, lavorato dai Bracci. Il proprietario era un certo Panconesi che aveva solo quel podere e voleva viverci di rendita. Si era fra il 1915 ed il 1918: i Bracci erano presi di mira dall’attenzione del padrone.
Accadde però che questo Panconesi fosse soldato semplice ed un ragazzo del Bracci sergente. Inoltre questo Panconesi faceva il militare di leva a Firenze, nel reparto telegrafisti, detto anche delle “signorine”.
Siccome era di stanza nella sua città capitava spesso sull’aia dei Bracci, per fare loro delle parti.
Un giorno che la scena si ripeteva, tornò dal fronte il sergente ed anche lui stava per avere la sua razione di impropèri, quando con aria marziale impose al suo padrone: – Intanto mettiti sull’attenti e dammi del voi! – E quello dovette scattare come una molla. Il fatto fece il giro del paese: un mezzadro aveva potuto dare del tu al padrone ed esigere il voi, mettendolo, per di più, sull’attenti, sull’aia.
Cose di altri tempi, naturalmente, ma questa è la mia storia, l’unica che ho e per cui respiro. Una storia da nidiace (e si che mi piacevano i nidi: facevo spesso baruffa con i ragazzi che cercavano di prendermi i nidi di velie) e la gioia di essere figlio, anche da vecchio, mi è rimasta nel sangue.
Quando la sera calava sull’aia e la notte, poi, abbuiava la campagna, cercavo il letto della mamma come una nido. Quando ero mezzo addormentato il babbo mi prendeva in collo e mi portava nel letto dei garzoni, perché lettini per ragazzi non ce n’erano.
Mi sentivo prendere, ma non avevo la forza di reagire; solo a volte, alle mie insistenze, dormivo ai piedi nel letto dei miei genitori ed il babbo apriva a forbice l’alluce e diceva scherzando: – Ora ti piglio -.
Allora nel silenzio dell’aia si muovevano le ombre degli alberi al vento della Calvana e del Monte Morello ed io mi rannicchiavo nel letto della grande casa ad elle che non c’è più.

V

Nella cascina della Macine eravamo qualcuno.
Il babbo ricordava che il nonno Pietro morì nel 1868, quando lui aveva cinque anni, per una broncopolmonite durante l’aratura. Rimase 1a nonna Nunziata, che veniva dai Gelli del Barco, con altri quattro figli piccoli, così i padroni le dettero la disdetta.
Le terre erano dell’Istituto degli Innocenti, c’era ancora lo stemma col bambino fasciato sul muro di casa, ma furono vendute proprio in quell’ anno al Principe Franco Carrega che aveva la villa a Careggi .
Allora rientrò in casa uno zio “bizzo” , detto il Rosso, per la grande barba che gli scendeva sul petto e fu lui il nuovo “‘Capoccia”. Lasciò il suo negozio in Borgo Ognissanti e prese a condurre la famiglia contadina dall’alto in basso, col suo carattere duro e mutevole.
Il nuovo capoccia piacque molto al Principe che lo teneva come uomo di fiducia e a volte lo portava con sé anche all’estero, per acquistare il bestiame. Quando era in buona raccontava ai nipoti le stranezze del principe, come quella volta che si fermarono ad un’osteria e di fronte ad un piatto di baccalà gli domandò: -Ma cosa è, Rosso, il baccalà? -.
A contatto con un capoccia così patrigno e lunatico il babbo si era formato un carattere mite ma anche terribile: era capace di allevare i vitelli, trampolanti in un angolo della stalla, col poppatoio, ma anche di far volare i ladri d’uva con un pugno secco oltre le siepi.
Morto il Rosso la casa rimase al babbo ed allo zio Geppo. Sulla parete della cucina stava appeso il ritratto del principe Franco e eravamo orgogliosi di esserne i favoriti. Avemmo così una decina di anni felici.
“Levate Musolino di galera/ portatelo nella città del Fiore/ e dategli un fucile per bandiera/ che se le possa far le sue ragione” cantava spesso il babbo mentre educava le viti ai rami dei loppi. Ma di anima non era violento. Prendeva i giunchi dal mazzo, li tagliava con le forbici da potino e legava i rametti delle viti. Un lavoro senza sorprese, che si ripeteva da secoli, ma che conserva la flessione stessa dell’universo, l’armonia del creato.
Prendere il viticcio, accostarlo al rametto del loppo, legare il tutto con un salcio, rapidamente, era un atto unico e lungamente ripetuto, durante la giornata, nel profumo di legno fresco. Era il profumo dei salci sbucciati ad emanare quell’odore intenso, a metà fra l’erba ed il legno.
Già era curvo, perché – come dice il proverbio – la terra è bassa, con i capelli tagliati all’umberta ed un bel paio di baffi spioventi. Canterellando il suo rispetto, si piantava stabilmente sui piedi portandosi le mani sui fianchi e cercando di ergersi sulla persona con un respiro largo e profondo misurava con lo sguardo lo spazio circostante prima di sedersi sul ciglio di un fossetto affondando, come una formica, nell’erba:
“Quando il sole insacca a Giove/ ‘un c’ è sabato che ‘un piove” si diceva con un filo di amarezza per il tempo variabile che gli era più padrone del padrone. D’altronde “Il venerdì/ ‘un fa quello che fanno gli altri dì “.

Lì si versava un bicchiere d’acquerello dal fiasco spagliato e lo beveva d’un sorso, alzando il capo, fissando per un attimo il cielo arrossato del tramonto, venato come i suoi occhi e le sue mani; mentre il sole si insaccava spesso in una bassa nuvolaglia.
Il vinello non era dei migliori, fatto fermentare con uva di mammolo e, per di più, di seconda stringitura prendeva presto l’aria, il “fòco”, l’ aceto .
Raramente durava un’ annata, più spesso a marzo dovevano gettarlo.
Dopo l’ultimo bicchiere il vecchio si lisciava con le mani a pala i baffi spioventi sotto i forti zigomi e finiva così a somigliare al noce a cui stava appoggiato. Allora si appisolava nelle nuvole del tempo e passava in rassegna alcuni momenti della sua vita per sentirne il peso, lo spessore.
Mentre si faceva traversare da quelle memorie nel sole sanguinante del tramonto, accadeva a volte che il suo cane gli saltasse addosso e gli corresse intorno latrando felice, come se avesse ritrovato un amico dato per perso. Allora il babbo gli rifilava una carezza che era quasi una manata da lasciarlo stecchito, tanto che il cane rimaneva interdetto prima di accosciarglisi accanto.
Poi il cane allungava il muso ed il babbo cavava dal paniere un pezzo di pane, lo intingeva nel sugo del pentolino della merenda e glielo portava alla bocca con bonomìa: -Mangia anche te, mangia – diceva amaro.
Questa delle bestie era la sua passione: se le rigirava intorno proprio come le mosche che lo pinzavano, richiamate dal sudore raggrumato negli abiti.
Anche a tavola, in tempi di carestia, pensava alle bestie.
-Nina, dammi del pane! –diceva a Italia, una delle figliole.
– Oh che l’ avete finito , babbo? -sapevano che ne dava ai cani ed ai gatti.
– Babbo, ‘un gliene date. ..!.
– Gli do del mio, gli do – rispondeva risentito il babbo, ma col tono mite dell’uomo senza durezze nell’animo.
– Nina, dammi del pane – diceva ancora basso, perché gli altri figli non sentissero, con una mano sulla testa del cane.
Ormai la Fiat aveva messo gli occhi su quelle terre e la cognata aveva avviato i suoi figli verso altre attività. Si era verso la fine degli anni venti, aveva cinquantasette anni e nessuna voglia di ricominciare.

VI

Ci sono sere che piove, il lavoro ristagna ed i ragazzi si mettono lì, a muso lungo, senza sapere che fare e poi chiedono, con aria inquieta: -Raccontaci qualcosa -.
A me viene da mugugnare qualche stornello, così, a mezza bocca, perché anch’io sono inquieto e non ho voglia di entrare in discorso: – Levate Musolino di galera… – poi mi cheto: – Lo cantava il nonno ? – dico.
Il maggiore, che già ha smesso le scuole e aspetta di trovare lavoro domanda: – Era anarchico il nonno? -.
– Non lo era – rispondo con sprezzo (“anarchico” per i contadini è un’offesa, vuol dire rompiscatole) – cantava quando era stanco, per dispetto, per rabbia e lo sentivano anche i mezzadri dei poderi vicini – .
– Non pensi che il nonno avesse simpatia per i briganti? – insiste il maggiore.
– Il nonno non simpatizzava per i briganti, ma voleva bene a tutti, anche se commentava che il mondo è pieno di briganti, proprio ! -.
– È fra le vigne che cantava -interviene mio fratello – quando si stava a Novoli. Qui a Rovezzano non cantò più -.
– Era pretaiolo il nonno – continua il giovane ,ma senza convinzione .- Figurarsi! accendi la luce – diceva a sera – s’ha da stare tanto al buio, sotterra. E questa era la sua religione -.
– Era mangiapreti, allora? -.
– Questo nemmeno. Anche se smise di andare a messa quando un prete si mise a predicare ‘morite, morite, peccatori’, invece di dire: ‘morimo, morimo!”
Gli altri contadini, prima dei Patti, quando vedevano un prete si gridavano fra loro, ridendo: -Buttalo in conca, o ‘n tu lo vedi com’è nero. T’accorgerai che acqua nera fa! –
Il prete di San Donato girava con un guanto di ferro, imbullettato, per difendersi. Ma il nonno non gli dava noia. Soltanto, la sera, quando girava il falcione dell’erba si sentiva cantare qualche stornello in voga: ‘In piazza di Rifredi c’è una vite/ matura l’uva d’inverno e d’estate/ le meglio ragazzine le son del prete -.
Poi smette di piovere e i ragazzi più piccoli si perdono sull’aia; rimane solo il maggiore che – entrato in discorso – vuole sapere.
– Dava noia alle donne, il prete? – – A quelle che ci stavano, di sicuro, invece se un giovane si voltava a guardare una bella ragazza e questo finiva al confessionale, potevano anche mandarlo militare e per anni -.
– Piacevano le donne al nonno? – Cominciavo a stancarmi, mi esprimevo per paragoni.
– Ha fatto il militare come tutti. Diceva anche: le lastre di Firenze fanno gli uomini e li disfanno e intendeva, fra l’altro, le donne.
Era un uomo sincero. Quando mi nacque il figlio disse: ‘s’ha a chiamar Franco e dev’essere Franco. – – E allora? -.
-Per dire, ecco perché cantava queste cose: era franco. Il ragazzo gli somiglia, ma è più chiuso; d’altronde, in un mondo così…! .

– Franco, anche in ricordo del Principe Carrega di cui c’è una foto in cucina? -Chiese malizioso il nipote.
– Anche: – È la prima volta che il nipote rompe il silenzio che lo divide dagli adulti.
Si vede che cresce. Questo suo parlare è cosa nuova.
Il discorso sembra non volere finire, sentiamo di essere legati a qualcosa di essenziale come lo scorrere della vita: allora ci interrompiamo.
Il fratello passa cantichiando – E Quando Mussolini andò al balcone…- una parodia che riguardava anche Vittorio Emanuele III.
– Gambine – mi viene da dire.
– Gambine, chi? -domanda il ragazzo.
– Il re, lo chiamavano Gambine -.
– Ma nel Duce, ci credevate? – chiede il ragazzo ormai a ruota libera. – Le fedi, gli anelli non si dettero e nemmeno si prese la tessera del Fascio… Doveva prenderla il tuo babbo, ma non se ne fece di niente .
Allora la festa del lavoro, il primo maggio, era vietata; ma da noi veniva sempre qualche comunista a festeggiarla con un fiasco di rosso ed un’infilzata di uccellini arrosto.. E nemmeno mancavano le strofette.
Allora le donne guardavano alla porta circospette e dicevano: ‘via, c’ è da levare la tovaglia… ~ .
– Che strofette -chiede il ragazzo in modo conclusivo.
-Sì, come: viva il duce che alla fame ci conduce; e Mussolini l’hanno fatto il capo / e a me mi pare il capo tamburo; Tu Mussolini fosti un gran guerriero/ guarda che pane che ci dà l’impero; Ora che c’è l’impero e Mussolini / pane da cani e tasse da assassini; Lucciola lucciola vien da me / ti darò il pane del re /Pan del re e di Mussolini/ fatto di vecce e di lupini; / Fra la Valencia Mussolini e il Norge / ce lo mettono in tasca e non ci se ne accorge. Ma allora il nonno stava già da una parte, col silenzio e la pipa in bocca.
Preferisco ricordarlo quand’ero ragazzo e mi mandava a comprare tabacco e fiammiferi alla bottega della Macine. Ricordo una volta nel correre i fiammiferi mi si incendiarono in tasca, la paura che mi presi…
Preferisco ricordare il babbo giovane, con le pipe fatte in casa di radica di scopa, caricate a foglie secche di noce e di vite, mescolate alla scorza di vite. Il giro di una sola pipa fra i grandi, la bevuta di succo di mele fermentate, dopo averle strizzate nello strettoio dell’uva. Basta, altri tempi.
Si era fatto così l’ora di cena, in una sera come tante, con la cucina che si riempiva di facce smagrite dalla fame.

VII
Fu nel 1930 che ci trasferimmo come mezzadri alle dipendenze dei marchesi Strozzi- Riccardi. La loro villa è al centro di un piccolo feudo composto da sette poderi che si estendono da Settignano a Rovezzano coprendo una trentina di ettari di terra da ortolano.
La villa ha una storia, ne trascrivo qualche parte per me suggestiva.
“La villa Querceto è posta sulla collina di Settignano rivolta e mezzogiorno, cioè verso Rovezzano. È antichissima. Esisteva già nel secolo XIV. Da oltre seicento anni appartiene alla nobile famiglia degli Strozzi.
In quel tempo la villa aveva ‘Terrazza, torri, volte sopra e sotto terra, tre pozzi ed un magnifico giardino alberato all’intorno’ ed era posta ‘nel popolo di S. Martino la Mensola in loco detto Querceto”.
In essa, secondo Scipione Ammirato, si rifugiò nel 1379, al tempo del tumulto dei Ciompi, Mariano degli Albizi, che era ricercato dal governo di Firenze è che riuscì a fuggire dalla porta di dietro’.
Sotto l’orologio che sovrasta, al centro, la facciata della villa, si legge: “DE TOT QUAE RAPIDAE LUNBUNTUR MILLIBUS UNA/ SALTEM UNA HEU! / FELIX PRODEAT HORA MIHI”, che vuol dire “Deh! fra tante ore che t’escono dal seno/ macchinetta gentil un’ora sola/ segna un’ora per me felice almeno”. L’orologio e l’iscrizione furono posti nel 1812 da Anna Strozzi Riccardi. È una delle più belle ville della collina settignanese”.
Questo, per la storia, per la cronaca gli ultimi marchesi, Uberto e Geri sembravano due persone un po’ fuori dal mondo, i cui affari erano curati da un maestro di casa di forte temperamento, il cavaliere Nerone Bandini, da un fattore sempre incerto sul da farsi e da una fattoressa assai decisa. Le famiglie contadine erano molto devote: dai Marilli, ai Cammilli, ai Petronaci che lavoravano i poderi verso Settignano; ai Ceseri ed ai Giannoni che lavoravano le terre vicino alla villa; ai Peroni e a noi che coltivavamo i poderi verso Rovezzano.
Ma bastava un nulla ad accendere il sospetto dei Marchesi Strozzi. Al tempo delle raccolte le primizie venivano messe in un paniere ed inviate alla villa per mano dei ragazzi che dovevano percorrere un lungo viale segnato da una doppia fila di pini. I ragazzi andavano su, passo passo, e leggeri per lo scricchiolare della rena e del pinocchino sotto gli zoccoli e per la mancia di pochi centesimi che ricevevano dal giardiniere sul cancello della villa.
Con questi diecini giocavano poi a muriella (in italiano, a piastrelle) sullo spiazzo antistante l’inizio del viottolone attirandosi i richiami di qualche familiare perché i marchesi lo volevano sgombro, per quanto il transito di carrozze fosse solo una memoria.
Un giorno uno dei ragazzi che saliva il lungo viale alberato col suo cestello di primizie incontrò il marchese Geri che lo fermò con aria inquisitrice.
Si dà il caso che il ragazzo portasse un paio di calzettoni rossi ‘redati’ da non so quale cugino ed il marchese sospettò che fosse una provocazione politica:
– Siete mica comunisti? – Il ragazzo non sapeva ancora il significato della parola e, turbato, raccontò a casa l’incidente di percorso.
Va be’ che la madre Marchesa aveva fatto interdire il figlio (che pare non fosse stupido) perché aveva messo a rischio l’unità della fattoria cedendo alla volontà della moglie, ma intanto occorse un “chiarimento”, anche se bonario, fra il padre del ragazzo e il fattore.

Dall’alto della loro villa i marchesi avevano un lignaggio da difendere. I prati sotto la villa, dov’era il podere del Ceseri, servivano in passato per allevare i cavalli per i cocchi. I marchesi compravano dei puledri e ne facevano dei cavalli: quelli erano i maneggi degli Strozzi.
Nelle stalle ci sono ancora i cocchi, le briglie, gli stivali, i pantaloni, le giacche, le tube con la scopetta dei cocchieri. Mi è accaduto di vederli quando sono andato a giornata, in fattoria. Cose che un po’ fanno malinconia ed un po’ c’è da sorriderne, ormai.
Anche la limonaia è immensa, ci si farebbero dieci quartieri. Ce ne volevano di braccia quando c’era da portare nuovi vasi di limoni, a stanga, su una grande barella.
Come schiavi ai remi, piegati dallo sforzo, quando si passava di fronte alla concimaia posta a pochi metri dalla limonaia, ci veniva da dire: – Gettiamoli là, è il loro posto – perché il profumo dei limoni grondava di troppa secolare fatica per essere diverso da quello del letame.
Si era durante il fascismo, negli anni trenta, quando venne una legge per chiudere le concimaie. Infatti la concimaia all’aria aperta, ad un passo dalle loro mura, era un’ossessione per i marchesi. Quando scendevano dalla villa lungo l’interminabile vialone verso la via della Torre (così detta perché vi erano ancora torri medioevali) qualche mosca del letame e qualche “profumo” doveva raggiungerli..
Allora chiamarono un muratore e gli fecero costruire un casotto per il concime, soltanto che il capoccia dei Giannoni, detto Chicco, quando doveva entrarvi, gridava delle litanìe che poco assomigliavano alle preghiere, per le esalazioni di ammoniaca.
Insomma, il feudo cominciava a scricchiolare anche se dalla villa i marchesi tenevano sotto controllo le loro terre e quando scorgevano un villico o un paesano chiamavano un uomo di fattoria e dicevano:
– Che fa quell’uomo laggiù? Vai a mandarlo via! –
La gente di Ponte a Mensola e dei borghi vicini conosceva queste fissazioni e faceva di tutto per metterle in burla.
Alla stagione della caccia, ad esempio, i cacciatori andavano vicino alla villa perché gli orti ed i giardini erano popolati di merli, ed anche quando non trovavano selvaggina scaricavano a vuoto le loro doppiette in una fucileria infernale per irritare i marchesi che – immancabilmente – finivano con avvisare i carabinieri di zona. Non eravamo più un “popolo”, come alla Macine.

VIII

La famiglia dello zio Geppo rimasta alla Macine e le sorelle sposate, a Rovezzano ci trovammo in quattro: i due vecchi, io e il fratello. Tutto da ricominciare da capo. Ci si doveva sposare e formare di nuovo una famiglia patriarcale. Ma nel 1930 le donne degli ortolani volevano accasarsi in città e lasciare la terra perché, come dice il proverbio, “la terra è bassa”; allora si cominciò a cercar moglie nei poggi vicini.
Per me non fu un problema perché ero cresciuto nei campi, in mezzo ai garzoni e alle garzone, e avevo imparato a conoscere gli umori e il carattere schietto dei poggiarini. Vedevo più lontano dell’aia, capivo che il mondo si allargava.
Fino da ragazzo seguivo il babbo sotto i portici di piazza San Gallo dove si riunivano garzoni e vangatori stagionali che scendevano a piedi dal Mugello, per la Bolognese e dal Casentino, per l’Aretina.
Questi braccianti dopo lunghe ore di cammino si fermavano sotto i portici dov’era il mercato delle braccia e li venivano scelti dai contadini che puntavano l’indice scegliendo i più giovani e i più solidi. Quando arrivavano erano magri e affamati, spesso portavano anche i pidocchi, ma erano gente buona, come sa esserlo un povero, quando è buono davvero.
Gli stagionali vestivano con abito di velluto, con le scarpe di vacchetta, chiodate perché le suola non si consumassero, e sotto avevano camicia di flanella e mutande lunghe. Erano vangatori o falciatori di grano, noi si chiamavano “segatori”. Quando falciavano prendevano un tanto a staio. Dormire dormivano nelle stalle e nei fienili, sopra al fieno, ma la cosa non era importante perché questi “cottimisti” smettevano di falciare all’undici di notte e riprendevano alle quattro del mattino. Per questo cantavano:
La sera con la luna
e la mattina con le stelle
padron mio tu vuoi la pelle.
Quando giungevano in una zona andavano di podere in podere secondo la maturazione delle messi. Insomma, si facevano un calendario dei lavori.
Alcuni segatori erano duri, aggressivi, lavoravano giorno e notte: il capogruppo che veniva alla casa nuova, proprio in quegli anni, si chiamava Quattroquadri perché in breve riusciva a falciare da solo quattro intere prode di grano, che lui chiamava quadri.
Veniva da Strada in Casentino, di cognome faceva Sereni. A volte saliva la Consuma con una Bianchi e alla discesa verso Firenze veniva giù in picchiata con un compagno sulla canna.
Nelle prode era tutto un cantare durante il lavoro, come per cacciare il mal tempo:
Dio ce la mandi buona e senza vento
che la campagna possa germogliare,
il contadino ci ha tanto talento
e semina la roba per mangiare.
La loro preoccupazione erano i temporali estivi che interrompevano il lavoro e allora si dicevano, di rimando, massime e proverbi:
Canta il gallo nel pollaio
e c’è 1’acqua nel grondaio.

Quando il sole sporgeva appena fra le nubi commentavano:
Quando il sole fa l’occhio di porco piove e, alzando lo sguardo al cielo:
Sole a piazzoli acqua a bigoncioli
Nelle ragnaie delle ville, sui poggi, venivano anche a far carbone: disboscavano, mettevano la legna più grossa in un ammasso e la coprivano di frasche verdi lasciando un’apertura in alto, per il fumo.
Durante le veglie scatenavano un’allegria da orsi. Ricordo che una sera a Compiobbi, in casa della fidanzata, eravamo intorno al fuoco ed un gruppo di casentinesi disse: – Che bella chitarra! – destando il nostro stupore. Allora il capo degli stagionali disse: – Eccola! – e staccò la padella appesa al camino, prese a battervi sopra: – Bum, bum, bum – e trascinò in coro tutta la famiglia.
Era una gioia rustica, come per scacciare il peso della fatica e della paura che ci teneva tutti.
In autunno venivano i vendemmiatori e vendemmiavano un po’ tutto, non solo l’uva. Allora noi, il venti settembre, che era festa nazionale, si bacchiavano e raccoglievano le noci, se no i vendemmiatori ne avrebbero fatto manbassa.
Alcuni di questi stagionali, terminati i lavori, ripartivano, altri si accasavano come garzoni. Però chi poteva in inverno tornava al suo paese d’origine. Infatti i garzoni quando a primavera giungevano erano soliti cantare:
E canta il merlo sulla querce nera
ti saluto padrone è primavera!
Ma quando si avvicinava l’inverno ed i contadini non avrebbero certo campato nessuno per tenerlo accanto al fuoco, i garzoni concludevano il canto:
E canta il merlo sulla querce monda
ti vo in tasca padron l’inverno torna.
Io sono cresciuto con i garzoni, da loro imparavo “l’arte di arrangiarsi” e anche come si viveva in posti che erano vicini e sembravano lontani. Sarà che sono stato allattato nel Mugello, a Farneto, vicino a Vicchio, ma insomma i garzoni li sentivo amici e, quando erano giovani, fratelli. C’era anche da divertirsi. Quando veniva il cattivo tempo si rimaneva tutti rintanati in cu_cina o sotto il portico e i garzoni, pur di non lavorare, erano contenti e cantavano al capoccia:
Piove e tira vento
il garzone sta contento.
Una volta il babbo, preso dall’estro, gli rispose:
E il padrone dalla rabbia
e lo manda a tirar la paglia.
E indicò la stalla. Ma il garzone non si dette per vinto:
E il garzone dalla saetta
va alla madia e piglia una fetta.
E così prese una fetta di pane e si ritirò di corsa nella stalla. Anche sotto al solleone quando potevano battevano la fiacca sotto un albero con la falce sull’erba. Così un giorno due garzoni ascoltavano le cicale: “segate e battete/ bel tempo l’avete” e si domandavano se la cicala nasce viva o da uova. Così il tempo trascorreva in chiacchiere, “a ba’ere”, finché il capoccia non se ne accorse e li richiamò alla realtà con la punta della forca.
Di sicuro gli piaceva parlare, raccontare, inventare, fantasticare. A volte ci raccontavano storie molto crude, che ci incantavano: come di una pastorella che si era addormentata sull’erba, a bocca aperta, ed una serpe le era entrata nello stomaco. I dolori viscerali furono interpretati male, i genitori pensarono che la ragazza fosse incinta e la batterono a sangue. Ci volle il medico per capire la cosa e liberarla dall’ospite.
Quando i racconti languivano durante la veglia, o nei momenti di lavoro più duro, i garzoni si scatenavano in litigi o si canzonavano per motivi di campanile:
San Piero lo scrittoio
Vicchio il cacatoio.
Lo scrittoio era l’ufficio del fattore, dove saldava i crediti dei contadini. Ma non succedeva mai perché il fattore esigeva i crediti sull’unghia e dilazionava all’infinito i suoi debiti perché se tutti avessero voluto essere pagati addio fattoria.. Era la logica del leone. Perciò la massima valeva solo per “chi la diceva per primo, ma la miseria era generale se no non sarebbero venuti a fare i garzoni.
Quando si era nel campo, si chiamavano col soprannome ad alta voce da una proda all’altra e così: “Oh Bufaaa!”, “Oh Bracaleee!” risuonava per tutto il podere. Questi soprannomi gli stavano a pennello.
Il Bufa fu chiamato così perché una sera d’inverno entrò in casa rabbrividito, stretto nei panni, spruzzato di nevischio, esclamando: “E bufa!”. Quella parola a Firenze ci sembrava strana, veniva dalle foglie lunghe, da gente abituata a vivere fra i castagni, e da allora quel garzone fu chiamato il Bufa.
Bracale fu chiamato così perché era sempre col cavallo dei pantaloni alle ginocchia, ma si chiamava davvero Bracaloni e veniva da Calcinaia di Pisa. Ricordo anche che di nome si chiamava Rodolfo ma nessuno lo interpellava col suo vero nome. A Bracale piaceva il vino ed una notte tornò alla cascina e batteva alla porta di casa come un caprone. Nessuno aprì e alla mattina Bracale fu trovato addormentato con la testa ed il busto nel forno, per stare caldo, e la gambe fuori, ciondoloni. Ma passata la sbornia tutto veniva dimenticato.
Comunque fra contadini e stagionali c’era della ruggine. Alcuni di loro si davano alla vita randagia e cercavano di buscare da vivere alla meglio.
Alcuni se ne andavano con una volpe legata ad un palo sulle spalle di cascina in cascina e chiedevano la ricompensa per la cattura. Chi gli dava uova e chi galline, anche se la volpe veniva chi sa da dove. Facevano come “il gatto e la volpe” e a chi li cacciava cantavano, come i maggiaioli:
Che v’entrasse la volpe nel pollaio
la vi mangiasse tutte le galline
e v’entrassero i topi nel granaio
e vi rubassin le bestie vaccine
e del malocchio c’era da avere paura.

La volpe vera erano loro, facevano come la gramigna, che più la sbarbi e più va a fondo e rinasce.
Altri si improvvisavano mendicanti con qualche difetto fisico. Venivano anche dalla città. Si scambiavano una scarpa, le giacche e i cappelli, nascondevano un braccio, indurivano una gamba e poi tiravano la corda del campanello.
Gli uomini della fattoria, impietositi, davano loro qualcosa. Noi, che la miseria non ci mancava, conoscevamo i loro trucchi, gli si dava poco o nulla e quando si vedevano riaggiustarsi fuori dal cancello gli si gridava: – Andate a lavorare, piuttosto! – .
Ma quelli erano delinquenti e rispondevano: – Ora ti si conosce, quando vieni a Firenze ti si dà! -.
Ce n’era della feccia, in città. Ma io, con la mia bicicletta, me ne andavo verso Pontassieve. A volte con Angiolino del Parrini me ne andavo a mangiare ranocchi ad una trattoria prima del ponte sulla Sieve, sulla sinistra, sotto una bella pergola. Poi andavo a conoscere i posti e a cercar moglie. Era una vita un po’ seria e un po’ buffa. Una sera volevo andare verso Rosano, ma arrivato al bivio di Villamagna, per errore presi per l’Incontro. La strada saliva e io me ne stupivo. A un certo punto capii l’errore, girai la bicicletta e presi la discesa. Ma era una bicicletta a ruota fissa e la discesa la feci pedalando, a tutta velocità, col rischio di finire in un burrone, sulle curve.
Non era facile trovare moglie, e poi c’erano i giovani dei paesi che ti guardavano torto e ti aspettavano dietro l’angolo, minacciosi, così che bisognava spingere sui pedali e via.
Ora che di garzoni, nella casa di Rovezzano, non c’era nemmeno da parlarne, ne sentivo nostalgìa mentre alla domenica andavo nelle loro terre alla ricerca di una sistemazione per formare la nuova famiglia patriarcale, alla casa di Compiobbi, della fidanzata.

BRUNA

1

Nel 1932 avevo venti anni e tante idee per la testa, nonostante la vita sacrificata fino ad allora trascorsa. Il babbo non aveva voluto fidanzarmi perché aspettava un’occasione adatta per farmi uscire dal paese ed avvicinare alla città. Ma, a dire il vero, la mia simpatia mi pareva di averla già.
La nostra vita cominciava prima dell’alba, anche alla domenica, quando alcuni cacciatori giungevano sull’aia con le loro biciclette dal manubrio alto. Infilavano la mano sotto la porta, tiravano la corda della nottola ed appoggiavano le biciclette sui muri della cucina. Quindi prendevano a cacciare per i campi e la campagna risuonava di spari.
Quando i cacciatori rientravano sull’aia col carniere gonfio e la faccia allegra trovavano sempre i ragazzi e le donne affaccendati in cucina. Allora cavavano di tasca qualche moneta “per lo scomodo” – dicevano – e la davano ai ragazzi. Poi, dopo aver scambiato qualche discorso con gli uomini, se ne andavano.
La miseria! da tagliarla col coltello: dopo che i cacciatori se ne erano andati gli uomini chiamavano a raccolta i bambini e si facevano consegnare i pochi diecini: di soldi, allora, non c’era nemmeno l’odore.
Un giorno uno di questi cacciatori, nel prendere il caffè insieme ad un suo giovane amico al bar d’angolo di corso Tintori: “Conosco una famiglia che ha una brava ragazza da marito”. Il mio destino era segnato. Questo giovane era alto, di carnagione chiara, con la faccia ombrata da un cappello di paglia, timido e riflessivo che il babbo diceva: “Ma non parla”.
Venne una domenica col cacciatore e si fermarono a pranzo. Al babbo piacque; ma io dicevo: “perché proprio lui?” e correvo a piangere in camera nascondendo la faccia fra le mani. All’inizio non se ne fece di nulla, ma il giovane continuava a venire coi cacciatori ed io, dopo un po’, cominciai a piangere quando se ne andava. Allora ci fidanzammo. Veniva alla domenica, ogni quindici giorni, spingendo la sua bicicletta col lume ad acetilene e la moltiplica fissa che bisognava pedalare anche in discesa.
Già sapevo cosa mi aspettava, la sua famiglia si era divisa dal ceppo patriarcale: erano il babbo, la mamma, lui e suo fratello maggiore. C’era bisogno delle mogli dei figli per formare una nuova famiglia patriarcale e a me, che avrei sposato il minore, sarebbe toccato obbedire.
Noi stavamo lì da secoli ed io ero orgogliosa della mia famiglia. Il bisnonno si chiamava Pellegro (Pellegrino) e la nonna Assunta: questa era stata così importante che anche una mia sorella fu chiamata Assunta.
Quando Pellegro, maestoso nella sua povera condizione, scendeva per la strada che da Monteloro raggiunge Compiobbi, tutti lo salutavano con grande rispetto: “Buongiorno Pellegro!” “Buonasera Pellegro!” e gli chiedevano anche consigli. Così almeno lo rivedo con gli occhi di allora, di bambina.

Quando mi fidanzai la famiglia era composta da tre nuclei: il mio, con i genitori Tonio ed Emilia e quattro fratelli; quello dello zio e l’ultimo di uno zio morto nella grande Guerra.
In tutto, una ventina di persone unite sotto lo stesso tetto dal bisogno e, a volte, divise da contrasti. Nel 1929, l’anno del grande gelo, i tre gruppi si separarono e la nostra famiglia si trasferì a Romena, alle Gualchiere: le mie due sorelle andarono spose, una al Girone e una alla Nave a Rovezzano, e i miei fratelli già pensavano ad un podere nella periferia di Firenze.
A volte ripenso alla bella casa colonica della Cerbiosa, sotto Monteloro, e mi sembra di tornare in un paradiso. Il podere era di circa sette ettari e scendeva, a balze, verso il torrente. La casa a nord, lungo la strada, con a sinistra il fienile e alta, su una roccia, la statua della Madonna sotto una grande quercia.
Ogni proda aveva un nome: la Fornace, il Fossetto e tante altre. Lungo i filari maturava un’uva dolcissima: il trebbiano, il sangiovese. Nella fornacetta in fondo al podere gli uomini tenevano gli aratri che costruivano nelle giornate d’inverno. L’orecchio dell’aratro, il voltorecchio per ruotare i buoi nel solco, il “profine” per affondare più o meno nel suolo con la vangheggiola: il lavoro non era facile. Gli aratri erano tutti in legno con la sola vangheggiola di metallo.
Tutto cancellato, per sempre. Anche la famiglia del fidanzato aveva subito lo stesso sdoppiamento e lui se ne lamentava. Cominciammo a sentirci come in uno specchio e così venne il fidanzamento ufficiale: il pranzo, come di regola, a base di coniglio arrosto, affettati, vino, pane fresco e buoni propositi.

II

Poi ci fu da fare entratura, da ricambiare la visita a casa del fidanzato, il babbo si vestì di un grigio intero, mise anche il fiocco, ma aveva un cappello bisunto, che una volta era stato grigio ed ora tendeva al marrone sporco. Era una domenica, ma nei paesi i negozi erano aperti anche di festa. Così ci fermammo dal merciaio ed il babbo si tolse il vecchio cappello e lo mise da una parte sul banco: Lo riprendo quando ripasso -disse..
-Capito -sorrise il merciaio – andate a fare entratura -.
perche il cappello nella vita di un uomo era importante. Era un segno di potere metterselo, cavarselo, scappellarsi, mentre alle donne era vietato portarlo: c’erano le pezzòle.
Il babbo prese il cappello nuovo, ne alzò la cupola e lo strinse fra l’indice ed il pollice, proprio come i carrettieri. Non andava bene. Allora spinse la cupola verso l’interno e si formò un margine circolare, ma la tesa era troppo stretta per quel modello che aveva anche il fidanzato la domenica prima e ci teneva tanto che ce ne volle per farglielo levare. Alla fine il babbo decise: alzò la cupola e con la mano a coltello gli dette un colpo formando un’infossatura.
.- Così va bene, Tonio -Gli disse il merciaio.
Però, stava davvero bene con quel vestito e quel cappello, il babbo -Gli si intona -disse il merciaio e così uscimmo per prendere la carrozza.
Prima faceva anche compassione , con gli abiti consumati, un cappelluccio che sembrava messo su un ciocco, invece che su una testa, i gesti stanchi dal lavoro appena smesso: ora sembrava uscire da una fotografia.,
Questi sentimenti erano nuovi, e non si potevano nemmeno dire. Al babbo ed alla mamma si dava del voi e basta.
Ma io ero felice di sentire in questo modo, di capire la condizione. Cominciavo a sentirmi diversa dalla mamma, nera di vesti e di dolore, sempre a lavorare, a intrecciare panieri e rivestire sedie, anche di domenica, che pure era una festa comandata.
Forse avrei smesso di portare gli enormi bigonci di cesso a spalla, a bilanciere col fratello che gridava: -Sta su, perdio -come ad una bestia, prima ancora che facesse l’alba.
Salii col babbo sulla carrozza e lo sentii fratello, più che babbo e mi venne da dire, guardandolo con amore: “Si vedrà! “.
Alla casa del fidanzato erano ad aspettarci altri uomini col cappello nuovo e donne un po’ aperte ed un po’ sospettose.

lll

Non avrei voluto vivere come una schiava, come mia madre. Nella cascina della Cerbiosa c’era la stanza del telaio, dove la mamma trascorreva i giorni di pioggia o di gelo a tessere lenzuoli, asciugamani, teli, tovaglie, coperte. La stanza dove stava il telaio, ne prendeva anche il nome.
Siccome veniva usata pure per magazzino, in famiglia dicevano:– Porta quest’orciolo (o altro) nella stanza del telaio – .
Mia madre era stata ragazza a Bibbiano, sopra a Pontassieve, ed insieme alla sorella Rosa era la tessitrice di casa: trascorreva intere giornate a tessere e siccome il lavoro era faticoso e la parte mobile dell’attrezzo batteva ritmicamente allo stomaco contrasse un’ulcera di cui non si liberò mai. Nella casa del marito era attesa perché nessuno sapeva usare il telaio che pure occupava un’intera parete della stanza.
Anche nella casa di Romena, sopra a Compiobbi, fu montato un telaio, ma più piccolo ed infatti possiedo ancora, fra i pezzi del corredo, una grande coperta tessuta dalla mamma ed avuta in dote nel 1933. A volte penso che il telaio a Bibbiano esista ancora ed a me, che lo vidi bambina, pareva un oggetto monumentale ancora battente alle mani della mamma.
Con i teli fatti in« casa il merciaio non serviva e poi i soldi ad averli.. Certo è che i nonni materni si rammaricavano della continua vita al telaio che aveva scassato lo stomaco della figlia nella casa da sposata.
Il sentirsi schiava, eppure attratta ai poggi d’origine lo sentiva anche la mamma che, rimasta vedova, ripeteva: – Vedova che si rimarita/ la croce non è finita – .
Quando andavo a trovarla che era ormai vecchia, alla casa della Torre Rossa, a Rimaggio, mi veniva incontro al cancello e diceva, sfiorando la testa del nipotino:
– Mi piacerebbe condurmi a vederlo grande, questo bambino – .
Era ormai vedova da anni, la guerra le aveva sbandato i figli e la sua faccia era come un libro aperto dell’ingenuità del passato: ci si leggeva un tempo lontano, una nostalgia di passato e di futuro.
Nata e cresciuta in una minuscola frazione sui poggi che dividono il Mugello dal Valdarno, la “vecchia” mostrava la sete di un cielo ferino ed azzurro, ora che i figli si avvicinavano sempre di più alla città con la fine della sua vita.
Era una vita dura, senza tempo, ridotta per sempre ad un pezzo di terra. Se le donne si sfinivano al telaio, gli uomini, nel cattivo tempo, si dedicavano alla costruzione degli attrezzi in legno. A noi ragazzi sembravano dei geni: tavoli, sedie, panieri, forche, stuoie, erpici, tregge uscivano dalle loro mani perfetti come da una bottega., Non era solo un modo di fare, ma anche di pensare.
Tutto quello che avevamo nasceva dalle nostre mani. Per questo il babbo, che era malato e sentiva di doversene andare, teneva i mannelli di legumi sottomano, per batterli a mazzi sul desco, a colpi secchi. E c’era nei suoi gesti come un doloroso mistero. Oppure passava serate a costruire i correggiati: due aste a punta rotonda (i “capocchi”) collegate con una correggia di cuoio. Lo ricordo impugnare il manfano, mentre l’asta più corta veniva ruotata e battuta con forza sul cumulo dei legumi per liberare i semi dai gusci.

Anche il forcone per sollazzare i semi veniva fatto in casa. Il babbo prendeva rami di olmo, li sbucciava ed incuneava i rebbi fra due scaloni, per fletterli. Seccando, il legno conservava la forma arcuata.
Fare una pala era ancora più facile ed era con questa che il babbo procedeva alla spagliolatura, gettando i semi contro un lenzuolo.. Ma tanti altri attrezzi venivano costruiti, nei giorni invernali e di pioggia, che ci sarebbe stato da rimanere inoperosi: anch’io partecipavo a costruire le stuoie per seccare la frutta, curvando un baccone di frassine fino ad ottenere un manico e poi vi si fissavano delle stecche per intrecciarvi dei rovi.
Mio fratello Gianni era molto bravo a fare i panieri: sbucciava dei bacconi di frassine e li curvava a cerchio per fare il fondo. Li forava e vi infilava le stecche del graticcio e lì intrecciava le vetrici che formavano il paniere. Alcune vetrici più lunghe servivano per intrecciare il manico.
Si passavano così intere giornate, lavorando, parlando e più spesso in silenzio vicino al focolare, come se si ascoltasse una voce lontana che non sapevamo se fosse quella del vento o di Dio. Gianni era bravissimo anche nel costruire sedie. Aveva tutto il necessario: la menarola ed un coltello a forma di mezzaluna, con un manico orizzontale ed uno verticale. Preparati i legni e formato lo scheletro della sedia vi si intrecciava del salistro che, sul piano, poteva essere tessuto in quarti o a scacchi. Il rivestimento veniva poi riempito di paglia secca, spinta con un mestolo forcuto,.
Alla costruzione di bigonce e barili partecipavano tutti. Si tagliavano le doghe, se ne bruciava un lato e si “domavano” (cioè si flettevano), dopodiché venivano fermate intorno a fondi che avevano apposite scanalature. In casa avevamo un marchio con cui si stampigliava il nostro nome sulle botti finite.
Premere l’uva nelle bigonce, durante la vendemmia, era la cosa più bella che si potesse fare. Si usava un ammostatore ricavato da un grosso palo con la punta arrotondata più larga dell’impugnatura. Bere il mosto dava un piacere che non ho mai dimenticato.
Nei lavori più complicati aiutavano artigiani di passaggio, che si fermavano sull’aia dei contadini dando sfogo ai loro caratteri primitivi e bizzarri. Come il Pinza, un costruttore di aratri che, fermatosi a dormire e non sapendo come spegnere la luce soffiò a lungo sulla lampada elettrica e poi la colpì con uno zoccolo imprecando: – Tu ti spengerai, ora -.
Insomma, la casa di ragazza era una bottega artigiana. Nella casa nuova, a Rovezzano, niente di tutto questo: non sapevano nemmeno tenere un succhiello in mano, c’era il lavoro dei campi e basta.

E poi l’entrature avevano sempre qualcosa di allegro quando non si risolvevano in una beffa, come nelle birbonate del cugino Cecco, che era il “numero” della famiglia.
Chi abbia dimestichezza con gli allevamenti di conigli sa che quelli di pelo bianco hanno una carne più prelibata degli altri. Inoltre è risaputo che fidanzamenti e conigli (cucinati alla domenica per il damo) erano un abbinamento obbligato.
Cecco aveva una particolare passione per i conigli bianchi e faceva la corte alle ragazze (a cui era affidato l’allevamento) che avevano gabbie folte di conigli bianchi.
Siccome il pranzo si ripeteva ogni sette giorni Cecco dava rapidamente fondo ai gabbioni e, di conseguenza, rompeva il fidanzamento e passava a corteggiare altre allevatrici.
Per un certo tempo la cosa passò sotto silenzio, ma infine una ragazza più astuta e più decisa – chiese che al pranzo d’entratura partecipasse l’intera famiglia del damo e volle da Cecco l’impegno di contentarsi anche di conigli grigi e brizzolati. Certo, quel pranzo con decine di invitati sfoltì sull’istante le gabbie di conigli dal pelo bianco, lucente – sintomo di ottimo nutrimento – che tanto avevano incantato Cecco, ma così pose fine alle imprese del cugino e la ragazza giunse in questo modo alle nozze.
E dire che nello stesso tempo Cecco aveva fatto breccia nel cuore di una ragazza meno esigente, ma che aveva il solo torto di allevare conigli grigi e pezzati. Il peggio per Cecco venne dopo, quando, esaurito il gabbione, si trovò con una numerosa famiglia da sostenere e le avventure giovanili erano rimaste solo un felice ricordo.
Durante il pranzo, seduta fra il babbo ed il fidanzato, mangiavo un boccone sì ed uno no e mi guardavo intorno, nella cucina nera di fuliggine, più sporca della nostra, quasi come un coniglio, con la nostalgia delle nostre veglie che affondavano nella notte dei tempi.
Ci si ritrovava fra donne scambiandoci le visite da cascina a cascina. Appena cenato partivamo ognuna col suo lavoro di cucito. Accendevamo la lanterna del carro dei buoi ed avanzavamo in gruppo. Le più anziane, se il vento scuoteva le frasche dicevano per vincere la paura:
– Bambine correte, ci sono i ladri! – .
Ci mettevamo in semicerchio intorno al fuoco e lavoravamo fino alle undici, poi facevamo il “pusigno”: mangiavamo cioè qualche specialità delle donne di casa. Dov’erano le arnie mangiavamo pane e miele, dov’era il gregge pane e formaggio.
Lavoravamo, ci raccontavamo storie. Gli uomini invece andavano al paese, chi a divertirsi al circolo, chi ad esercitarsi nella banda musicale. Avevano, insomma, altro da fare.
Solo nelle grandi occasioni, a vendemmia, per esempio, tutti partecipavano alla veglia. Facevamo dei giochi, come il gioco dell’anello. Stavamo tutti a mani giunte ed il giocatore faceva scivolare l’anello nelle mani di uno del giro. Poi si trattava di indovinare. Chi indovinava prendeva il posto del giocatore, chi non indovinava veniva colpito con un mestolo.
Ora altre veglie, più crude, mi aspettavano. Eppure ero lì, come in attesa di qualcosa di buono.

IV
Alla Cerbiosa il lavoro nei campi era durissimo, ma in certi momenti ci si sentiva liberi come uccelli: specialmente nelle mezze stagioni si passavano ore da non dire.
Nel pomeriggio, quando si stava a riposare sotto un albero prima di riprendere il lavoro, ed anche dopocena, si leggevano dei librettini comprati alla fiera di Pontassieve, che si imparavano a memoria. Erano storie in ottave, cantate poi nei campi, durante i lavori. Ma c’erano canti, come gli stornelli e le canzoni che venivano trasmessi di padre in figlio.
Quando ci pigliava l’estro, durante il lavoro, si cantava ad alta voce anche per comunicare con chi stava lavorando nei poderi vicini, in vallata o sui colli di fronte.
Accadeva così: uno del gruppo iniziava uno stornello a squarciagola, ma intonato, ad esempio:’
Se vuoi fare con me agli stornelli levati la mattina al canto dei galli faremo a gara a chi li sa più belli.
E dal verde che ricopriva la vallata e le colline si alzava la risposta:
Ed io degli stornelli ne so tanti
ne so da caricare bastimenti,
chi ne sa più di me si faccia avanti.
Erano disturne d’amore, di dispetto, di vita e di morte. Si intrecciavano fidanzamenti e si scioglievano amori, con gli stornelli cantati da lontano. Chi cantava a contrasto non si vedeva ma si riconosceva dalla voce: – Senti senti, è Gianni di Tonio; è la Lina di Fiore -.
Anche i canti in ottava venivano cantati a strofe alternate: così, lungo le pieghe dei poggi, si snodavano le storie di Pasquino o di Pia de’ Tolomei per ore ed ore.
Non mancavano storie sull’argomento, come di quel contadino che grida da un colle all’altro: – Oh Toniooo, che vo’ bere, che ha’ seteee! – e l’altro scuote la testa senza neppure staccarsi dal lavoro, e fa:
– Nzu! – per dire no, schioccando appena la lingua.
Certo, fra poggi e buche la distanza sembrava molta, ma in realtà era poca. Così il tempo passava e la fatica pareva minore. La questione era una sola: non si disponeva del tempo, la nostra vita era il lavoro.
Di fronte al podere della Cerbiosa c’era una cascina che aveva una torre sulle cui finestre batteva il sole. Quelle finestre funzionavano da meridiana: – Devono essere le dieci, devono essere le undici – diceva il capoccia, il tempo passava così.
A volte noi ragazze si attaccava a cantare la violina che era un po’ il nostro inno, la rivolta contro la schiavitù. Uscire dalla propria terra, dalla macchia, dai pruneti, anche a rischio personale, era un sentimento comune a tutte noi. Avevamo desiderio di andare in mondi nuovi: ai monti, al mare, di vivere come i padroni.
Per questo mentre avevo nostalgia per la famiglia che stavo per lasciare a volte mi confortava dicendo: tanto peggio tanto meglio; oppure: chi non risica non rosica. Ma rose non erano di sicuro.

V pp. 26-27

A Gricigliano, nel podere della Cerbiosa, rimase la famiglia dello zio e noi ci trasferimmo alla Gualchiere. A me dispiaceva lasciare la casa dove ero nata, le balze coltivate, la grande ragnaia che ci divideva dalla villa di Gricigliano che, dicevano, era del Quattrocento, con tanto di parco, cappella e ninfeo. Io andavo spesso
a portare i raccolti ai padroni e rimanevo incantata come di fronte a un castello.
Alle Gualchiere, dove in tempi lontani lavoravano la lana nelle stanze basse dell’edificio, dove giungeva l’acqua dell’Arno ed ormai era tutta una rovina, ci stabilimmo in una cascina sulla strada.
Era un edificio grande e con una bella piccionaia, ma le stanze erano sporche e piene di pidocchi perché la famiglia che prima l’abitava si era sciolta ed i vecchi erano stati trasferiti a poca distanza da lì, in una capanna adibita a cascina. Così, fino dall’inizio, cominciarono a manifestare astio nei nostri confronti.
Nel pulire la cascina nessuno si salvò dai pidocchi “pollini”: ne fummo tutti coperti da averne le gambe nere, ma alla fine tutto tornò come nuovo. In quel podere ci rimanemmo poco perchè ai vecchi fu affidata la terra sul fiume, intorno alla nostra casa, ed a noi la terra sottocosta intorno alla capanna dove loro abitavano. lnsomma, per andare nel nostro podere noi dovevamo passare dalla loro aia e quando la vecchia mi vedeva passare con le ceste sulle spalle mi diceva: -Bambina, non ti tremano le gambe con codesto peso? -Le
domande si ripetevano di giorno in giorno, il tono era astioso ed alla fine mi sentìi presa in una “fattura”: le gambe cominciarono a tremarmi davvero e persi la salute. Allora fui portata da un parente, lo zio Giocondo, che sapeva di magia, e disse che avrei dovuto lasciare quel posto altrimenti avrei potuto anche morire.
Per questo fui rimandata a Gricigliano, nella casa dov’era rimasto lo zio Serafo, e lì mi rimisi in salute, mentre al mio posto, per pareggiare il conto, nella casa delle Gualchiere fu ospitata una cugina..
Ma quella situazione non poteva durare; oltretutto il padrone -che era un piccolo proprietario – pretendeva i due terzi del raccolto, non la metà, e fu lì che il babbo gli sbottò in faccia: -L’ombra del fico, del moro e del padrone/ le sono tre ombre buggerone -E sì che era cattolico osservante, tanto che all’angelus, in qualunque parte del campo si trovasse, si inginocchiava e recitava una lunga sfilza di preghiere.
A farla breve, ci trasferimmo di nuovo sull’altra riva dell’Arno, sopra a Compiobbi, a Romena, in una cascina arroccata su una balza tutta sassi e ce ne vollero di braccia per fare lo scasso, alzare i muri a secco e ripianare le prode.
Veramente in pochi anni la nostra famiglia che, a memoria d’uomo, era sempre stata alla Cerbiosa si sparpagliò. Ma io pensavo spesso alla leggenda che mi legava a quel passato. Lì, a Monteloro, in tempi molto lontani, un re aveva sotterrato un tesoro e, fra le cose preziose, un vitello tutto d’oro.
Così recitavano a veglia i vecchi:
Fra Valle e Monteloro
c’è un vitello d’oro
e chi lo troverà
un gran signore sarà..

VI pp. 28-29

“Lumina lumina luminare/ l’è la sera di carnovale”. Iniziava così la “preghiera del grano” per liberarlo dal carbonchio, quando si era ancora in venti sotto lo stesso tetto. Per ogni bambino veniva preparata una torcia fatta con un palo ed un fascio di paglia lunga legata in alto. Accese le torce, i bambini scendevano in processione verso il campo, a mezza corsa, tenendo la fiamma piegata in avanti. Ed il coro “lumina, lumina, luminare” si spandeva per i campi, nella prima notte.
Siccome ogni proda aveva un nome i contadini modificavano il canto con parole appropriate nominando i terreni da liberare dalla ruggine. Ogni ragazzo prendeva una viottola e alla fine il podere sembrava un presepe mentre il coro si alzava:
Lumina lumina luminare
L’è la sera di carnovale
grano grano non carbonchiare
siam venuti a luminare.

Grano grano allunga allunga
che l’erbaccia non ti raggiunga
quello di là dalla fossetta
ogni spiga una mezzetta
quello di là dal fossettino
ogni spiga un mannellino
quello sotto la fornace
ogni spiga due schiacciate
quello di piano e quello di poggio
ogni spiga ne faccia un moggio.
Si cantava così perché avevamo la proda della fossetta, del fossettino e della fornace, noi avevamo terre a piano e a poggio. Se no si sarebbero trovate altre rime perché nella mia famiglia si era poeti e si improvvisava in ottave.
Anche nella casa di Rovezzano “illuminavano” il grano ma così, per
tradizione: prendevano dei fasci di paglia, strappandoli al pagliaio, e con i ragazzi andavano a accendere un falò al quadrivio della viottola, accanto al noce.
Allora, verso le dieci di sera, a chiusura dell’ultimo giorno di carnevale Firenze era coronata da un cerchio di fuochi che da Vincigliata andavano fino a S.Donato. Era uno spettacolo da vedere.
Se ne stava andando l’inverno, si avvicinava la primavera e forse
era un modo per festeggiare la vita che dopo qualche settimana avrebbe
rigermogliato. Chi lo sa, ma intanto noi ragazzi si correva lungo le
viottole con la nostra scia di fuoco e questo ci bastava anche se, a
pensarci oggi, era davvero poco.
– Oh che credete ancora a codeste cose? – diceva “il damo” quando gliene parlavo, ma senza disprezzo, lo diceva così, con un leggero sorriso.

Io sono settimina e per questo lo zio Giocondo, che faceva il guaritore, mi insegnò alcune pratiche perché queste cose possono essere tramandate. Per esempio ho curato la risipola con una chiave maschia e con le preghiere adeguate; i bachi con le corone d’aglio, il piombo fuso in un recipiente e le preghiere. Quando il piombo si attorciglia nel solidificare vuol dire che i bachi erano molti; dopo la colata il piombo deve essere gettato in acqua corrente. Non so dire, però i bambini ne hanno sempre avuto un sollievo.
Quando uno ha paura, si prende l’erba da paura mescolata col pilatro, se ne fa un decotto e poi si bagnano le gambe passando le mani dal ginocchio alla noce del piede
Non so cosa, ma qualcosa c’è.
La Bruna del Fedi era molto malata allo stomaco e fu “miracolata”. Ecco come andarono le cose: operata d’urgenza seguì un rapido peggioramento, furono avvisati i parenti che non avrebbe passato la nottata. Allora, come scrisse il cugino Giulio che era poeta:
Arrivarono i parenti pieni di dolore
che nottata erano venuti a fare,
quando la videro in quelle condizioni dissero: a domani non può arrivare.
Le labbra gli bagnarono col cotone,
non la vedevano più respirare,
quando furono le sette di mattina
dissero: e già morta la poverina.
Ma la Bruna aprì gli occhi, disse di avere sognato la Madonna e di sentirsi meglio. Fu dimessa e dopo qualche giorno era guarita. Si sa come succede nei paesi: la cosa passò di bocca in bocca, tanto che vennero a trovarla anche dei giornalisti che pubblicarono la notizia del “miracolo di Bruna Fedi”. Allora molta gente andava a trovarla e a portare delle offerte alla donna che già aveva ripreso a lavorare nei campi. E così la Bruma, che era una Nocentina cresciuta da un contadino del posto, e si era poi sposata con un contadino di confine, guarì e potè vivere meglio di prima.
Certo, eravamo vicini alla Madonna del Sasso che, a detto di tutti, è miracolosa, ma le cose andarono proprio così come racconta anche la storia in ottava rima del cugino Giulio pubblicata nel 1929 a Pontassieve, dove lavorava come garzone di macelleria.
Il libretto ce l’ho ancora nella cassetta del cassettone.

VII pp. 30-31
Battesimi, cresime, matrimoni e funerali erano le nostre “feste”, quando il parentado si riuniva tutto intorno ad un desco per partecipare a gioie e dolori, tutto faceva capo al prete ed alla chiesa. Si diceva infatti: Il cappello del prete ha tre punte ciascuna dice: io so i tuoi interessi e te i miei no, io campo senza lavoro e tu no, io prendo la tua moglie e te la mia no.
Noi una volta al mese eravamo obbligati ad assistere alla Messa che si teneva nella cappella della Villa di Gricigliano: dovevano essere presenti almeno un uomo o una donna per famiglia. Anche nella casa di Rovezzano bisognava assistere alla messa del marchese; sembra addirittura che, per eccesso di zelo, il marchese celebrasse messe per suo conto, dette anche “messe secche” nella Cappella gentilizia della Villa Il Querceto.
Le cappelle gentilizie servivano per misurare la fedeltà dei mezzadri che quando incontravano il nobile dovevano inchinarsi e recitare: “Padron ‘lustrissimo, buona sera, signorìa a Lei !’ oppure, se il padrone non era nobile: ‘..Signor padrone buona sera signorìa, a Lei”.
Eppure, quando un contadino nei campi si lasciava scappare qualche bestemmia, se il marchese Martelli, passando lungo la strada, ascoltava, si levava un cilicio dalla vita e si batteva sulle rèni pregando, come per chiedere scusa a Dio per quel peccatore. Questi erano i tempi, ancora, neppure un secolo fa.
II babbo all’angelus si inginocchiava nel campo e recitava una lunga litanìa di preghiere e quando, poi, ci si riuniva intorno al desco si cominciava sempre col segno della croce perché il pane era un dono del Signore.
La cerimonia che ricordo perche è come se fosse sempre viva, davanti agli occhi, è la processione al monte, alla Madonna del Sasso, al santuario dove anticamente era apparsa la Madonna a due poveri pastorelli.
Questa processione avveniva la seconda domenica di maggio ed era un fatto davvero memorabile. Si riunivano a valle le compagnie di quindici paesi del comune di Pontassieve ed ognuna portava un dono per la Madonna. La nostra compagnia, quella di Remole, portava in dono una soma di barili d’olio caricati su un somarello guidato da un bambino biondo ricoperto con le perle di tutti i vezzi delle donne del paese; la compagnìa di Doccia portava a barella l’immagine della Madonna illuminata a cera.
Due bande musicali, una di Remole e una di Molin del Piano, precedevano la processione. Dietro si muoveva tutto un popolo,
Viva i cento fratelli e le sorelle
portan per la cintura bell’armonia,
quindici processioni tanto belle
vien nel mese di maggio in compagnia.
Ed ora vi dirò chi sono quelle
devote dell’immagine Maria:
le genti del lontano e dei vicini
uomini, donne, grandi e piccolini.
Così cantava il poeta popolare Giuseppe Bertini detto il Cecioni.

VIII pp. 32-33-34

Eravamo una stirpe di collina e in casa mia non c’era cavallo e calesse: si andava a piedi e raramente in diligenza.
La nostra era una famiglia anche di pastori, infatti lo zio Fiorino teneva il gregge in una casa sopra alla nostra, a Gricigliano.
Questo andare girovaghi sulle balze dei fossi, nelle prode erbate che poi avrebbero dovuto essere seminate e quindi erano benvenute le pecore per il diserbamento e per il concime naturale che rimaneva sul suolo.
Quando, piccoli, dovevamo prendere sonno, le pecore entravano nell’immaginario delle ninne nanne:
Dirindina dirindella
sette pecore e una agnella
se ne avessi un altro paio
vorrei fare il pecoraio.
Pecoraio dall’Arno in là
piglia le pecore e vieni più in qua.
Sarà stato perché a contare le pecore si dorme meglio, ma quella era la ninna nanna migliore per conciliarci il sonno.
Questi pastori erano tipi molto particolari ed a volte un po’ buffi. Lo zio Fiorino era un pastore piccolo, bizzarro, a volte alticcio. Un giorno che aveva alzato il gomito lasciò che le pecore entrassero in un nostro campo di grano.
Quando la zia Beppa se ne accorse corse verso casa come un’invasata e prese a urlare:
“Toniooo! Le pecore di Fiorino sono nel grano”.
Ne nacque una rissa e Fiorino, con la mente ancora annebbiata si mise a inseguire la Beppa col fucile spianato, ma fortunatamente gli uomini di casa lo raggiunsero in tempo e gliene dettero di santa ragione, non tanto per la paura della Beppa, ma quanto perché le pecore si erano mangiata un’ intera proda di grano .
E dire che durante la guerra di Libia si era comportato eroicamente e al congedo era stato accolto con la “musica” dalla banda del paese schierata. Di questo si gloriava spesso perché faceva parte della “riserva” in un presidio del Madonnone.
A volte andava al presidio e si esercitava a “gotti”, con i compagni.
Ricordo una sera lo incontrai in tram e al capolinea di Rovezzano , apostrofò il manovratore:
-Senta vetturino, se gli pago una bevuta che prosegue fino a Compiobbi? -.
-Ci fossero le verghe, volentieri -rispose il tramviere, mentre i viaggiatori scendevano divertiti.
Lo presi per mano e -Venite con me, zio -gli dissi.
-Grazie, Pallina – farfugliò e poi, mettendo in modo incerto un piede dopo l’ altro prese la strada di Compiobbi.
A volte mi accompagnava. A Rovezzano, alla casa di sposa e di fronte alle verdure e agli ortaggi schierati in cassette sotto al portico diceva: – Quante zucche avete in queste cassette, ne farete di soldi, eh –
Gli uomini ridevano sotto i baffi, ma facevano i seri:
-E questo ‘unn’è nulla, domani ci se n’ha di più ancora! -rispondevano
-Domani?- commentava interdetto, e non si capacitava perché vivendo sempre sulle balze pensava che frutta ed ortaggi si riproducessero a distanza, come le figliate delle pecore.
C’era più da piangere che da ridere.
Eravamo contadini, ma ci muovevamo a piedi, come i pastori: a piedi la mamma mi portava da bambina alla sua casa da ragazza, in Bibbiano, vicino al castello di Nipozzano, dai Focardi e alla Rufina ( alla Rufìgna, si diceva) alla casa di una parente.
A piedi scendevamo a Firenze con dei canestri colmi di ogni ben di Dio per dei parenti benestanti che abitavano al Ponte Rosso e che ci davano in cambio qualche vestito smesso.
A volte facevo delle storie ma giunti sull’Aretina, alla stazione di posta, il babbo diceva: -Si risparmia il biglietto? -E noi figlioli si faceva sì col capo. Penso com’erano coglioni i vecchi capaci di camminare per una decina di chilometri per portare indietro un redo da mettere
la domenica fra un rialto , uno scasso e una fossa.
A piedi continuai spesso ad andare anche da sposa, non sempre la mula e il calesse erano a disposizione per andare alle fiere e dai parenti.
Dopo i primi chilometri la muletta prendeva il passo ed era davvero un bell’andare lungo le strade sterrate, fra due filari di siepi. Si andava alla fiera dell’Impruneta, di Sesto e anche a Prato. Per arrivare a Prato ci voleva circa un’ora e mezzo.
Spesso,nei primi anni, per tornare alla casa da ragazza, mi davano i soldi per la diligenza, ma io preferivo usarli per comprare un panetto di burro per il babbo, che aveva un tumore allo stomaco, e risalire a piedi dalla Capponcina fino a villa Gamberaia. per discendere poi sino alle Sieci.
C’erano anche tratti in salita, ma arrivata a casa prendevo la falce ed andavo nel campo per il babbo.
Negli ultimi tempi, si era nel 1935, il babbo voleva vedermi e me lo vidi giungere a casa a piedi mentre si aspettava il passaggio del giro d’Italia. Fu l’ultima volta che venne alla casa di sposata, per la nostalgia di vedermi.
Poi il babbo morì e mi nacque il secondo bambino. Il primo era morto che aveva appena un anno.
La mamma si trasferì con i miei fratelli alla Torre Rossa di Rimaggio, sotto Bagno a Ripoli. Allora un paio di volte al mese prendevo iì bambino in braccio e mi mettevo in cammino.
Dalla balza di Settignano raggiungevo il traghetto del Moro alla Nave a Rovezzano. Camminavo lungo strade strette fra mura a secco, segnate dai cancelli delle ville con animali in terracotta sulle colonne. Sul barcone, tenuto ad un filo, ci si mescolava ai carri ed alle biciclette e mi prendeva come una morsa allo stomaco nel seguire lo scorrere dell’acqua: vedevo la stessa ansia nello sguardo del bambino. Si riprendeva sicurezza quando la “nave” tonfava contro l’incassatura dell’approdo. Allora ponevo il piede deciso sulla striscia di terra e mi inoltravo lungo gli orticelli del lungofiume con le donne a cucire sulle porte. Il passo riprendeva energia.

“Dove lo portate, Bruna, in braccio, codesto ragazzo?” domandavano le donne dei contadini che si facevano sui cancelli a salutarmi.
“O non vedete che è grande” -commentava qualcuna.
“Grande non è, ma pesa” -rispondevo asciugandomi il sudore e guardando dritto per riprendere la strada.
Il percorso che seguiva: il pendìo, i poderi, le ville, le varie pezzature di terreno verde, giallo e marrone, sembravano una mano amica che mi guidasse e più mi avvicinavo alla Torre Rossa più il cuore accelerava il suo battito.
Poi venne la guerra. Il bambino crebbe. Lo chiedevo ai soldati che avevano messo il comando in casa nostra di guardare col binocolo se la Torre Rossa, di là dall’Arno, resisteva ai bombardamenti. Resisteva.
Terminata la guerra tornai ancora alla casa della mamma ma più di rado, col calesse e mostravo a Franco, ormai grandicello, i fichi e le mele seccati sulle stuoie e sui graticci di giunco .
La mamma guardava ormai nel vuoto come se la guerra l’avesse strappata dentro. Non era più tempo di percorrere a piedi la decina di chilometri fra le due cascine col bambino in braccio.
A volte, negli incubi, mi svegliava il tonfo della Nave contro le assi dell’approdo e mi sentivo trascinare via dall’acqua del fiume, mentre una nuova vita era davvero cominciata, ,col vuoto alle spalle.

FRANCO

I

Nel 1943 avevo sei anni ma già conoscevo il mio ambiente come le mie tasche. La grande cascina, la capanna, l’aia, il campo; soprattutto il Deposito militare a confine del podere attirava la mia attenzione. Lì c’erano i soldati di leva che si alternavano alla guardia, noi ragazzi andavamo a curiosare e a sentire voci che si esprimevano in tutti i dialetti d’Italia; lì era distaccato Otello, un militare di Terni che avevo preso a modello: da grande avrei voluto diventare come lui.
Otello era un giovane franco e gentile, aveva una bella voce e cantava “Mamma” un’aria così melodiosa che le donne rimanevano incantate ad ascoltarlo. Aveva l’abitudine di portarmi parte del suo rancio, con la gavetta, ed io mangiavo avido i rigatoni al sugo come se fossero di ristorante. A volte mi dava un’arancia che sbucciavo religiosamente: il succo mi sembrava un liquore. Ricordo che durante un attacco di influenza cominciai a chiedere di Otello e la mamma fu costretta ad andarlo a cercare: era di guardia, non poteva mancare alla consegna, ma fece uno strappo alla regola e venne da me con due arance in mano. Mi fece una carezza sul capo e poi tornò frettoloso in servizio. Vedo ancora quelle arance e lo sguardo affettuoso ma sfuggente di Otello. Fu l’ultima volta che lo incontrai perché l’otto settembre i nostri soldati gettarono la divisa ed ognuno prese la strada di casa, cercando di sfuggire al rastrellamento dei tedeschi. Così fece anche lui.
Poche ore dopo, i tedeschi, che erano nelle vicinanze, piombarono sulla nostra aia in un fragore di autocarri e sidecars. Io stavo alla finestra con la mamma, il babbo era a pie fermo sotto il portico.
I soldati e il babbo comunicarono a gesti, pacificamente; per il momento le cose non destavano preoccupazione. Allora, un tedesco gli mise in mano il suo moschetto e gli disse:
– Tu babbo, sparare un colpo lì – ed indicava il secchio capovolto sul palo del pagliaio.
Lui scuoteva il capo, non faceva parte del suo mestiere sparare, ma mirò al secchio e fece centro: ne uscì un pipistrello con volteggi goffi, incredibili, perché si era in pieno giorno.
Poi l’uccello cieco che precede la notte si perse nell’occhio del sole; io avvertii in me un sentimento di malaugurio venuto da chissà dove e l’aria fu percorsa da un brivido di paura.
Allora la mamma slacciò lo stuoino e ci chiudemmo nella camera con lo sguardo spento. Avrei voluto vedere il sorriso di Otello, ma sapevo che era fuggito per i campi e non domandai più di lui, nemmeno alla mamma.
I tedeschi, col consenso dei marchesi Strozzi, misero il comando di zona in casa nostra, nella camera dello zio, e riempirono la cameraccia di bombe ed altre armi. Con noi erano gentili: chiamavano il babbo “babbo”, la mamma “mamma” e cercavano di non disturbare il nonno Gigi che si era ammalato e stava adagiato in un angolo della cucina.
Il comando tedesco rimase in casa per pochi mesi e tutta la famiglia, la notte, andava a dormire in un rifugio nella villa dei Sordomuti. Durante questo periodo si viveva come zingari, ma i rapporti con i tedeschi rimasero tranquilli. C’era un austriaco che scherzava con noi ragazzi e a mia cugina, che aveva cinque anni, diceva: – Io poi tornare e sposare Maria quando lei signorina – Era un giovane alto, magro, mite che saltò in aria a Ponte a Mensola nell’agosto del ’44 con una carica di dinamite messa per demolire il ponte.
I tedeschi ci offrivano il loro pane nero a cassetta in cambio del nostro, che era di crusca e di patate; per dire cosa si mangiava.
Quando se ne andarono il fronte era ancora sull’Arno e vi rimase fino all’agosto del ’44. Noi eravamo proprio sulla linea del fronte e ne vedemmo delle belle.
Ogni tanto una pattuglia tedesca bussava alla porta con i calci dei moschetti ed entrava a passo di marcia ad ispezionare le stanze, anche sotto i letti. Se ne sentiva il passo ritmico che rimbombava fin sull’aia.
Una volta un ufficiale tedesco chiese se avevamo patate (cartofen, disse duro), il babbo allargò le braccia e mostrò le prode senza strame. In effetti gli uomini avevano tagliato lo strame e nascosto con la zappa i filari di patate; ma il tedesco, vista la terra mossa di fresco, disse:
– Qui non essere patate, ma qui sì – .
In cambio lasciò un grosso pacco di sale che allora era come dire oro. Le donne aprirono l’incarto di giornale e trovarono un altro incarto ed un altro ancora: di sale, in fondo, ce n’era un pugnello.
Gli americani erano attestati in Oltrarno e i tedeschi sulle colline di Fiesole: cominciarono i bombardamenti e i cannoneggiamenti. Non c’era da stare allegri. Un giorno le donne rientrarono in casa imprecando contro i ragazzi: – Chi ha strappato il bucato? – gridavano. Erano state le schegge delle bombe che esplodevano a pochi metri dal suolo. Un’altra volta le donne erano a falciare l’erba per i conigli, mentre tornavano a casa con le ceste colme una bomba a srahpnels esplose proprio sul falciato.
A volte i caccia scendevano obliqui mitragliando campi di grano e postazioni tedesche. Così pensavano gli americani. Ma i tedeschi erano ormai al monte e la morte toccava ai civili indifesi.
Quando a Varlungo bombardarono la Sardigna, che era un deposito ferroviario, noi, strisciando fuori dalla casa per il timore che la facessero saltare, vedemmo volare alte sul paese le longarine e le macerie: fu uno spettacolo da rimanere di sasso. E di sasso rimanevo davvero, per la paura, tanto che a volte dovevano prendermi a schiaffi, per farmi rinvenire.
Poco prima della liberazione di Firenze gli ultimi tedeschi sbandati si fermarono sull’aia, mescolarono uova sode e patate lesse in un catino per rigovernare, di quelli smaltati di verde, e ne offrirono alla mamma che fece una smorfia: – A mamma non piacere! – dissero; poi ripartirono. C’era con loro un ragazzo di sedici anni che portava a mano un grande cavallo maremmano:
– Addio mamma – salutò piangendo. Dopo poco fecero saltare i ponti sul Mensola e scomparvero verso Vincigliata. Noi si rimase ad aspettare non si sapeva che cosa.

II
Quando, nell’autunno del ’43, i tedeschi installarono il loro comando nella nostra cascina il nonno fu preso dalla collera: – Fossi più giovane..- ed il suo discorso si fermava all’inizio, ma mostrava i pugni al cielo e mi guardava con dolore. Non riusciva a capacitarsi come avessero potuto requisirgli la casa e riempirla di armi. E dire che non si era mai interessato di politica, e la sua casa era stata sempre aperta a tutti.
Anche alla Macine, così racconta il babbo, gli antifascisti si riunivano sull’aia ed al fresco della sera rutteggiavano al Duce in un giro di briscola.
Non c’è niente sotto terra che non si sappia sopra alla terra, dice il proverbio. Così venne a saperlo un gerarchetto locale che si invitò da solo ad una di queste serate e rimase ad orecchi ritti, con le sue gambine stivalate puntate sullo staggio della sedia, fino al primo rutto.
Siccome le altre volte tutti dicevano in coro: – Per il Duce! – il gerarchetto domandò con voce insinuante: – Ecco, o per chi sarebbe? –
Il giovane, che si era espresso così sonoramente, rispose : – Per chi ha gambe leste per prenderlo! – e guardò con intenzione le gambine stivalate del gerarca.
Anche a Rovezzano la cascina era aperta agli antifascisti: il primo maggio si riunivano i comunisti di Varlungo, guidati da Bruno il barbiere; e durante il pranzo a base di cacciagione, col bicchiere levato, il fazzoletto rosso nel taschino, brindavano “Al Duce” con lo stesso commento musicale.
Bruno il barbiere aveva negozio in San Salvi e veniva a tagliarci i capelli; a me piaceva molto il suo modo di fare, stava muto e distaccato mentre faceva schioccare le forbici o passava la macchinetta fresca sul collo e poi diceva: – Fatto! – scuotendo l’asciugamano sulle lastre del
portico.
Il nonno, dunque non si interessava di politica. Era un vecchio all’antica che sapeva distinguere il bene dal male e ritrovare sempre la strada di casa: la città era il suo paese.
Nei primi venti giorni di luglio tagliava la canapa, la metteva a macerare in Arno, al ponte alla Vittoria e la toglieva prima dei temporali di Sant’Anna. Passato Sant’Anna, ai primi d’agosto la canapa veniva rimessa nel fiume fino a settembre. Macerata, veniva tirata in fili e venduta in Orsanmichele, all’Arte della Lana.
Al mercato di Orsanmichele venivano comprate le uova dei bachi da seta – che il nonno chiamava “semi” – ed affidate alle donne che le covavano in seno.
Quando i bachi si schiudevano venivano messi su graticci a castello e nutriti con foglie e rametti di gelso. Così i bachi formavano il bozzolo che il nonno tornava a vendere, con la canapa, in Orsanmichele.
Allora ogni tipo di prodotto aveva il suo punto di vendita. I cereali, ad esempio, venivano venduti alle logge del grano, all’angolo fra via de’ Neri e piazza Castellani. Firenze al nonno gli stava nel pugno.
Fra lui e i preti c’era un compromesso. D’altronde i contadini non erano tenuti di conto come persone. Il prete, quando si preparava nella sacrestìa, domandava al cappellano che si affacciava all’altare: – Quanta gente c’è? – e il cappellano rispondeva : – Gente poca, contadini molti -. I contadini ripagavano la chiesa con la stessa moneta. Quando i poggiarini andavano a visitare il Duomo dicevano: – ‘Un c’è nemmeno una ginestra pe’ acchienessi – e appena entrati aggiungevano con tono di rammarico: – E ce ne starebbero di pecore a meriggio – .
Durante le processioni non sempre erano preghiere. Un anno che la grandine aveva distrutto il raccolto, un nostro parente di Castello, che portava la croce, si staccò dalla fila e vagando per le vigne brandiva il crocefisso scuotendolo e gridando disperato:
– Ha’ visto i’ che t’ha’ fatto! Ha’ visto i’ che t’ha’ fatto! – .
I contadini, sapevano di vivere in questo contrasto e cantavano: Cristo volle morir fra la gentaccia / la maggior parte gli eran contadini,/ quando la vide gli cascò le braccia / e disse: son fra ladri ed assassini…

Questi racconti giravano di bocca in bocca durante la veglia nei rifugi, per farsi coraggio, mentre i blindati tedeschi rumoreggiavano e c’era da avere paura. – L’ora del pecoraio viene anche nei giorni peggiori – era solito dire il nonno. Ma quelli erano davvero i giorni peggiori e la fede non era tanta da alzare gli occhi al cielo.
Dopo l’Armistizio e lo sbandamento dell’esercito italiano noi ragazzi avevamo fatto delle incursioni nel Deposito abbandonato: c’era di tutto. Quando i tedeschi si ritirarono sulle colline di Fiesole ci precipitammo nuovamente nella caserma e trovammo alcuni 91 ed un grosso moschetto tedesco che nascondemmo lungo il Mensola in un capanno in muratura. Queste armi erano il nostro orgoglio: i 91 avevano la baionetta innestata che poteva essere piegata come un serramanico, il moschetto tedesco era pesantissimo ed appena riuscivamo ad imbracciarlo. Si era nella primavera del ‘44. Primi ad accorgersi di questo nostro “tesoro” furono gli uomini di casa che subito ce lo sottrassero e lo nascosero nell’erba alta lungo la linea dei pozzetti; ma vennero a saperlo pure i giovani di Varlungo che si erano dati alla macchia, come partigiani, nel fosso delle Grazie, al Loretino, anche per sfuggire alle minacce dei Repubblichini. Fra questi ragazzi c’era Ricciolino, il figlio di Ricciolo l’ugnaio, un rosso che veniva a ferrare le bestie e, a volte, faceva degli scherzi alle donne di casa: offriva, ad esempio, un pacchetto in nome dei mariti e dentro c’erano le corna delle bestie. Non tutte le donne la mettevano sul ridere.
Il nonno di Ricciolino, poi, era stato ugnaio , ovvero maniscalco, e barbiere in casa del nonno. Forte e svelto di mano, riusciva a piegare un diecione con i denti, a spostare un calesse da solo e una volta, per un litigio per una precedenza, scese dal calesse e con un morso staccò un orecchio all’avversario. Insomma, la stirpe era arguta e di fegato.
Fu così che Ricciolino, informato delle armi nascoste fra l’erba, si presentò sull’aia e con fare spigliato chiese che gli fossero consegnate.
Torna dalla tua mamma – gli disse il nonno – da’ retta Ricciolino, o ‘un tu ‘n lo vedi che tu sei un ragazzo – . Infatti avrà avuto diciotto anni al massimo.
Stamani ho visto la tu’ mamma a Varlungo, la m’ha domandato di te, se ti s’era visto – .
Ma il ragazzo rispose deciso: – I Tedeschi danno noia anche a voi, lo sapete? – e si fece consegnare le armi e riprese la sua strada. Si seppe poi che era caduto sulla linea Gotica, sul Senio, colpito in fronte mentre avanzava incurante del fuoco nemico.
Fummo poi segnalati ai tedeschi per avere dato rifornimenti ai partigiani di Varlungo e gli uomini furono salvati dalla fucilazione per l’intervento del console tedesco a Firenze, tale Wildt, che aveva la villa a confine con la nostra casa. Intristì e cominciò a chiamarmi Nacche con aria sfiduciata.
– Gli uomini sono cattivi – ripeteva spesso mentre si nutriva, con pane di mais e patate cotte sotto la cenere, in effetti uomini buoni, che lo avessero trattato da cristiano, non ne aveva incontrati mai.
E dire che aveva voluto chiamarmi Franco, come il principe, per dare una svolta alla sorte della famiglia.
Venne l’agosto del 1944 ed il nonno si aggravò: era una broncopolmonite fulminante. Fu messa una materassa in cucina ed il nonno vi fu appoggiato come un tronco. Ai tedeschi si erano sostituiti gli americani che stabilirono il comando nella nostra casa, ma per il vecchio non faceva più differenza. Ai segni della fine noi ragazzi fummo portati nel rifugio contraereo. – Bombardano – dissero le donne – andiamo via – ma non ci fu nessun bombardamento, quella volta; soltanto, quando tornammo a casa, il giorno dopo, il nonno non c’era più, il materasso stava arrotolato contro il muro, gli alleati non passavano più in punta di piedi e ci dicevano “Hallo boys” offrendoci caramelle di menta col buco.
Del nonno rimasero la mazza, la tabacchiera, ed una piccola pina di terracotta con la cannuccia di sambuco ed un’ancora stampigliata sul fornello per un uomo che non aveva mai visto il mare.
Lui che negli ultimi anni si era aggobbito e sembrava piccolo, dice il babbo che disteso sul materasso di cucina sembrava un gigante. Come quando era scomparsa la nonna, qualche anno prima che lui credeva dormisse e le nuore a dirgli “o non vedete che è morta” ed era lì distesa: sembrava una santa o una regina.
Il giorno che morì il nonno la mamma andò dal Parroco di Rovezzano per celebrare il funerale. Sulla ferrovia si imbatté in una pattuglia che la fermò sciamando strane parole – aiblài – e la lasciò passare dopo una spiegazione a gesti; ma il prete rispose che doveva salvare due squadristi dai partigiani che volevano linciarli e la licenziò.
Si era il trenta agosto 1944, il morto fu ravvolto in una coperta , posto sul calesse e portato al cimitero di Settignano dove fa interrato senza benedizione; il paese era un cumulo di macerie. Il nonno morì come era vissuto; e dire che il parroco ebbe poi a lamentarsi in fattoria per non essere stato avvertito. Becchi e bastonati, come si dice, senza il conforto del mondo, mentre il mondo inneggiava all’avvenuta liberazione di Firenze..
Gli americani erano generosi, per noi ragazzi una manna. Ci regalavano gomme da masticare e tavolette di cioccolato. Agli adulti regalavano beef, scatolette di patate fritte morbidissime, pane a cassetta che sembrava neve: roba che non si era mai vista.
Ma, a pensarci, portarono tante altre cose che scandalizzarono noi ragazzi. E poi non erano coraggiosi. Il primo drappello ad affacciarsi sull’aia fu di canadesi ed indiani, poi vennero gli inglesi ed infine gli americani, a cose fatte.
Le ultime parole del nonno erano state: – Sono tutti uguali -. La differenza era nel benessere che portavano. Arturo, un furiere che faceva il mercato nero con le vettovaglie per il fronte, ci riempì la casa di ogni ben di Dio e ci fece assaporare, per la prima volta, il tè. Un tè aromatico di cui non ho più sentito il sapore.
Quando gli americani se ne andarono, portandosi dietro il cannone che avevano piazzato dietro casa e che non usarono mai, mi rimase un terrore infinito e la memoria di due giovani modelli: uno perduto e uno morto.
Di Ricciolino rimase un’ombra rossa, ma continuarono a visitarci il nonno e il babbo. Il nonno, Sperandio detto Sperino, era venuto a Firenze da Livorno per lavorare alla costruzione dei Macelli e si era poi messo a ferrare le bestie col figlio, mentre il nipote lo seguiva sulle aie dei contadini per rimediare una fetta di pane con l’olio.
Di Otello non rimase niente, solo la memoria di due arance ed uno sguardo che parlava della terra e della mamma. Così finirono la mia guerra e la mia infanzia. Sarebbe stato meglio se qualcuno si fosse messo una pietra al collo, come dice la Bibbia, ma le cose vanno in un modo solo.

III

La fame, la sete, la voglia di vivere, l’arte di arrangiarsi trovano sempre qualcuno che le impersona, una maschera che si diverte divertendo gli altri: quest’uomo era Brighella. In realtà si chiamava Olinto Bettarini, in gioventù aveva condotto i carri della nettezza nella zona di Novoli ed era divenuto amico di famiglia; poi era passato cantoniere e gli avevano affidato il tratto di strada di fronte al podere di Rovezzano. Abitava alle case popolari di Coverciano, a un chilometro di distanza: così, quando era venuto in pensione, aveva finito per frequentare quotidianamente la cascina.
Come tutti gli ospiti fissi era un grande amico dei ragazzi. Da lui ebbi il dono più grande. Una mattina giunse sotto al portico con un cucciolo, un bastardino marrone rotondo, come una palla.
Noi tornavamo da scuola e, di cascina in cascina, rimanevamo sempre in meno.
– Restate – gli era stato detto – finché tornano i ragazzi – .
Le donne avevano aggiunto:
Desinate con noi, vedrete come saranno contenti i ragazzi – .
Ma quel giorno non era destinato alla gioia: nell’ora di ginnastica mi ero fratturato un braccio e quando, passato il cancello, le donne mi videro col braccio al collo cominciarono a urlare e si gettarono sulle foglie del cavolo ammucchiate sotto al portico. Temevano di peggio, fu una scena d’altri tempi. Tutto passò dalla gioia più tenera al dolore più cupo. E pensare che per il salto avevo prestato le scarpette proprio al figlio di Brighella ed avevo saltato, chi sa perché, con i soli calzini cadendo malamente.
Allora il babbo attaccò la mula al calesse e mi portò all’ortopedico, da Palagi.
Brighella ci rimase di sasso, lui che portava sempre una ventata di allegria e che scambiava scherzi come nulla fosse. Presto del braccio ingessato non ci fu traccia, ma Brighella rimase ad animare le nostre semplici giornate.
Era tradizione, alla fine della vendemmia, ricompensare ogni vendemmiatore con un paniere di grappoli d’uva. Allora un soldato piemontese, Gigi Gallo, pensò di fare uno scherzo alla nostra “maschera” e ci chiese una “cavagna”. Siccome nessuno capiva tradusse: una cavagna, un paniere. Gigi prese il paniere, vi mise un fondo di sassi e lo ricoprì di grappoli.
A sera ognuno prese la via di casa col suo paniere colmo, così anche Brighella. Ma lungo la strada – Pesa questo paniere, eh! – diceva a se stesso, finché, vinto dal sospetto sollevo l’uva e vide le pietre. Naturalmente non tornò indietro, né protestò mai; solo – dopo qualche tempo – ci raccontò di come aveva scoperto la beffa.
Di queste gioie, di questi dolori si componeva la nostra giornata, mentre la famiglia contadina era ormai ad un passo dalla fine.
Il pianto delle donne sul cumulo di foglie, gli scherzi, nascevano da altro: il pianto nascondeva la voglia di vivere,il riso la voglia di andarsene, anche se non sapevamo bene dove.
Intanto il cane, Pallino, cresceva e ci correva dietro, anche per chilometri, quando ci allontanavamo in cerca di qualcosa . Temeva di perderci, aveva capito il nostro istinto, e noi dovevamo ricacciarlo nel campo a grida e con le pietre.
Il cane ci riportava alla stagione di una fedeltà tradita, quando si misura con lo sguardo quanto serve per la fame in un fazzoletto di terra. Alla fine anche Pallino prese a trotterellare di traverso, odorando qualcosa e neppure rispondeva al fischio, al richiamo. Poi lo vedevi fermarsi, col muso in alto e iniziare una corsa sfrenata.
In quei contrasti Brighella cominciò a diradare le visite e noi ragazzi si sentiva più lontano: era inquieto, faceva come il cane, come se avesse perduto qualcosa, per sempre.
Seppi di lui dopo anni: lo trovarono “secco”, caduto dalla bicicletta, ad un quadrivio del suo Quartiere.
– È morto, questo vecchio? – domandavano i signori delle case nuove. – Che morto e morto! – rispondevano quelli delle case popolari – Djò! Brighella – esclamavano, per svegliarlo.
È solo caduto – aggiungevano con sufficienza, prendendolo per le spalle, sollevandolo ed appoggiandolo al muro. Asciutto come sempre, sembrava pieno di vigore, lui che aveva fatto anche la controfigura per il cinema e nel parlare ripeteva sempre: – Borda – che è tutto dire.
– E alloraa! – gli gridò un ragazzo ridendo, ma senza schernire. Il fiato, se c’era, era cortissimo.
– È morto, è morto – I nuovi residenti, gente che aveva fatto le scuole, sembravano più sicuri di prima. Ma gli operai scuotevano la testa e sul volto di Borda rimaneva come un sorriso canzonatorio, di malizia.
Il ragazzo tolse la bicicletta dalla strada, la ruota anteriore aveva cessato da poco di sfrigolare girando sempre più piano; si avvicinò all’uomo e si accorse che non respirava più. Come era possibile? Perché Brighella ha sempre respirato e cantato con la sua storia di cantoniere addetto alle siepi e agli sterri, che l’aria non gli mancava di certo.
– Brighella morto? Scherziamo? – fu detto ai residenti dei villini e fu portato dentro il recinto delle Case popolari, mentre il ragazzino spingeva la grande bicicletta che sembrava morire anche lei, dalla ruggine, in una polvere sottile.
Così addio, cara maschera del tempo, uomo “leggero” e scandaloso, che ripetevi “siamo come bestie” e noi “la rossa primavera” ti accese una vana speranza. Il vinaio non è più vinaio, le siepi non sono più siepi.
Pallino aspetta sul cancello, all’ora del tuo arrivo, latrando alle ombre; il fuoco meno caldo nelle sere d’inverno e le libere donne del borgo cercano altri amatori. Ma tu, analfabeta, hai saputo scrivere nel cuore dei ragazzi l’ultimo romanzo contadino, oltre la terre.

IV

Noi ragazzi, finita la guerra, eravamo tornati padroni dell’aia in terra battuta, aperta ai campi, segnata da un muretto ed un diospero e traversata dal rigagnolo del viaio, accanto al portico, al pozzo e la grande conca in cotto in cui, a primavera, facevo il bagno immergendomi fino al naso nell’acqua fredda.
Dietro alla capanna, sulla strada, c’era il ciuffo di ribes che maturava chicchi rossi e lucidi dal sapore delicatamente agro. Dall’aia partivano le nostre avventure per le viottole e nei campi, le corse con Pallino che mi seguiva passo passo a naso in su e scodinzolando, come se sorridesse a me e alla vita: allora bastava un grappolo di aleatico o una susina goccia d’oro per rimanere ore in balìa del tempo e dell’erba.
A luglio, per la trebbiatura, intorno alla macchina rossa l’aia si
riempiva di voci, polvere, pula e noi ragazzi si partecipava alla festa correndo da un punto all’altro. Ma la festa era cominciata prima, quando gli uomini, per fare la barca dei covoni da battere, avevano imbuinato l’aia: prendevano la buina, la scioglievano in secchi d’acqua e la spalmavano sull’aia. Il sole la trasformava in una pellicola calda e paglierina e per noi quel “pavimento” diventava un campo di battaglia, mentre per gli adulti serviva a non perdere nel terreno nemmeno un chicco di grano..
Il nonno Gigi, che a me pareva una quercia, quando ero piccolissimo si sedeva sul muretto mentre i maiali grugnivano rotolandosi nel rigagnolo. Il senso dell’igiene era molto approssimativo. “Porco pulito non fu mai grasso” dice il proverbio. D’altronde era un mondo diverso. A volte gli ospiti passavano vicino alla concimaia, ai margini dell’aia ed esclamavano fermandosi: – che buon odore! -; sembrava che odorassero rose.
Il nonno, da vecchio, aveva preso a orinare spesso, e quando andava in città era un problema, doveva per forza farla contro un muro. La cosa in passato era comune. Fino ai primi del Novecento la gente in centro defecava dietro il duomo, dalla parte della Misericordia; così il Comune aveva arruolato degli spazzini che venivano da Campi e si chiamavano “merdaioli”. Avevano un cassino chiuso in cui gettavano con perizia, ruotando lunghe mestole, i rifiuti. Il peggio era d’ottobre, al tempo della vendemmia, perché l’uva fa dei brutti scherzi (al tempo dell’uha/ anche più di dua) e in quei periodi raschini e palette servivano a poco: era come mettere l’acqua nel paniere. Non solo sull’aia c’erano problemi di igiene; comunque, con la civiltà, la cosa fu abolita e le guardie di città multavano severamente i trasgressori. Per questo i popolani che orinavano contro i muri cantavano una canzonetta oscena:
Attenti giovanotti
non pisciate contro il muro
( )
alle guardie di città.
Manca un verso, ma la guardie di città lo sapevano e ci rimanevano male, tant’è che se ne andavano senza fare la contravvenzione.

Allora il ciclo della vita era naturale. Per governare la verdure gli uomini alzavano il “lapitino” del pozzo nero e col tozzo tiravano su il cesso, proprio sull’aia, sotto le finestre di casa. Infine, il dono più bello insieme al cane Pallino fu proprio un maialino acquistato dal babbo a Maiano, dall’Orsecci. Si era andati ad acquistare maiali ed io vidi un porcellino piccolo e roseo da tenere nel palmo delle mani. Se ne stava in un angolo dello stabbiolo col suo grifo arricciato e timido, gli occhietti vispi, il codino ritorto. Non era previsto nello spesa ed il babbo lo aggiunse come regalo. Allevai il Nino, così lo chiamammo, come un cucciolo e quando, dopo qualche anno, divenne di un paio di quintali e fu mandato a macellare fu come se mi ferissero a morte: avevo condiviso con
lui la polvere ed il fango dell’aia versandogli nella mangiatoia gli avanzi del rancio dei soldati.
Intanto la, terra, curata da poche braccia, rendeva sempre meno. Allora il babbo cercò di ingrassarlo con la nettezza che veniva distribuita ai contadini della periferia fiorentina dove i cernitori la smassavano; facevano, come si dice, i sovvalli.
Sull’aia di un contadino di via Villamagna cerneva Steno, detto Stenico, un commilitone del babbo e fu lui ad indirizzarlo in via dei Pecori alla direzione. L’aia cominciò ad essere trafficata da carri trainati da cavalli ed a volte a cassetta era il bizzarro cugino della mamma, Cecco. Anche a Novoli i contadini ingrassavano la terra con la nettezza, e così fu ripresa una tradizione.
Gli sceglitori di San Frediano, i “sanfrianini”, erano gente di faccia oliva e ciuffi unti. Smagavano gli scarichi con velocità e ogni tanto si fermavano per manifestare il loro malumore.
Stavano curvi sul lavoro come formiche. Sull’aia non più bianca di polvere i cassini scaricavano, a lato della concimaia, valanghe di nettezza. La guerra trascorsa da poco, la pace un patto di fame. Così venivano sull’aia gli sceglitori, con i capelli neri attaccati bassi sulla fronte, cupi di pelle e di sguardo, ma all’improvviso allegri, osceni, liberi. E si ingiuriavano da un lato all’altro del cumulo da smassare, con nomi d’arte che dicevano tutto: Budino, un bombolino tutto liscio da sembrare pulito; il Loia, il lungo, la Grana e i loro figli.
Con una zappa corta di manico e con le mani guantate scavavano nei rifiuti e venivano fuori posate scompagnate con manici in foglia d’argento, conchiglie incise con panorami marini, orologi senza lancette e poi, alla resa, tanto di carta, tanto di vetro, tanto di ferro. Da lì uscivano anche i libri per noi ragazzi e c’era anche chi, come la Grana, un donnone, dalla fame si beveva un uovo trovato dai rifiuti.
L’odore di forte entrava nella casa con gli sceglitori che venivano a sedersi sull’asse del focolare d’inverno e le mani screpolate brillavano alla fiamma

A noi ragazzi quella ricerca di oggetti da salvare pareva degna ed anche meravigliosa: una sfida alla morte delle cose ed una domanda al caos. Non avevamo la misura del male, del marcio e a lungo continuammo a chiedere dei cernitori, quando i vecchi finirono negli ospizi ed i giovani in fabbrica. Così i cumuli di rifiuti, ricche miniere di monili per la donne ingrossate dal pianto e dai geloni,scomparvero dal piano dell’aia. Loro mostravano come un rammarico per quelle possibilità perdute, mentre gli uomini battevano la falce imprecando o tacendo, o mungevano le mucche cantando con rabbia ed alzando fiocchi di schiume dai secchi di lamiera.
Avevo ormai dodici anni, una bicicletta Pinzani, frequentavo le commerciali e mi ero istruito alla scuola della fame e della guerra. Andavo a giro per le strade di periferia nella scacchiera dei poderi toccando le cascine dei Perissi, dei Golini, dei Bini, dei Ricci, dei Del Re, dei Cosi, dei Peroni abbracciate dal verde. Sotto le ville si spandeva al cielo l’olivo più grande del vicinato: dava da solo un barile di olio di oltre un quintale, era un simbolo di vita.
Sull’aia continuava a venire un grosso cane irsuto alla ricerca della nettezza da razzolare: era un randagio, sembrava impazzito, poggiava al suolo con tre zampe. Io volevo bene a quel cane di nessuno, col pelame incrostato di terra. Ma era un po’ il segno dei tempi e la gente lo cacciava da lontano con pietre e frustoli: doveva essere il diavolo, pensavano le donne, e quasi si segnavano al suo passare.
Oppure: – Il cassino, ci vuole il cassino – imprecavano trascinando i nipoti al sicuro da quella bestia con le zecche e gli occhi che “sguagliavano”. A momenti annusava freddo il metallo dei cancelli, sembrava un cencio portato dal vento, inzuppato da strappi di pioggia, e non di ossa e di pelo.
Cani così erano un pericolo: “sciagura”, ecco, la gente li chiamava sciagura e li scansava. Anche i ragazzi si sbandavano nei loro giochi, a vederlo. Poi scomparve nel nulla come gli sceglitori con i loro abiti interi, bisunti al collo e ai gomiti, con le scarpe che hanno la voglia di ridere; come gli sceglitori che se ne andarono alle stanghe dei loro carretti, curvi e cupi con i neri occhi accesi e senza nemmeno bestemmiare. Avevano bevuto con noi il mezzone acidulo dal sapore di doga e mangiato le verdure lessate nel mugugno del paiolo, e poi via, randagi anche loro, come il cane che forse era l’anima di uno di loro alla ricerca di un posto comunque dove rimanere: sulla nostra aia tornata alla fine pulita come un biliardo.
V
Oltre l’aia si estendeva un podere di quattro ettari solcato da due grandi viottole a croce ed altre più piccole parallele alla linea nord sud. Al margine delle viottole vigne e frutteti, nelle prode grano, mais, pomodori, fagioli, piselli, fave e patate. Era un grande rettangolo di verde; in cui c’era da perdersi e ritrovarsi, per un ragazzo. Ritrovarsi sotto al portico, pavimentato con pietre irregolari, nella casa quasi una rovina, abitata da blatte e topi, ma un tempo residenza signorile. Si parla del 1400 quando era una villa per le vacanze estive ed era chiamata la casa degli Allori. Oppure ritrovarsi di fronte alla bocca del pozzo, per bere di quell’acqua che era vita.
In quel campo, tagliato in quarti durante l’estate andavamo a badare I’uva: il canaiolo, il trebbiano, il sangiovese, la salamanna, la fragola , l’aleatico. La vite di aleatico rosato era in fondo al podere, quasi lungo il confine col Mensola, vicino al capanno in muratura in cui avevamo nascosto le armi, durante la guerra. Aspettavo che quei quattro grappoli profumati maturassero mentre portavo gli amici di città a schiccare – per scherzo – l’uva fragola con i suoi chicchi piccoli, radi e maligni che sapevano di cimice e ne avevano l’odore.
Ma anche il trebbiano dolcissimo ed il canaiolo erano uve da sgranare golosamente lungo i fossetti, sull’aia, nell’aria ancora trepida di settembre. E dire che l’uva dovevamo badarla, era il nostro lavoro. Scalzi e nudi come i passeri trascorrevamo le giornate nell’erba.
Lungo la linea dei pozzetti per l’ irrigazione si coltivavano fiori di ogni tipo: a primavera le dalie, le zinnie, le astare fiorivano rigogliose.
Il sabato sera le donne coglievano i fiori, li dividevano in mazzi: due dalie, due zinnie, due astare e dietro una spalliera di cielo stellato e di sparagina, con un gusto che anche la marchesa Strozzi, nel ricevere un mazzo, aveva detto al fattore: -Dove l’avete comprato, non è possibile che lo abbia preparato una contadina -.
I mazzi venivano disposti su un carretto fabbricato con quattro assi e due ruote di bicicletta. La domenica mattina, verso le otto, partivamo verso le case popolari di Coverciano spingendo il carretto carico di fiori e, scala dopo scala., offrivamo i mazzi a poche lire ciascuno.
Così, dopo un paio di ore di saliscendi per le scale i mazzi erano esauriti ed io avevo appreso i mille modi per dire no e i pochi per dire sì. Una, donna di origine veneta, detta Popperitte, acquistava sempre il mazzo con più zinnie che chiamava “soldati“ ; qualcuno sgranava gli occhi ancora assonnati esclamando scocciato: – Che son fiori da friggere? – Era tutta un’umanità che si affacciava alla porta nei modi e negli abbigliamenti più diversi. A volte passava il fioraio patentato, un uomo magro con i fiori in una cassetta sul portabagagli della bicicletta, e quando ci vedeva uscire fuori dai cancelli delle case popolari col carretto vuoto ci guardava con un taglio obliquo, cattivo e rabbioso e gridava: – Che bei garofani! Che bei galigoli (ed intendeva gladioli) – . Ma sembrava dire :
– Occhio! Il fioraio sono io – . Alla fine ci facemmo un piccolo conto in banca che servì appena per acquistare una bici usata.
VI 47 – 48
Di memorabile mi rimane la veglia, a partire dal 1941, quando ancora il fronte era lontano. Nelle miti serate d’autunno, al primo buio, sull’aia, si spannocchiava il granoturco ed un vecchio alto e bonario, Gano, tornato dal Brasile più povero di quando era partito, raccontava la sua storia. I suoi stessi gesti emanavano bontà.
D’inverno, accanto al fuoco, signoreggiava il Sargente, un vecchio di media altezza, con barba ed indosso antichi abiti militari, con barzellette salaci e battute per donne e ragazzi. A noi raccontava di guerre catastrofiche in cui prima morivano tutti e noi quegli altri e come facessero a morire anche “quegli altri” rimase per sempre un mistero.
Queste immagini sono mischiate, nella memoria, con una cascata di “barc­he” di granoturco, liscie, un po’ umide, con le quali ci acconciavamo il viso da re-pastori e per sembrare i vegliardi che ci incantavano.
Più di tutto rimase il senso del caldo del fuoco a legna sulle guance, come una carezza paterna.
Quando venne la. guerra le veglie furono interrotte e gli uomini, per i rastrellamenti, andavano a nascondersi nel grano o sugli alberi. A volte una pattuglia tedesca irrompeva in casa e pareva un terremoto, per le donne e i ragazzi. Una sera il cielo si illuminò, gli aerei americani gettarono migliaia di paracaduti per rifornire i partigiani che stavano combattendo i tedeschi, e fu uno spettacolo da non dimenticare. Con la tela dei paracadute per anni furono tagliati e cuciti abiti e camicie di prima qnalità.
Alla fine della guerra avevo sette anni, rimanevo più a lungo alla veglia, ma quando le storielle diventavano scurrili le donne ci prendevano per mano: – a letto, a letto – e guardavano il Sargente con sguardi di rimprovero: – Ci sono i tetti bassi – .
Alla mattina calzavo gli zoccoli, indossavo una mantella verde fatta con una coperta militare, mettevo sulle spalle una cartella di legno costruita dalla zio falegname e prendevo la via della scuola, a sera andavo giocare a briscola, a scopa, a “bestia” sulla grande tavola di cucina insieme ai familiari e ai soldati del vicino Deposito. Giocavamo di nulla, con fagioli per segnare i punti, ma la passione riscaldava gli animi.. Durante le partite i soldati ci raccontavano di un’Italia sconosciuta e al momento del congedo ci lasciavano la loro foto formato tessera, da mettere nell’album dei ricordi.
Pordenone, Maglie, Palma Montechiaro, Cuneo, Vittoria sembravano paesi vicini, nella voce dei soldati, per noi che non sapevamo neppure il nome dei paesi della provincia di Firenze.
La casa era percorsa dal muggito delle vacche, dal canto degli uomini e delle donne ed alla sera, sul fresco in estate ed al caldo in inverno, la cucina si riempiva di movimento.
Era una grande famiglia e l’Italia camminava in cucina con dialetti diversi che si intrecciavano spesso alla fiamma del focolare. Si era all’inizio degli anni ’50, quando ci si avventurava verso la città con dentro l’inguaribile male dell’assenza dell’erba insieme agli amici in grigioverde.
Che ne sarà stato di Vincenzo M., palermitano, che voleva rimanere a Firenze per mettere su famiglia e che i futuri suoceri siciliani vennero a. riprendere col “cuttieddu” in pugno, di Antonino G., agrigentino, che raccontava la sua gioventù di picciotto e non voleva tornare fra gli uomini d’onore, di Mario S., di Pordenone, florido dongiovanni da balera che ci insegnava come attaccare discorso con le ragazze, di Luigi G., piemontese, che sapeva preparare nelle sere d’inverno la “bagna cauda” per tutti, di Gigi A., di Maglie, che portava da casa foglie di tabacco che fumava fino al capogiro e quando diceva: – Aggio pinchiato troppo – gli uomini gli rispondevano: – Oh bischero, o i che tu ha’ fatto? – ?.
Per noi ragazzi che entravamo allora nel mondo gli occupanti, gli alleati, e poi i militari di leva erano stati degli amici più grandi, spesso dei fratelli.
Quell’apertura al mondo mi aveva fatto sentire uomo anzitempo e nutrivo una stima infinita per la famiglia, nonostante gli screzi che la stavano dividendo. Portavo con me anche la rabbia dei gesti estremi, appresi nei duelli rusticani, come quello fra un sardo della Folgore, piccolo e nerboruto, e un militare di leva nell’erba di una proda col coltello di ordinanza scintillante sul volto contratto ora dell’uno ed ora dell’altro.
Porto con me sopratutto la lezione di Giuseppe L. F. che mi preparò all’esame di ammissione alle Medie, anche se la gente diceva: – Puoi fare le industriali al Cellini o le commerciali alla Giovanni da Verrazzano, ma le medie no – .
E Giuseppe a dire: – Studia, Franghino, lascia stare i libri di quaranta pagine (e intendeva la carte da gioco) – .
Era un tipo singolare, figlio naturale di un latifondista, aveva una causa perché gli fossero riconosciuti i suoi diritti e mostrava spesso un grosso libro bianco. Chiamava il babbo “Capo”, o meglio “Cabo” e quando andò in congedo rimase a Firenze e si unì con una donna del popolo.
Siccome non aveva casa ampliò un tabernacolo con una stanza costruita con le sue mani e per questo fu denunciato per occupazione abusiva di tabernacolo. Giuseppe veniva spesso a lamentarsi di quella vigliaccata sospettando di persone molto vicine a lui. Poi ebbe casa, lavoro e figli; lo trovavo spesso e lui mi parlava della sua buona mesata di netturbino e anche dei suoi classici, principalmente dell’amato Ariosto.
– Eri troppo giovane per i libri di quaranta pagine – ripeteva ricordando le terribili veglie di quegli anni del dopoguerra, gli autori ancora più terribili delle veglie.
Ma ormai era intrigato in una realtà non più franca e salutava come in un addio, a se stesso prima di tutto: – Ciao, Franghino! – .

VII
Fra gli ospiti fissi, alla sera, a Novoli, c’era Armando, macchiettista, poeta a braccio, emigrante, che alla stagione dei raccolti non mancava di visitare anche la cascina di Rovezzano, dove ci eravamo trasferiti e metteva in scena, sull’aia, le sue scenette da avanspettacolo. Un anno, alla fine della vendemmia, nel dopocena, improvvisò una farsa con un fantasma che sbucava da dietro il pagliaio ululando e sventolando il lenzuolo. Quest’ apparizione, alla luce delle lanterne, mi agghiacciò e per alcuni anni mi rimase un certo sospetto nel girare all’imbrunire intorno al pagliaio. Sempre in quegli anni Armando organizzò una farsa sotto al portico.
Ezio del Bini faceva la parte di una donna incinta ed Armando impersonava il medico munito di uno spropositato pennato. Operato un taglio nella gonna, ne uscì terrorizzata una gallina starnazzante che sbatté sulla faccia di più di uno spettatore, prima di dileguare nel. buio dell’aia come un’anima infelice. Quella stessa sera Armando si travestì da maestro, che più buffo non si può, e cominciò ad interrogare un alunno con fare altezzoso: – Dimmi tu, Grattasassi, chi ha scoperto l’America? – e agitava un bastone al posto di una stecca. E lo scolaro terrorizzato: – Io no, signor Maestro, è stato lui – e indicava un altro contadino-scolaro che si prendeva perciò una bastonata fra capo e collo.
Sui maestri di allora fiorivano storielle e canzoncine. Ne ricordo una:
Quando il Lebrunne entra in classe / con quei fanali di autobusse / gli incomincia la lezione / italiano storia e religione. Perché questo maestro era terribile e faceva inginocchiare i fìgli dei contadini, a bacchettate, su uno strato di chicchi di granoturco. Insomma, la scenetta era molto sentita e quando Armando la chiudeva col canto:
Sono malandrini, sono malandrini / sono malandrin questi monelli // questi brutti bricconcelli / che ci fan tanto arrabbiar… le risate sembravano buttare giù il tetto – già pericolante – del portico.
Un anno Armando venne sull’aia con una canzone in sestine che dedicò alla nostra famiglia. Ci fu festa grande per questo ed ognuno di noi imparò a memoria la poesia che iniziava:
Nel solcare la terra che produce
i frutti che danno la vita al contadino
segui il bue che l’aratro conduce
curvo sotto il lavoro è il tuo destino,
la tua fronte di sudore è molle
bagnan le gocce le cocenti zolle.
Il canto era lungo, pieno di gratitudine per chi l’aveva ospitato una vita e terminava: – Vi sorrida benigna la fortuna./ Le gioie gusterete ad una ad una – .
Ma, si sa, l’uomo propone e Dio dispone.

Per la mamma questi erano gli unici spettacoli teatrali a cui aveva assistito ed anche per me, mentre il babbo – da giovanotto – aveva frequentato le Follie Bergères, l’Apollo, vedendo l’operetta e il fenomeno Bagonghi in una festa di semi e brigidini.
Quando conversavamo di Armando la mamma era solita dire: – Non lo capiscono – e ripensava alla sua famiglia d’origine, fatta di poeti a braccio e stornellatori.
Armando aveva una storia particolare: dopo il 1918 aveva formato una compagnia che dava spettacoli all’aperto, sulle aie di Novoli, sotto il ponticello della villa Demidoff e dove gli ambienti rustici si adattavano. Metteva dei manifesti sui muri ed i contadini accorrevano pagando pochi centesimi.
Fra la grande guerra ed il trenta Armando si era fatto uomo con i piedi affondati nel fango dei poderi, ad innaffiare gli ortaggi con i contadini spesso rimanendo in elegante abito da passeggio».
Alla ventura del mondo, aveva lo sguardo della fame mitigato dalla fantasia dell’attore che non gli aveva evitato l’emigrazione in Francia.
Alla fine degli anni trenta Armando era tornato con le tasche vuote e la stessa gioia di vivere. Quando si fermava di fronte alla concimaia: – Che buon odore – esclamava, perché ritrovava gli odori dell’aria aperta. Poi si era allontanato di nuovo per farsi vivo nel dopoguerra. A me, che facevo le scuole, parlava dell’invenzione della “ruota del moto perpetuo” e mi presentò ad un vecchio socialista, alto, magro, col grande fiocco, che allora abitava ai Macelli, scriveva poesie ricalcate sui classici e mi disse – per la prima volta – di Carlo Marx di cui teneva una foto sul muro. Maneggiava le sue paginette con grandi mani sabbiose e mi lasciò alla fine sulla porta di un mondo che non conoscevo: l’antico quartiere fra Novoli e il Cipressino, la patria favolosa del babbo fatta di acque ed erbe, aveva anche uomini vestiti di grigio con sogni più grandi di loro.
La casa di Armando, al Lippi, nascondeva un suo segreto. Ero ormai grandicello ed un giorno fui invitato a scoprirlo: Armando aprì un armadio e uno sfacelo di vecchi costumi, tube, marsine, bastoni col pomo scivolò al suolo. Era come vedere una cosa morta, eppure riuscii a mostrare stupore per quel nerume rilucente e ad Armando scivolò una lacrima sulla gota: era tutta la sua storia che cadeva rilucente al suolo. Ora andava dai parenti e dagli amici, ai matrimoni, cantando i suoi auguri in ottave mentre la grande famiglia contadina si contava, dai bambini ai vecchi, forse per l’ultima volta.
Già la famiglia patriarcale era scomparsa nel nulla: noi a Rovezzano, ancora per poco, i fratelli della mamma con casa a Rimaggio già sui ponteggi edili, una sorella del babbo al ponte alle Mosse, in una cascina senza più terra, per non dire dei cugini disseminati a Varlungo, a Vincigliata, a Paterno di Vallombrosa e la lista non è finita. I cugini di Girone, del Ponte Rosso, di Varlungo erano già operai; uno zio, Ciammingo, è finito in uno scantinato di una ditta di trasporti che gli ha preso il podere: nei giorni di sole esce sul marciapiede e sta lì, sulla sedia spagliata, col tempo alle spalle. Le ragazze del parentado, quelle poi, al loro destino, in città.

Ai matrimoni ci ritrovavamo come si venisse da mondi diversi e il passato era veramente passato, tanto più che Armando “cantava” gli auguri per un futuro migliore: – Le gioie gusterete ad una ad una – .
Di quel mondo rimanevano i rispetti, le antiche canzoni d’amore ed a volte chiedevo ad Armando se ne conoscesse. Lui, che era improvvisatore, mi guardava con sospetto; allora il babbo gli spiegava: – Vuol sapere dei canti di quando si era bambini – spiegava ed Armando secco: – Ah! – come dire: – Che m’importa! -.
Ma per me questi canti erano la chiave per comprendere i sentimenti di un tempo, quando l’uomo e la natura erano la stessa cosa, come io ero allora.
Quando la famiglia si sciolse Armando scomparve per qualche tempo, poi riprese a frequentarci, ma come “artigiano pavimentatore”. A me rimase la sestina finale del suo canto come un viatico:
La tua famiglia è per tutti piena d’amore,
narrar potrei coi versi miei alcuni esempi,.
siete sempre stati pronti a favorire
e a trattare gli amici da parenti
e di persone non rifiutaste alcuna:
vi sorrida benigna la fortuna.
La fortuna non ci sorrise, ma anche Armando, dovè subire i colpi della malasorte, se dopo alcuni anni ricevemmo questa lettera che precedeva la sua fine:
Caro Amico Guido e famiglia, sembra che trovandoci separati, l’affetto alle conoscenze care della prima giovinezza se ne sia andato: ma credi, caro Amico Guido, non è cosi! Vi pensiamo e vi vogliamo bene, è solo colpa del mondo che ci vieta di fare a nostro piacere.
Voglio augurare a te, a tua moglie, a tuo figlio, una vita di Pace e d’immenso piacere; anche tu so hai passato qualche triste giorno, ma sempre dobbiamo rassegnarci al destino che ci è stato assegnato per il passaggio in questa vita. Spero tu sia ristabilito bene e questo è l’augurio migliore che possa rivolgere a te ed ai tuoi cari.
Miei cari, gli anni passano, la vita in questo momento è piena d’insidie e di grave fermento, sono finiti i tempi buoni, caro Amico, di quando, con piacere reciproco, per un amore fraterno ci rispettavamo gli uni con gli altri. Oggi non ricordano più i sacrifici e le sofferenze passate, quando nelle guerre le famiglie avevano perduto genitori e fratelli. Cosa sia il danaro, di fronte al bene della fraternità, non lo capisco: per me sparisce il suo valore. Ma oggi tutto cede all’odio, al vizio, alla vendetta, speriamo di riprenderci in tempo, altrimenti sarà tutto perduto.
Caro Amico, se avrai occasione di venire da queste parti ti attendo a casa mia. Saluti e un forte abbraccio. Armando Roghi.
O, come diceva là fine delle sue sestine: Non son poeta e vado terminando/ mi dico il vostro amico Roghi Armando.

PARTE SECONDA:
L’inurbamento

GUIDO

1
Vent’anni non sono un giorno, avevo detto al fratello che voleva rimanere nel podere con la sua famiglia, passiamo almeno la Pasqua insieme. Ma lui era stato irremovibile: cosa fatta capo ha e così cominciai a mettere insieme baracca e burattini per lo sgombero.
Questo era il ringraziamento per essere rimasto a contadino, nel 1947, quando avevo trovato un posto in banca e lui aveva messo di mezzo il fattore per farmi rimanere perché allora c’era bisogno delle mie braccia; per avere fatto studiare il nipote fino alle medie contro la decisione di tutti, per avergli procurato il libretto per l’industria per mezzo di un dirigente che ce ne volle per convincerlo e un giorno venne anche a cena e sua moglie si sentì male per il gran mangiare.
1l ringraziamento era questo: di cacciarmi di casa, proprio come era accaduto al babbo nel ’30, che la cognata staccava la lingua alle nostre galline e diceva alla mamma: – 0 che hanno la pipita le tue galline? – e il fratello insisteva: – 0 te ne vai te o io se no muoio – e il babbo, che non voleva far morire nessuno, tantomeno un fratello, se ne venne con moglie e figli a Rovezzano.
Era stato un inverno interminabile, con musi lunghi e parole mozzate intorno al fuoco: il podere era fatìca troppo grande (L’orto/ vuol vedere l’uomo morto), i figli erano agli studi o sistemati, le braccia mancavano ed io – che ero il minore – me ne dovevo andare con tutti i miei acciacchi e le tasche vuote perché ì risparmi erano andati in fumo non si sa bene come.
lo, che non avrei voluto lasciare la terra e il fratello, rimanevo cupo, nelle giornate di pioggia, a ispezionare le tasche piene di spaghi e cenci per le opere minute, a immaginare come in un punto tutto il mìo passato: si trattava di lasciare gli alberi e le bestie che erano il mio stesso sangue. A volte da Rovezzano tornavo alla Macine per ritrovare gli alberi su cui ero salito da ragazzo o che avevo piantato e potato per provare la gioia di un tempo; c’era un grande noce che avevo visto crescere e ne avevo inciso la scorza per favorirne lo sviluppo e lì mi fermavo a riprendere fiato: era come se il babbo e la mamma mi venissero incontro dolci come un tempo per me che ero il più piccolo, lo scacanidio.
– Siamo stati più grulli della capra dei pompieri che cercava l’erba in piazza Vittorio – mi veniva da dire. E penso proprio a quella capra che ì pompieri portarono a Firenze dal terremoto di Messina dal 1906 e che cercava di brucare erba sulla soglia della caserma ai margini di piazza Vittorio. Anch’io me ne sarei andato dietro i cancelli di una villa, a fare il casiere, e lì avrei cercato la cascina, i viottoli erbati, gli alberi, il via vai degli ospiti. Tutto questo a quarantotto anni, con gli anni davanti che non valgono quelli vissuti.

E dire che avevo fatto di tutto per convincere il fratello a comprare, con i soldi fatti in piazza di Novoli a vendere gli ostaggi, un pezzo di terra in via del GuarIone e costruire una casa di due piani: uno per me ed uno per lui. Ma l’uomo propone e la donna dispone.
Allora prendevo a sognare un portafoglio gonfio sul cuore in un silenzio duro che copriva un mare di lacrime. Anche il cielo, in quell’inverno, mi istigava: bastava alzare gli occhi per vederlo nero e minaccioso come la cappa del camino.
Poi mi ripassavo la rete delle origini: mia madre era una Cecchi di via del Rondinino, una sorella di lei sposò un Bossoli e l’altra un Sansoni. I Sansoni costruirono una casa sull’Arno, alla Nave. I Pinzauti, dove era entrata una sorella di mia moglie, avevano il podere accanto ai Sansoni. Allo stesso modo le sorelle del babbo erano entrate dai Ricci, dai Passeri, dai Grazia. Era tutta una rete e c’era la miseria. Questo, a guardare al passato. Al presente la vita andava morendo in città, ma il ritornello era il medesimo: Pane e coltello e vin di gorello; che tu mugoli e che ‘n tu mugoli/ pan di legno o vin di nugoli.
Certo, non come nella piana di Sesto dove le mamme dicevano alle ragazze: – Pigghialo per damo, gli ha cento pentole col granchio dentro -.E quando il damo faceva l’entratura gli preparavano un piatto di budelline di pecora e gli dicevano: – Seggiolàte quell’omo che dopo ci si sbudella –
Sesto, Campi, Prato era terra di fame e di pecore. Durante lo feste religiose quando le compagnie sfilavano di fronte al Santo per deporre il dono ai suoi piedi, prima di baciarli, i campigiani, poveri in canna, rubavano le monete col bacio. Per questo un giorno il prete ebbe a dire: – Campi passi e non baci – un detto diventato poi proverbiali. La gente della piana era anche infida; il babbo diceva- Di Prato farei Campi e di Campi farei Prato – .
Non eravamo così poveri, ma i fittavoli stavano meglio di noi: le bestie, gli ortaggi erano di loro proprietà, non dovevano dividere col padrone; pian piano si compravano un pezzo di terra e si costruivano una casetta col cancello dipinto e le finestre con le persiane verdi. Noi non avevamo niente di nostro, solo un po’ d’astuzia per salvare il salvabile: i trucchi del mestiere che non avevo voluto insegnare al figlio perché servivano solo a campare male..
Non gli ho voluto insegnare che lo staio contiene diciotto chili di grano, o che un sacco contiene circa tre staia di grano, che per/ i mezzadri affamati lo staio è uno strumento da usare a nostro vantaggio.
Le tre staia nel sacco del padrone dovevano essere gettate soffici, mentre nel sacco del contadino si doveva premere col ginocchio, per un boccone in più.

C’era poi la questione dell’insaccamento. Più rapidamente il grano veniva gettato nello staio ed insaccato e meno ne entrava. Trucchi piccoli per un furto grande da parte dei padroni.
Non ho voluto insegnare al figlio la necessità di arruffianarsi come quando Nando e Lorenzo, due contadini di fattoria avevano nascosto nella sansa delle olive un bel barilotto d’olio. Fui proprio io a trovarlo e a riportarlo al fattore, Chiuso lì, ma due fattoiani, Gosto ed Ezio, vollero portare il caso di fronte alla marchesa che per un barile d’olio dette la disdetta a battitura ai due mezzadri.
Sì, perché l’entrata nei poderi era a marzo e la disdetta a battitura
È anche vero che Lorenzo fu sistemato in una piccola terra a Varlungo, senza casa, a Nando gli furono dati i soldi per entrare in un podere ai Tatti di Vincigliata. Ma così era il tempo. – E’ anche vero che le famìglie di Gosto ed Ezio non finirono bene -mi dicevo, riflettendo – “arrosto che non ti tocca lascialo bruciare”.
Questo era stare sottopadrone, a volte a rìschio: – Il due è in­ via Ghibellina (era il numero civico delle le carceri, le murate) – sì diceva,. Cercavo un’altra vita per il figlio, ecco tutto. Ma così senza nessuna certezza, era andare alla sorte.

II
Torniamo in città sorretti da una speranza antica, noi che con la città abbiamo avuto sempre rapporti vivi ed un nostro bisnonno aveva il negozio in Borgo Ognissanti. Le pietre di Firenze fanno gli uomini e li disfanno, si diceva, proprio perché lì era la nostra vita.
Fino da giovane andavo con gli amici a mangiare polenta dai buzzurri, nelle stradine del centro. I buzzurri erano gente di Campi o di San Frediano, di borgata: gente che non voleva stare sottopadrone. Gestivano alla brava bottegucce che davano sulla strada. La loro merce, pattona, migliaccio, bruciate, polenta gialla era il pasto dei poveri. I buzzurri cuocevano la “pattona” in paioli di dieci chili, alla fiamma di legna, e la scodellavano su rotonde spianatoie fino ai margini, al millimetro. Vederla raffreddare e formare una pelle lucida, granulosa, era uno spettacolo.
Ma i primi“buzzurri” venivano dall’Ottocento, alcuni dalla Germania (i putzer) altri, dalla Lucchesia, vendevano il migliaccio per strada da grandi teglie che portavano sottobraccio. Ambulanti e tavernieri sono stati cancellati dopo questa guerra dalla gomma da masticare e dalla pizza. Ora ci sono le friggitorie, eppure i buzzurri rimangono nella mente come una stirpe di cuochi le cui ricette avevano come ingrediente principale una fame pura, con gli occhi sgranati di gioia nell’antico centro urbano morso dopo morso.
Io frequentavo molto, da giovane, il buzzurro di Borgo Ognissanti, perché lì fino da ragazzo ero andato col babbo quando doveva portare le stagne di latte alla bottega proprio di fronte. Era il mio mondo, popolato di grida; come il canto del lupinaio che passava per strada.
C’era sempre una donna nei rispetti dei lupinai e alla fine una Madonna santissima, come nella vita di tutti noi.

I cocomerai gridavano: – Brucia Pistoiaaa – ai banchi di Piazza Beccaria, in agosto, che ci andavo anche a piedi da Rovezzano nelle calde sere d’estate. Al Mercato poi, dove mi sarebbe piaciuto mettere un banco, il pesciaiolo gridava: – Ranocchi d’Arno vivi! – mentre il gelataio ambulante, con la sorbetteria a cupola ed il carrettino dipinto faceva eco – Gli è di marmo! – .
Alla festa del Grillo, per l’Ascensione, fino da piccolo andavo nei prati delle Cascine che erano a due passi dal podere, e lì a cantare: – I’ grillo canterino! I’ mio canta, è canterinoo! – .
– Non sono mica delle foglie lunghe – pensavo in quei giorni. Fossi stato più giovane mi sarei messo a fare il raveggiolaio come l’ometto che passava da casa in bicicletta e traversava la periferia al grido: – Freschi e belliii! – con i raveggioli nel bagagliaio; oppure sarei andato a fare il semellaio che portava i semelli in un corbello tenuto da due cinturoni e richiamava l’attenzione gridando:
– Due a palanca, due. Ce l’ho con l’olioo! – E chi, all’alba, veniva risvegliato bruscamente gli faceva eco – Ce l’ho con tomàa! – .
Ma più di tutto mi sarebbe piaciuto mettere un banco di ortolano e gridare: – Bella la catera! Ce l’ho co i’ pelo la catera! Ce l’ho senza pelo! Ci ho la caterina! Ci ho la catera grossa! Grossa! Grossa la mi’ catera! – oppure per vendere le susine: – Palle di coniglioloo! – Anche per divertire la gente, ma non ne farò di nulla perché non so stare giornate dietro a un banco, ho bisogno di andare in piazza, sotto i portici in via Pellicceria, dove vanno i sensali delle case ed anche dietro a Piazza Signoria, all’ultimo tratto di via dei Cerchi, all’incrocio con via Condotta, dove vanno i sensali delle bestie.
Mediatore, pensavo, era il mio destino, nel mondo degli “esperti in agraria”, dei vecchi contadini smessi che non rinunciano alla loro “mezza parte”. Sono persone che si conoscono da sempre: i mediatori di bestie, i maialai, i cavallai; i mediatori di immobili ed anche gli imbroglioni. Non appena mi muovo per la città incontro amici e conoscenti: la nostra campagna era così legata alla città da confondersi nelle persone che dovevano conoscere il cielo e la terra.
Per questo avevo avviato anche il ragazzo a conoscere la città: al Duomo, Palazzo Vecchio, la Casa di Dante, il Vescovo, il Sindaco, i pittori, luoghi e persone che devono essere imparati.

III

In quel primo pomeriggio del marzo 1953 me ne stavo seduto alla stanga del carro e facendo schioccare la frusta con poca convinzione verso la muletta che recalcitrava varcammo il cancello con un cigolare di sabbia alle ruote. L’inverno stava cedendo, con un brivido, posto alla primavera, la siepe di sambuchi sulla strada diffondeva un odore acuto, stordente e tutt’intorno il verde ributtava sull’ossatura marrone degli alberi disposti in bella geometria fra le prode.
– Nessuna Pasqua insieme – rimuginavo, mentre facevo schioccare la frusta più alta e decisa, questa volta, tanto che la muletta si impennò leggermente e prese il passo. I colpi secchi della frusta sembravano risvegliare, a sprazzi, una memoria più vasta mentre il respiro cominciava a farsi più corto. Non era propriamente una memoria: era una nuvola di avvenimenti che si affollavano nella mente ad accompagnarsi verso la città: cose non sapevo più bene se vere o immaginarie. Parole strane mi confondevano le idee: – Può darsi che piova… O non vedi che muore… saranno un migliaio – non sapevo più bene, mi sentivo come svenire. “Un migliaio”, quando mai in terra di ortolano si era raggruppato un migliaio di persone. Forse la mente se ne era andata per suo conto ai tedeschi giunti sull’aia e nel vicinato nel settembre 1943, dieci anni prima, o forse vengono in superficie fatti lontani, violenze subite da chissà quale antico. Mi toccavo la gamba dolente per la sciatica, il cappello di paglia calato sugli occhi ed il portafoglio sul cuore, vuoto e sottile come un’ostia. Non avevo più niente di mio e mi veniva da ridere come un ebete per piccole cose che sono grandi e grandi cose che sono invece piccole.
Il peggio stava accadendo. Quello era l’ultimo viaggio a cassetta. Per secoli i miei antenati avevano attaccato il somaro, la mula, il cavallo alle stanghe del calesse e del barroccio; per secoli avevano imbrigliato le bestie, sentito il cigolio della polvere delle strade e delle viottole sotto i cerchioni di ferro delle ruote. Era più che mangiare. Ora sentivo di dover abbandonare quel lento andare nel tempo e nello spazio fra i rumori e gli odori della natura e qualcosa dentro mi si rompeva per sempre. Possedere “cavallo e calesse” non era cosa da poco: stare a cassetta, con la frusta in pugno, significava essere uomini, poter gridare: – Djòoo! Vespina! – passando in mezzo alla gente. Ecco perché varcando il cancello mi venne un sospiro misto ad una risatina nervosa: animali, piante e cielo rimanevano alle spalle, per sempre, per la prima volta, con me.
Il trasloco, lo “sgombero”, era per noi contadini motivo di vergogna perché di solito il mezzadro aveva subito la disdetta ed era costretto alla ricerca umiliante di un nuovo padrone. Anche se questa volta il carro si avviava verso una casa in città sentivo in cuore questo grande vuoto e come per cacciare la nube di tristi pensieri dissi alla moglie: – Chi parla dietro parla al culo – alzando in un sibilo la serpe della frusta.

Non rimpiango niente, ma quelle erano le mie terre, le mie mura; quelli erano i miei vivi non amavo altro: il mio bene, il mio male.
Era come un toccarsi e non sentirsi, questo sgombero. Ora ero come Mario, cresciuto come uno di famiglia e invece ero figlio di una vedova senza mezzi, mi sentivo nessuno, alla ventura del mondo.
Sotto i portici di via Pellicceria, alle Poste Vecchie, avevo fatto la viottola per trovare un lavoro. Ma fu Vittorio, il cognato a cui avevo trovato il podere nel ’30 con l’aiuto di un mediatore di bestie, il Frangioni, a ricambiare dopo venti anni sistemandomi come giardiniere al Ponte Rosso.
– Datte da fa’ che la giornata è mozza – esclamai ancora con un motto appreso durante il servizio militare nel 1924 a Roma. Ma mia moglie cupamente mi tolse ogni slancio: – Proprio come i nostri vecchi – .
Certo, lei avrebbe voluto una vita migliore, più pulita, più sicura e compassionava i suoi ascendenti che scendevano a piedi, in città, per chinare il capo ai parenti benestanti, ma la vita era andata così. Un senso più stretto del tempo ed un disprezzo verso i discorsi di retrobottega si stavano formando in me, mentre la mula avanzava con passo smorzato, quasi sapesse che quello era l’ultimo viaggio con me.
Ora andavo come giardiniere al Ponte Rosso, su una collinetta dominante la città e d’ora in avanti ce ne sarebbe stato di fiato da spendere, gambe in spalla, fra l’andare e venire, da un posto all’altro.
Avrei voluto usare la frusta dalla parte del legno, non fosse stato per un sentimento di rassegnazione che finiva col vincere e per il cane Pallino che ci correva dietro e non voleva tornare alla cascina abbandonata. Ma oscure energie prendevano forza, per reagire alla sorte. A volte, nei soprassalti, pareva che al posto della Vespina ci fosse la Nella, la cavallina rossa della Macine che mi era rimasta nel cuore.
In certi momenti mi pareva di vaneggiare. Ormai la civiltà dei carri stava terminando bisognava misurarsi con quella dei motori. Ecco questo era l’ultimo atto come di un antico carrettiere. Alla stanga del carro sentivo di continuare il destino dei barrocciai, con la fusciacca alla vita e il fazzoletto al collo, che facevano schioccare in alto la loro frusta rallegrata da fiocchi colorati e si lasciavano dietro una fresca traccia d’acqua dai loro incarichi di sabbia dell’Arno.
Ne ripetevo i gesti, mentre il barroccio con le poche masserizie traballava, la muletta cominciava a imbizzarrirsi
Già ero stato al comando dei carabinieri in via Pietrapiana per una commessa di pantaloni da smacchiare. Il maresciallo furiere mi aveva spedito dal sor Pietro che aveva messo mia moglie fra le lavoranti esterne: – Lavoro ce n’è ma il compenso è misero – aveva detto. Qualche centinaio di lire a smacchinare da buio a buio con una singer a pedale.
Davvero avrei voluto usare la frusta dalla parte del legno, non fosse stato per un sentimento di rassegnazione che finiva col vincere e per il cane Pallino che non voleva tornare indietro, alla cascina del fratello.
Passato il cancello della villa: non avrei visto più il grande orizzonte che da Settignano raggiunge San Donato in collina. fra quelle alte mura mi sarei sentito soffocare.

IV
E intanto vedevo i carri della mia infanzia, i campigiani (Brozzi, Peretola e Campi/ l’è la peggio genìa che Dio ci scampi) a cassetta di grandi carichi di fieno o di legna che a volte portavano bestie macellate di frodo e lanciavano a corsa sfrenata i loro tràini di fronte alla barriera del dazio. Erano uomini terribili, avanzi di galera e, in ogni caso, gente forte e litigiosa.
Il rapporto fra bestia e macchina è ancora vivo nella memoria per l’aneddoto del fienaiolo campigiano e del primo tram: il carrettiere avanzava verso la città su un carro trainato da tre muli con un carico di legna. Da poco erano state messe in posa le verghe del tram che dal centro raggiungeva Peretola e Campi. Il campigiano, seduto a cassetta, col berretto sugli occhi e la pipa semispenta, avanzava proprio lungo i binari. Il tram, da lontano, si annunciò con la campana, ma nulla, allora il conduttore iniziò a frenare ed il sibilo solcò l’aria.
Così il campigiano, senza muovere un pelo, apostrofò il guidatore: – O un senti come fistia coresta bestia imbizzarrita! Se tu vòi passare, gli è meglio che tu scenda e che tu la porti a mano – e aspettava che il tramviere si spostasse e gli lasciasse il passo.
Sempre fra Campi e Firenze faceva servizio una diligenza detta i barrocciaccio: era come il pianale di un carro sorretto da una trave a cui erano attaccati i cavalli. Una specie di treggia con le ruote e sulle mensole del pianale sedevano i viaggiatori, parevano pappagalli su un trespolo. Quando un giovane saltava su un’asse posta a sedile il barrocciaccio aveva uno scossone ed il vetturiale gli gridava, con la preoccupazione dipinta sul viso: – O’n tu lo vedi che lo sbillonzi! – .
Questi carri mi passavano proprio davanti a casa, lungo la bianca strada polverosa (o non si chiamava proprio San Donato in polverosa il paesetto in mezzo ai campi dove sono cresciuto?).
Ecco,ero all’ultimo atto come un antico carrettiere. Alla stanga del carro sentivo di continuare il destino dei barrocciai, con la fusciacca alla vita e il fazzoletto al collo, che facevano schioccare in alto la loro frusta rallegrata da fiocchi colorati e si lasciavano dietro una fresca traccia d’acqua dai loro carichi di sabbia d’Arno. Ripetevo il gesto dei renaioli che non c’erano più mentre il barroccio traballava, la muletta cominciava a imbizzarrirsi e le poche masserizie (un letto, un armadio, due comodini, qualche sedia) se ne stavano in bilico.

Ma le fantasie lasciano il tempo che trovano e quando la mula prese la via Bolognese, al Ponte Rosso, mi sentii perduto e mi venne da bestemmiare, proprio come un carrettiere: Porca Ma, Io bo’, diochène, porcaminonna, porco io, un rabbioso intercalare allo schioccare della frusta, proprio di fronte alla porta del sor Giuseppe, il fattore del podere della Macine, che abita lì ed è un vegetale, come un tronco, ormai. Mi venne da mandare tutti a quel paese, mentre un moccolo forte e rotondo fece seguito agli improperi: non era io qua, io là, ma una resìa vera, da abbattere un muro: il muro della villa che si faceva sempre più vicino.
Scaricammo le masserizie: – La mula a Nanni si riporterà domani- dissi e l’ultima parola mi fece eco dentro: domani, domani, domani.. Il giorno dopo riportai la mula e il carro vuoto al fratello rimasto nel podere e tornai a piedi senza cose né bestie. Lo sguardo assente rientrai nella villa, chiusi alle spalle l’alto cancello padronale e, non fossi stato uomo, mi sarei messo a piangere.
Rientrato nella villa: – Gli anni sono mangiagente – mormorai a me stesso e chiusi alle spalle l’alto cancello padronale.
Lì mi veniva da pensare alla casa della Macine.
Ancora oggi, che ne è passata di acqua sotto i ponti, quando mi prende lo scoramento, ci ripenso come per uscire da un incubo!
“La mia casa era grande/ era una casa/ a elle/ con le camere/ la stalla/ e la nera cucina/ a piano terra/ fatemi ritornare dai miei morti/ nella cantina/ c’era lo strettoio/ del settecento/ con le cosce in legno/ e dalla colombaia/ alla domenica/ i piccioni/ volavano lontano/ coi terragnoli/ a filo d’orizzonte/ per poi tornare/ con un volo ad arco/ sull’aia/ troppo bianca/ per la polvere/ dei secoli/ fatemi ritornare dai miei morti/ era la casa/ dove sta la torre/ a strisce rosse e bianche/ della Fiat/ e la viottola dritta/ andava in piazza/ del paese/ che ora non c’è più// Puoi andare/ figliolo/ in via di Novoli/ a chiedere di noi/ dall’ortolano/ e dai più vecchi/ che lì stanno/ al Lippi/ per la strada di Sesto/ per la piana/ sotto monte Morello/ il nostro nome/ è un nome da portare/ a testa alta/ il babbo masticava/ sempe il sigaro/ e per i garzoni/ aveva sempre/ un pè/ portava un cappello/ a larghe falde/ un po’ sbilenco/ sulle ventitrè/ io voglio ritornare dai miei morti/ in quella luce/ tagliata di netto/ fra l’Arno e le colline/ dove i campi/ si stendevano/ come fazzoletti/ d’erba alta e gentile/ e dalla terra/ usciva un’acqua nuova/ fra le mani/ ai pozzi stagionali/ d’Ognissanti/ la mia casa era grande/ era una casa/ una grande cascina/ da fattori/ dietro la rete/ questa fitta rete/ che divise la terra/ dalla terra/ che divise a vent’anni/ dalla vita/ è una storia/ figliolo/ ad occhi chiusi.

BRUNA

1

Seduta a cassetta accanto al marito girai lo sguardo alle poche masserizie ammucchiate nel cassino ( un letto,un armadio, due comodini, qualche sedia) e mi prese lo sgomento per un domani senza terra e, forse, con la stessa fame: io che avevo invocato quel passo ,a uscire così allo scoperto, senza patria né regno, alla giornata, mi faceva sentire come svuotata.
Mi guardai le mani, ingrossate e segnate a fondo dai geloni dell’inverno che ancora si faceva sentire, le aprii quasi con fatica e le vidi vuote: allora mandai giù un sospiro rimasto a metà e pensai ai genitori scomparsi, uno dopo l’altro, negli ultimi dieci anni.
Nata in collina, alle porte di Firenze, fra poggi e buche, ero cresciuta andando sempre di pedina, da un posto all’altro, come le starne. E come le starne, al primo volo venivo cacciata.
I vecchi non possedevano cavallo e calesse e quando mi accasai con un ortolano di pianura non ci fu niente da ridire.

La gente di collina usava il carro soltanto per sgomberare ed è per questo che, a cassetta, ripensavo alle parole che i miei vecchi mormoravano incupiti, in casi simili: – La vergogna non è di sgomberare, ma il paiolo che si vede in vetta al carro – Staccare il paiolo dalla catena, metterlo sul carro, era l’ultimo atto dei contadini sfrattati dal podere, quando a marzo partivano per chissà dove, ed era anche la spia del triste pellegrinaggio agli occhi dei vicini che intravedevano il carro traballare per le viottole e gli sterri.

Eppure, appollaiata sul carro, sentivo in me solo terrore e bisogno di ricordare. Tremavo quasi come quando i tedeschi giunsero sull’aia con un fragore di autocarri e motocarrozzette nel settembre del 1943. Mi sentivo strana, come in quei momenti, l’aria era sconsacrata: sola speranza quell’uomo inerme che si sfiorava la gamba dolente ed il cappello bisunto lasciando le briglie lente sulla schiena della muletta Mi sembrava andare per l’Aretina verso la casa di ragazza invece che nella direzione della casa nuova al Ponterosso. Mi vedevo raccogliere le olive e i radicchi nel campo di Romena e comparivano allo sguardo, una dopo l’altra, le cascine della fattoria di Gricigliano. Dei vent’anni trascorsi in via della Torre a Rovezzano, da sposata, non rimaneva niente, anche la casa sembrava svanire: ombre sbandieravano al cancello, sulla strada ,finché alla vista rimaneva un cespuglio, niente di più. Davanti avevo le mura fredde della città che sembrava irraggiungibile. Neppure potevo tornare indietro: la casa pareva percorsa dalle frane del tempo nella sua antica ossatura, l’aia, un roveto, la grande viottola a croce col noce sul bivio, il muro a secco dell’aia, più niente, nemmeno i ragazzi con l’infanzia felice appesa in corsa dietro il volo delle libellule. Temevo di voltarmi, di vedere un mondo ridotto in ruderi. Nel carro brillava la stagna per il latte , accanto alla mestola per la farina e il pestello per le verdure intagliato nei giorni di pioggia; poi un alare, una paletta per il fuoco, la catena del paiolo. Oggetti inutili che mettevano sgomento, così sparsi in una cassa da frutta. Andavo via, da quella casa percorsa dal vento, un vento fatto di uomini, di animali e memorie, come quello che tirava da Fiesole in una giornata di marzo. Di certo, non tornai più per quella strada, al brivido mosso delle stagioni.

II
Sul ponte del Mensola il pittore si aggiusta la spolverina marrone e nell’osservare dentro al paesaggio sembra sorridere, con una larga dentatura da cavallo. È un uomo di media età e di media altezza, prepara colori e pennelli come una donna il battuto. Il mensola, oltre la spalletta del ponte, mostra un rigagnolo d’acqua in mezzo a un letto di pietre; oltre la sponda delle quercie oscure una vigna ed una cascina il cui cancello dà sulla strada, pochi metri passato il ponte.
Il pittore inquadra nello sguardo torrente, alberi e casa. Questo è il suo tema. Non è la prima volta che incontro questo pittore, un giorno è venuto anche sull’aia a dipingere il pagliaio ed il muro crepato della capanna.
Sul greto si vedono sparsi arti di bambole, stecche di cassette da frutta con chiodi di ruggine che sporgono come una dentatura di rastrello, stracci senza più forma né colore. Un ragazzo si ferma a guardare, fa qualche domanda. Il pittore gli chiede se è di lì: – Sto all’incrocio, di fronte al meccanico – risponde il ragazzo.
Lo spazio di un minuto, il tempo perché la muletta superi il ponte. Ponte a Mensola, Vincigliata, Castel di Poggio, Settignano: i vecchi l’hanno abitata tutta, la zona, col loro peregrinare come su una barca. Ed ora la barca prende acqua, andando verso un’altra riva.
– ‘Vederci! – dice il ragazzo al pittore, mentre il carro si lascia alle spalle la lingua del fosso, e la cascina degli Allori non si vedeva più.
La storia della famiglia coincide con la storia delle case perché gli arredi logorati dal tempo danno il senso del presente, non del passato. La cascina, la casa torre con finestre; come feritoie; con i pavimenti smossi, con pareti d’assi e l’odore di legna bruciata, è la casa degli elementi. Il fumo sbandato dal vento e smagliato dal sole racconta di fatti impossibili e non serve a scaldare: – Inutile accendere la legna sul focolare, il caldo rimane lì, arrossa la faccia e le mani, soltanto – . Meglio, per questo, una casa da pigionale che conserva i santini alle pareti e, sul comodino, le foto dei defunti col lumino acceso; i pomodori in cucina, appesì a un filo e, fuori, sulla steccato, le pelli di coniglio a seccare, anche se di lì il barullo non passa più È una casa non vecchia e non nuova, arredata con mobìli non vecchi e non nuovi.
Ma una casa così ancora è un sogno. Il fabbricato annesso alla Villa Rossa, dove andavamo come giardinieri, era pericolante, col fornello a brace e il gabinetto a buca fuori, in fondo alle scale, una casa di fortuna.
Lì mìsi le Madonne sul muro, a capoletto, ed i gerani a caposcala, sulla porta, ma non era la casa che volevo. Il destino dell’uomo si legge nelle case.
All’angolo di via del Rondinino, prima della Caserma, incontrammo il cappellaio che di fronte alle cascine si fermava gridando:- -E ci ho anche il basco! – con voce forte ma stanca. Quest’uomo alto, con lo sguardo franca, veniva a piedi da Campi per il suo giro di vendite. Camminava sbilenco, dalla parte della valìgia, lungo gli sterri bianchi.
Come continuasse a venire da Campi, nonostante gli anni, quell’uomo carico di cappelli, era un mistero. Cascina dopo cascina offriva la sua
merce: vendeva anche fazzoletti ed altre biancherie, prima di prendere come gli altri ambulanti la via del nulla con la valigia di fibra sulle spalle e la pezzòla gonfia di merci.
Poi prendemmo verso Coverciano. Sul marciapiede del Ponte Rosso, presso la sponda dov’è la fontanella, Gino Ceccarini, l’ultimo poeta fiorentino che gira per piazze e fiere a cantare disturne e vendere lamette, aveva piantato la sua bancarella. Dopo qualche battuta per studiare l’intelligenza ed il portafoglio dei presenti, iniziava le sue storie. Ma “era come gettare perle ai porci” diceva lui per aizzare il pubblico. La battuta non offendeva nessuno, poi quell’ometto tondo come un uovo prendeva a cantare così bene che per ripagarlo la gente avrebbe dovuto comprare un carro di lamette.
– Ha inventato anche la disturna a tre voci – diceva a volte Guido che andava a sentirlo um po’ dovunque: l’americano e il russo, la lepre e il cacciatore e tante altre erano le sue storie. Non c’era tempo, lasciammo il Ceccarini con le sue canzoni ed il suo lavoro di ambulante, come il cappellaio e nella tramontana pungente che scendeva dalla Bolognese salimmo verso la villa. Le sere fra inverno e primavera hanno di queste cadute di temperatura che ti fanno sentire più orfano di un granello di polvere.
Il ragazzo ci raggiunse in bicicletta e con una mano alla bandella seguì l’ultimo tratto di strada, insieme, voltandosi, ogni tanto, indietro.
La vita che mi aspettava si fa presto a dirla: una Singer a pedale dalla
mattina alla sera per cucire quattro paia di pantaloni da carabiniere al
giorno, stiratura compresa, magari cantando come nei campi, per darsi il ritmo, e poi aiutare in giardino, accudire alla casa e agli uomini. Una volta mi venne l’estro e scrissi questa poesia:
L’albero della mia vita
è stato lungo e storto,
ma il tempo non dimentica,
il tempo è lungo e corto.
I mìei giorni di fanciulla
sono stati dolci e amari,
e quelli poi di adulta
suppergiù tutti uguali.
Veramente avrei voluto una vita migliore ed essere trattato più da cristiano. Ma così vanno le cose e non ci puoi fare niente.

III

Quassù vengono a trovarci parenti ed amici. Suonano il campanello a corda, salgono il vialetto ghiaioso e poi ci mettiamo in cucina a parlare di come va il mondo; Franco sta a studiare in camera sua – deve fare l’esame di terza media – ma a volte si unisce a noi ed entra nel discorso. Specie quando vengono i vecchi a raccontare le loro storie si siede accanto a noi e ascolta.
Vannucci Giovanni (grande guerra, decorazioni), piccolo, asciutto, con un vestito liso che mostra la trama, è venuto a piedi da Scandicci. Varca il cancello arrancando.
In casa c’è vino, ne ha bevuto parlando di quando era aiutante di campo, nella guerra del 15-18. Guido lo ha interrotto:
 Bevete – insiste – è dei poderi di Campi – .
 Ah, di Campi – ripete il vecchio e beve rapido.
 Il nostro figliolo, lo ricordate? – domando.
Uso il “voi” dell’ottocento, non del fascio: il voi dello sposo alla sposa, del figlio al babbo ed alla mamma.
– Oh i che vu’ volete? – si rispondeva ai vecchi quando la fame si faceva sentire e ci pareva di essere bestie braccate del padrone.
Sì, il vecchio ricordo, il ragazzo sull’aia, che scappava nel folto delle lille non appena arrivava qualcuno, a fare capolino da dietro il verde con occhi grandi così.
 Franco studia, scrive… poesie – dice Guido con rispetto pensando al suo futuro diverso.–
– Studia? – fa il vecchio guardandolo come si guarda il Capitano, il Padrone, il Fattore. Un ramo del discorso si secca improvvisamente.
Il ragazzo beve acqua. – Beve acqua? – domanda stupito il vecchio. Capitano, Padrone, Fattore non bevono acqua, ma il vino migliore. Deve esserci qualcosa che non quadra, pensa. Oppure sì, è un ragazzo, in fondo. Ed aggiunge rinfrancato: – Questi giovani di oggi! – .
Ecco, il ragazzo è un giovane di oggi, quelli sedentari che non incutono timore.*
– E voi, – domando – quanti anni avete? – .
– ‘Tasei – risponde ridendo con qualche dente di meno.
L’aiutante di battaglia sorseggia di nuovo e riprende:
– Ma sono venuto a piedi, un’ora di passo buono –
Ride naturalmente, senza atteggiarsi, di queste imprese senili, come probabilmente rideva, giovanissimo, passando da trincea a trincea con le greche sui polsi e la grappa dentro.
– Dovevate essere importante, nella grande guerra e dopo – chiede il ragazzo con un filo di umorismo.
– Importante, davvero! – ed è come dicesse no, nell’esclamazione.
– Sapete com’è in questi casi – interviene Guido, versando ancora vino – quando quest’uomo tornò dalla guerra e riprese a lavorare nei campi, perché non c’era altro da fare, vennero a trovarlo degli ufficiali che al fronte erano ai suoi ordini e, sull’attenti, domandarono se abitava lì l’aiutante di campo Vannucci Giovanni. –
Guido tocca alle spalle il vecchio che lo segue con sguardo allegro e conclude: – Vannucci Giovanni il bischero, rispose mia moglie, e non per offenderlo. Solo che ero in fondo al podere col bigoncio del cesso sulla schiena e stavo attendendo ai cavoli, con le mani nere e le cisti di terra sotto gli occhi
Il vecchio scuote il capo, serenamente
Poi commenta: – e siemo vecchi…–
– Bevetelo questo vino di Campi, se no piglia l’aceto – dice Guido scherzando; ma il vino ha fatto il suo effetto: il vecchio ha quasi le lacrime. Si è fatto tardi, deve riprendere la strada di Scandicci.
Mentre varca il cancello per andarsene somiglia ad un uccello con le ali tarpate.
IV
Manescalchi? Manescalchi di Rovezzano? – domanda l’uomo venuto per sovvalli.
-Sì- risposi interrogativo.
All’uomo, magro, bruciato, brillavano gli occhi di sorpresa ed amore.
Io la conosco lei – aggiunge – ho falciato grano nel suo podere – . Era lo stagionale detto Quattroquadri, ora lo riconoscevo.
Due volte sono stato a falciare nel vostro campo, un giorno di San Piero e Paolo falciammo quattro quadri in una mattinata –
I conti tornavano, ed anche il soprannome.
– C’era una serpe nell’erba e le donne fuggivano gridando ‘una serpe, una serpe’. M’importa a me di una serpe! avevo la falce, io, e con un colpo l’atterrai – .
Poi continua:
– Lei è la moglie di quello che parlava sempre o di quello che non parlava mai? –
– Sono la moglie di quello che parlava sempre – rispondo stupita.
– Uno parlava sempre, era sempre allegro; l’altro stava sempre zitto –
Se ne sta con la bicicletta appoggiata al fianco e la cassa da frutta sul bagagliaio, piena di sovvalli. Ebbe una pausa e ripeté a se stesso:
– Uno parlava, uno stava zitto- .
Tiene la bicicletta come fosse una parte di sé; poi riprende a parlare:
– Venire a piedi ci voleva un giorno, dal Casentino, allora comprai una Bianchi con le rote grosse. Si veniva a Firenze con un compagno. Lì oltre era salita ma dopo la Consuma…giù come un fulmine – .
Doveva essere una scena, due su una bicicletta per quelle discese.
– Si andava a falciare il grano anche dal Perissi, con Beppe mio fratello – si vede^che pensa con nostalgia al fratèllo rimasto a vivere in Casentino. Poi conclude: – Enno paura quelle donne, ma io: che mi fa? ho la falce, io. Quattro quadri falciati, in una mattina…-.
Non era il caso di rimanere sul cancello. Chiamai Guido che lo riconobbe subito: – 0 Cecco – lo salutò smorzando la voce. Lui lo conosceva perché gli era capitato di vederlo in giro per i sovvalli.
Ci avviammo verso casa per un bicchiere, Guido spense con la sistola un fuoco di stoppie: – Non si sa mai! – .
– Er fòco – commentò Cecco – proprio in questi giorni son tornato al paese e mio fratello, che aveva raccolto una striscia di fieno secco, dice: ‘Se fa er foco. Fai dei mucchietti – gli dissi – se no il fumo raggiunge il cielo; ma lui si mise controvento con una frasca d’abete in mano e dette fuoco. Un incendio. Con la frasca sembrava un grillo.
Venne anche la “cicogna’ della forestale. Poi rimase un prato di cenere.
In cucina, in principio,^ ci mettemmo di fronte al vino, con le parole contate. Parlavano le braccia, le mani, il corpo spremuto e gli occhi più grandi di noi.. La Singer, in camera, mi aspettava, dopo qualche minuto.

V
C’erano sere che Guido si sentiva come un prigioniero, gli mancava l’aria; ed anche a me. Allora ci si vestiva meglio e scendevamo per via Trieste fino a piazza Tanucci, a pochi passi, dov*era il circo di Gratta.
Gratta era un capocomico della famiglia Caroli, ma il suo circo era proprio familiare: una tenda, una transenna, gli spettatori in piedi, un acrobata prestigiatore, un pagliaccio con scarpe spropositate (lui), una “spalla” che balbettava barzellette e alla fine un ragazzo che passava col piattino per raccogliere un’offerta a piacere.
Gratta alzava il suo piccolo circo anche a Coverciano, quando la famiglia dopocena si metteva in cammino per via della Torre per chiudere la giornata di lavoro di fronte alla casa di Monte, in uno spiazzo festoso.
Per questo Gratta ci faceva sentire meno orfani del recente passato, ci riempiva il cuore.
– Dopocena, cammina con lena – si diceva anche nella casa di giardiniere; ci tiravamo dietro il cancello e aria, finalmente «perché “la terra è bassa”, ripeteva spesso Guido, e piega la schiena.
Tutti i nostri antenati erano aggobbiti invecchiando; andavano con la mazza, a cinquantanni già baciavano terra e non c’era bisogno di inchinarsi ai padroni; ora noi ce ne andavamo dritti per le strade del Ponte Rosso e questo era già qualcosa.
Alla chiesa venivano organizzati anche spettacoli teatrali: La pianella sperduta nella neve. La bottega di Schio, La Pia dei Tolomei. Io non ero mai stata a teatro, così una sera gambe in spalla ci avviammo per vedere una commedia in dialetto. C’era anche Franco.
Le antiche mura senza intonaco erano libri da leggere. A un certo punto una scritta su un mattone in terracotta:
Che c’è scritto – Chiese Guido a Franco.
Non si legge – rispose il ragazzo.
Non si legge- confermai.
Sulla mattonella il rilievo di una pecora. Una mattonella così non era normale su un muro a confine dei campi.
Cos’è? – domandò di nuovo Guido a Franco.
Dev’essere dell’Arte della lana – risponde il ragazzo incerto – dovevano esserci le terre dell’Arte della lana, nel medioevo, qui – .
Anche noi abbiamo lo stemma in Orsanmichele, cosa credi – disse Guido -è lo stemma dei fabbri e dei maniscalchi – .
Ci piaceva parlare camminando: – Noi Benvenuti in casa abbiamo il diploma di cavalieri delle Crociate – intervenni.
Ma intanto facevamo i conti con la miseria e con la servitù. Quando arrivammo alla chiesa il teatro era chiuso, sulla porta un cartello:
Lo spettacolo è rimandato a domenica prossima – .
Fu come se ci avessero pugnalato. Guido e Franco ci tenevano a farmi assistere ad un vero spettacolo. Veramente c’erano sere che tutto andava alla rovescia, per me, poi, era normale: – Chi nasce affortunato/ la fortuna non può perire/ chi nasce sfortunato/ gli è inutile ricucire – .
Ma al ritorno eravamo battuti. Rientrati in casa, sdraiati sul terrazzo, su una coperta militare, ci mettemmo a guardare le stelle al fresco che scendeva da Fiesole.

VI
Al cimitero di Settignano, in fondo alla galleria dove sono i nostri morti, c’è anche il marmo del figliolo di Ricciolo l’ugnaio, ucciso dai tedeschi nel 1944. Ci fermiamo a vedere la foto, con Franco:- Quella faccia sicura e serena ci ricorda il campo e l’aia,, la fine di un’epoca. A noi i tedeschi non avevano dato noia, ma in molti posti avevano portato stragi e distruzioni.
Non si parla quasi mai di politica, ma a volte – a pensare a tanti giovani uccisi – si entra in discorso con gente di passaggio, del Ponte Rosso, che viene a trascorrere qualche ora da noi. Alcuni di questi uomini hanno la faccia dura e spigolosa, come il carattere, chi è piccolo e rincagnato e chi magro, leggero, quasi tagliato nel legno. Ognuno ha la sua storia.
– C’è un posto chiamato Pian d’Albero – iniziò un giorno uno di questi ospiti – sui monti Scalari, vicino alla Panca.
– Da dove venne la Vespina, la garzona – fa Guido.
– Bene, ci saranno cinque cascine su quei poggi ed una era Pian d’Albero – .
Chi racconta si ferma a bella posta, per verificare l’attenzione.
– Allora? – chiediamo.
– Allora, qui viveva una famiglia,, i Cavicchi, religiosi al punto che il capoccia si chiamava Isaia e l’ultimo ragazzo Aronne – .
– Sono?— .
– Profeti, gente che sta nella Bibbia, e in queste case vengono da Gavinana un centinaio di giovani sfuggiti alla leva repubblichina. Vanno alla macchia, anche per sfuggire ai rastrellamenti tedesche. Ricordate le squadre naziste:- ordini e colpi di tacco secchi e cercare fin sotto i letti e gli uomini nel grano?
Vanno allora, questi cento giovani, alla macchia, sui colli del Chianti e trovano un tetto nella capanna dei Cavicchi. Intanto il ragazzo della famiglia, Aronne, vuole partecipare con questi giovani, sapere cose, perché succede tutto questo. E’ un ragazzo contadino. Oltre il giro dei colli non c’è niente, per questo vuole sapere. E’ la guerra,, gli dicono, un’ armata nemica traversa la Toscana.
Poi succede che al filo del poggio, sotto la pioggia battente, arrivano i tedeschi. Tengono casa Cavicchi sotto al fuoco. I giovani chiusi in un cerchio.. Aronne, un ragazzo, impiccato con altri diciassette a Sant’Andrea di Campiglia –
Comprendo la tragedia, anche qui è successo. Facciamo nomi di luoghi e persone, sono trascorsi solo nove anni, in fondo.
Poi si cambia discorso: i gigli, il lavoro, prima che l’ospite scenda per il vialetto verso il Ponte Rosso.
Ma quando andiamo al cimitero di Settignano e vediamo la foto del giovane sul marmo ci domandiamo in silenzio perché, una domanda che svanisce lungo il filare dei pioppi, fuori dal cancello, dove il marmista scandisce il tempo a colpi di scalpello. Il vento che passa fra i rami sembra parlare una lingua amica eppure sconosciuta, per sempre.

FRANCO

1
Un odore di sterro ed erba si levava dalla strada, nonostante la tramontana. Il tempo sembrava volgere all’acqua. Marzo, un sole e un guazzo, dice il proverbio. Mentre orientavo la bicicletta (una Pinzani comprata tre anni prima per andare alle Commerciali) lungo la siepe dei sambuchi, mi abbeveravo a quell’odore di terra. Sull’aia bianca di polvere le figure dei miei quindici anni sembravano svanire in granelli fini e lucenti, in una polvere.
Lì, ai margini del portico era toccato a me, al più piccolo, gettare due pali, due pale o due forconi a croce sull’aia, contro lo scatenarsi degli elementi, nei giorni di marzo, mentre le donne aspergevano il portico con acqua benedetta con gesti rituali.
Santa Barbara benedetta/ liberaci dal tuono e dalla saetta – ripetevano in coro le donne. Non era una paura infantile, anche se qualche ragazza ai tuoni si nascondeva sotto al letto, ma il timore che la fioritura primaverile venisse tribbiata dalla grandine. Eravamo natura e non sapevamo difendercene..
Agli scrosci di pioggia, al rasserenarsi, all’odore di erba e terra bagnata mi sentivo felice ed uscivo poi nei prati imbevuti di pioggia sotto il bigio profilo dei colli di Settignano proprio come un uccello dal nido. Ora quel nido rimaneva alle spalle, c’era solo da spingere sui pedali e via. Mi pareva di vedere il babbo chiamarmi di lontano col consueto fischio a mezze labbra: un segno di riconoscimento fra noi e per me un codice umano, meraviglioso: mi faceva pensare ai passeri e ad una vita diversa che non avevamo potuto vivere fino in fondo.
Mi capitava a volte di vedere il babbo in conversazione animata con gli amici ed allora facevo finta di niente e prendevo un’altra strada, perché nel vedermi non si staccasse dal gruppo. Quando se ne accorgeva il babbo mi fischiava dietro e a casa diceva:
Allora eri te! ho fischiato, fischiato e non mi sentivi? – Ero felice di saperlo felice con i suoi amici ed avevo sentito soltanto un allegro cinguettio.
Ora mi pareva che il babbo dal carro mi chiamasse fischiando ed accelerai sui pedali.
Me ne andavo, decollavo in volo obliquo come su un aerostato.
L’unica voce a fermarmi avrebbe potuto essere quella dello zio, mio compare alla briscola e alla scopa, a volte tenero ed a volte brusco tanto che le donne dicevano:- – ma e un ragazzo -.Lo zio non amava le macchine e quando imparai ad andare in bicicletta lo ritenne un tradimento. Ma ora è anche lui in un vortice: il tempo che ci gemmava lo sguardo sembrava rallentare ed inaridirsi, anche per lui, ed io ne sentivo la scorza dura di tronco che sarà abbattuto. Una sorte comune, Nessuna parola era più in me, ma un groviglio di lacerazioni: un pianto da non piangere, al vetriolo.*
Allora spinsi la bicicletta con una forza da incubo, come in volo obliquo, che ne sarebbe stato dei vecchi che annaspano su questo dito di fango? e delle bestie e degli alberi?

Me ne andavo in città confortato dal babbo. Prima di partire, nel mettere i panni nella cassa, si è esibito in un allegro spettacolo per me che basivo, infilandosi e sfilandosi le giacche del suo guardaroba: quella da sposo, quelle redate dai parenti di città, quella nuova, comprata per scaramanzia, nel lasciare il podere.
– Non sono mica come il nonno che aveva solo la giacca da sposo e quella militare – ha detto con 1’orgoglio di chi è qualcuno,, perché ha un minimo di cose.
Il nonno. Nel suo libretto militare del 1886 sono registrate dal furiere le minime spese per l’abbigliamento con un carattere da calligrafo:- Pezzuole da piedi/ fascia di lana/ camiciole. Tutto pagato, compreso l’usura dei pezzi e gli strappi al telo della branda. In fondo al libretto una divisione eseguita con mano incerta e sbagliata, per giunta, com’è delle vittime.
II babbo ha indossato una giacca dietro l’altra, piroettando, anche lui ha pagato tutto e sbagliato le divisioni da cui doveva risultare in credito.
Tutto questo lo faceva vero, al mondo, ma inutile come un coccio etrusco: io avrei voluto essere diverso, ma intanto tutta la mia forza era in lui, che mi aveva avviato a staccarmi dalla terra e a conoscere la città. Oltre il Deposito militare, dove avevo giocato a calcio con un pallone da rugby lasciato dagli americani (portiere: le ginocchiere di pezza ed i guanti di pelle di coniglio), un pallone pazzo che rimbalzava per suo conto sulle punte e finiva sempre dietro i pali, cominciava la città e lì, in quel giorno di marzo del 1953, finì qualcosa che non so dire ma che aveva l’odore delle lille e dei sambuchi.
D’allora in avanti mi sarei ritrovato più spesso fra l’arco di San Piero e via dell’Albero, fra friggitori e librai, dove la gente gridava per nulla, si sporgeva alle finestre salutando secondo un costume assodato nei secoli. La città cominciava ad appartenermi come l’odore di umido e di buio che veniva dalle alte mura secolari dei vicoli.
Rimasto contadino nell’impennata del sangue, non volevo cedere niente allo spregio della città: bisognava comprenderne in silenzio, e con l’emozione in gola, la sua vita segreta, antica e nuova insieme.
Per questo anche l’ultimo inverno a Rovezzano, quando studiavo inglese all’Istituto Britannico, uscivo dai percorsi obbligati del tram numero 34 per perdermi in quel clima e respirarlo.
Questo amore dovevo averlo nel sangue, come il babbo che ripeteva di voler abitare in centro, fra mediatori e sensali, ad un passo dalla piazza degli Affari e poi ricordava di essere stato battezzato in: San Giovanni e non in cima ad un poggio. Ecco perché la città.

II

Tre stanze senza servizi in cambio della manutenzione di un giardino di tremila metri quadri, senza stipendio. Si possono fare i conti. In tavola il sudore della mamma che trascorreva la giornata al pedale della Singer come lavorante esterna. Questa la realtà.
Lì il babbo non era nessuno, nemmeno il nome sul campanello: gli amici, i parenti che venivano a trovarci non dovevano fare “racca” per non disturbare il padrone. Non era il medioevo, ma i rapporti erano questi.
Vada a spazzare le foglie in quel viale là – comandava la signora,
Si, padrona – rispondeva il babbo. Mi venivano i brividi di raccapricciò,mentre i “signorini” della mia età starnazzano per i vialetti con le serve ed’ io dovevo vivere nel perìmetro della camera.
Fai l’orto, irriga le dalie, raccogli la frutta – gli comandavano i padroni ed il babbo obbediva, ma qualche volta metteva sul piatto il suo essere uomo con qualche risposta secca, con qualche alzata e la bilancia pendeva immediatamente dalla sua parte. Tuttavia rimaneva contadino, uomo del contado, del conte, quasi un suddito.
A volte mi capitava di sfogliare qualche quotidiano, anche se soldi per comprarne non ne avevamo. Allora il padrone chiedeva:
– Cosa legge tuo figlio? –
– Eh! Legge mìo figlio? non me ne sono accorto, leggerà Topolino. Sa gli è uno ragazzo –
“Trovarla un’altra casa” pensava fra sé.
– Tuo figlio non legge Topolino..mi pare legga L’unità, invece – replicava il padrone minaccioso, come per dire: “Te ne vuoi andare? ”
– Gesummaria, che dice? L’Unità? ma le pare, siamo cristiani a modo, noi-., E via a giurare che proprio no, non era possibile.
Rientrando nella Casina veniva nella mia camera e trovava, fra gli altri giornali, anche L’Unità. Lo sgomento gli sì dipìngeva sul viso anche se era seguace del sindaco La Pira, democristiano ma amico degli operai. Il babbo non era operaio perché non gli avevano concesso il libretto di lavoro e dovette adattarsi a dire: – È nulla! – anche quando un signorino gli sparò in una natica con una carabina a piumini.
A tavola, infine, polmone di vitella e “cipolla” lessa di gallina; mezzone per vino e acqua di rubinetto.
Ero iscritto alla terza media con due anni di ritardo, e a notte studiavo ancora.
La cosa non andava giù al padrone ì cui figli già avevano abbandonato gli studi e l’accusa fu immediata:
– Tuo figlio di notte tiene la luce accesa –
– Mio figlio studia e la luce la pago io – ,.
Bisognava anche tenere testa,, al “nemico” con cui spesso sì spartiva la giornata collaborando. I ragazzi in specie, i “signorini”, sì rifugiavano da noi per scaricare la tensione della casa avita e nacque un rapporto non più da subalterni.
Da qualche tempo oscillavo fra un sentimento di giustizia e di pietà. La passività umana di fronte all’ingiustìzia mi convìnceva a tagliare, a cercare una vita per mio conto; ma la consumazione delle necessità mi portava a prendere parte a quella vita. Giudizi e pietà divennero i cardini del mio vivere e li riunii in una sola definizione: amore per il popolo e per quanto di popolare c’era anche nei borghesi.
Allora presi a sedermi sul nudo ammattonato della camera, ad ascoltare alla radio canzoni di santi e briganti, amori e lutti. Il sud, che mi aveva educato con i militari di leva, si animava in me col canto popolare che in quegli anni veniva riscoperto e che io avevo sentito sulle labbra dei miei come una musica remota e sempre presente.
Mia madre cuciva e cantava, io me ne stavo a studiare e a sentire musica, il babbo – terminato il lavoro nel giardino – se ne andava sotto i portici a fare il mediatore di case. E questa era la nostra vita che vista dopo, ha finito per sembrarci felice.
Dalla finestra osservavo i giardinieri tagliare i rami inariditi dei pini e 1’occhio del taglio mi appariva umano; il rosso del muro di cinta del giardino; i pipistrelli a sera zigzagare nel cielo. Fra collera e tenerezza mi veniva da cantare la stornello di Musolino, come già aveva fatto il nonno Gigi ai primi del Novecento. A volte si univa anche il babbo con strofette contro l’ammasso del grano, che si doveva fare il pan di crusca, nero come quello dei tedeschi; ma questo avveniva quando qualche affare sembrava andare a buon termine. Mai una volta mi abbia sgridato, ma infine per me il babbo era il babbo e non, vivaddio, un babbeo.

III
La musica dentro di noi è nata prima di noi, la porta un vento lungo più della nostra storia. Nelle campagne, sui colli che dividono la valle di Firenze dall’Appennino, il vento è stato una voce, una ragione, l’espressione di un’esperienza musicale. C’è ancora chi canta nella piana, fra gli ultimi ciuffi di erba stralciati dalle grandi arterie, dai vasti formicai: chi canta a mezza voce, a metà, con parole che valgono un geroglifico.
La voce che è in me è nata prima di me, fuori da me ed è tuttavia, una voce individuale, un controcanto, non certamente un coro, come speravo. Un uomo, una donna, la pianura, i colli, i torrenti, gli alberi, le cascine, gli eventi del giorno.
– La nostra vita era davvero buia – ha detto la mamma nel ricordare l’apparente povertà mentale dei padri. Ma quel canto che è in lei, cupo o vitale, ha traversato quei deserti e quelle paludi. Lei pensa, forse a ragione, che il vento da cui è abitata sia vivo nonostante quei deserti, quelle paludi, che addebita ai padri, e forse ha ragione. O forse l’addebito è un ingiusto modo di sperare nel fuori, nella storia e di condannare le proprie radici.
La voce che è in me è nata prima di me. La donna che parla, quando riesce a mettere la testa fuori dal buio, non è una donna qualsiasi. Ma nessuna donna è una donna qualsiasi; a riflettere ha un destino diverso,più dell’uomo.
La mamma ha fatto solo la terza elementare, dopo la Grande Guerra, ma
in quegli anni ha studiato le poesie di Pascoli e De Amicis che ricorda ancora, filate. E poi, con le lacrime agli occhi, nei campi perché le sue erano braccia da lavoro. Con gli uomini, sotto gli uomini. Questa donna è cresciuta fra gli oliveti,lungo i filari e gli ortaggi, con dentro un grumo sempre più grosso, una matassa inestricabile, alla fine, e le ferite inferte dalla lancia di un lavoro brutale, nel corpo.
Non è una donna qualsiasi, ha raccolto in sé i canti di tutto un popolo, e sono rimasti lì, nella sua mente di lepre allegra, nella sua tana verde e li canta, anche. Ne conosce di storie e di canti: l’odissea contadina si srotola dalla sua voce o quando scrive su pagine di quaderno, sul retro dei calendari, sulla carta da zucchero della spesa, ora che quel mondo là non esiste più, ed è bene che così sia, amen.
La musica dentro di noi è nata prima di noi, così narrano questi suoi versi: Nell’antico podere alla Cerbiosa/ dove c’è nato il nonno del mio nonno/ siamo stati tant’anni a lavorare/ con molto sacrificio e tanti affanni/ si lavorava tanto tutti quanti/ il podere era grande e faticoso/ con i pochi raccolti per campare/ bisognava far vita come negri/ e pochissimo tempo a riposare.
Finisce la famiglia patriarcale e la storia continua: Poi venne il tempo della divisione/ e si tornò di casa alle Gualchiere /credendo di aver fatto il passo giusto/ si ruppero le uova nel paniere/poiché dopo tanto lavorare / ci riguardavan perfino il mangiare/ portandoci sempre questo detto volgare:/ qui mangiate alle spalle del padrone.

Allora ci fu bisogno di un altro trasloco: Quella vita non era da cristiani / si dovette andar via anche di là / tornando nel podere di Romena / trovando un posto così mal tenuto / che ci si rimetteva ore di fiato / poiché le prode erano in salita / dal gran lavoro e dal poco compenso / il babbo mio ci rimise la vita.
Eppure bisognava cantare. La donna ricorda che, nel meriggio della falciatura, sotto un albero, si riposava cantando ed una volta il Rogaio, uno stagionale, si mise a intonare: Ho visto ho visto ho visto ho visto ho visto e lo stornello non finiva mai.
Loro stavano ad aspettare chi sa quale sorpresa ma il bracciante dopo cinque minuti a squarciagola concluse: ho visto ho visto ho visto una lumaca.
Ora la mamma passa le giornate alla Singer arriva a sera distrutta, ma si accompagna col canto:-
Quando saranno oltre Bologna
non gli rimane che rivolger la vergogna anche la rapa gli si farà
a quelle mamme che le mandano in libertà.
Così finiva la storia delle “segnorine” che andavano con gli americani..
Il babbo invece ha la memoria di un bambino, ricorda le fiere e le feste patronali come se fossero il paradiso perduto. Lui ha la sua musica, non collinare, anfrattuosa come quella della mamma, ma distesa, piana com’è possibile sotto le balze di Fiesole e Settignano. Le fiere, le bestie,.* con le moscaiole di velluto colorato, la saggezza dei proverbi, ma senza proverbi, nata dal suo animo. La sua musica è il canto semplice e disteso dell’ortolano. Quando intona: ‘Facciati alla finestra ricciolona…’ modulando lo stornello con armonia si ritorna al Medioevo e l’amore (del canto) è rivolto alla donna (angelo). E forse la donna è la terra con gli alberi ed i fiumi..
La voce che è in me è nata prima di me, fuori di me. Canto male, non canto, perché altri hanno cantato, perché altri cantino. E questo vento che transita mi dice di no, mi dice di sì: comprendo che è amore, ma ho troppa fretta per intenderlo fino in fondo.
Allora mi rivolgo al babbo, alla sua voce gonfia di mistero buono, quando racconta dei parti delle bestie, lui che era meglio di un veterinario e gli altri mezzadri lo chiamavano ad assistere. I vitelli nascevano con le gambine sul capo:
– Quella volta da Nasicchio, (così detto perché operato al naso), ce ne volle di sudore, il vitello veniva di spalle – dice. Un uomo così affida ai figli fattisi grandi per le domande a cui non ha saputo rispondere, intorno ad un fumoso fuoco di venciglie, la sera; chiede del mare, perché si gonfia e la luna lassù, se c’è vita ; di prima di Cristo la terra com’era, chi ne ha scoperto il moto (Galileo? di dov’era?). Divide la storia in ere omeriche, prima di Napoleone (perché lo dicevano i padri), al tempo del Granduca Canapone, se la memoria assiste. Per questo ho il diploma delle commerciali ed ora studio per le superiori – Vai a scuola, ascolta, qui non devi restare così – E dopo domanda: – Hai letto cosa vuol dire questo? –

IV
Ho incontrato la poesia popolare durante una festa locale a Settignano. Sarà stato il 1947. Due poeti a braccio disturnavano su non so più quale argomento e distribuivano un foglio volante, in ottave, su Bartali e Coppi. Appassionato di ciclismo com’erO, presi quel foglio come un vangelo e desiderai subito di essere poeta, di acquistare la capacità di raccontare in versi le passioni popolari.
Ma ero solo un bimbo. Ascoltavo alla radio l’arrivo del giro di Francia e quando Bartali compiva qualche epica impresa correvo radente attraverso i viottoli per riferirlo agli uomini che lavoravano nella canicola.
La vita nella campagna è incerta, crudele. Malattia e morte all’ordine del giorno. Cominciando dalla mortalità infantile per epidemie ed incidenti, c’era sempre una minaccia sospesa sulla famiglia contadina. Di fogli volanti che parlano di cronaca nera ne circolavano a centinaia e nelle veglie facevano il loro effattaccio. C’erano i buoni ed i cattivi, in quelle storie e tanto bastava.
Gli stornelli è diverso, quando il babbo li canta è come se un’oscura-chiara armonia ricomponga il mondo.
Per i vecchi,la poesia non è un mestiere. Il Ceccarini sì che ci campa, vendendo lamette. Ci si è fatta anche una casa e tutti lo conoscono. Un giorno il babbo ha estratto da una sua tasca, dove c’è un po’ di tutto, un foglio volante piegato in quattro liso come un’ostia perché è passato di mano in mano. Lo ha aperto passandovi sopra il palmo della mano e lo ha posato fra un piatto ed un bicchiere ormai vuoti.
– Com’è? – ha chiesto in gesto di gentile sfida. Era una storia come un’altra.
– Dobbiamo renderlo, ce lo puoi stampate? – ha inteso: batterlo a macchina perché ho fatto le commerciali e come dattilografo mi difendo.
Il babbo ha nello sguardo un’inquietudine di lepre fuggita, eppure matura scelta e decisioni più grandi di lui, con una dolcezza ìlare che gli viene dai campi. Non è un eroe, come non lo fu Vannucci Giovanni, aiutante di battaglia nella Grande Guerra con tanto di greche e galloni, a cui sono ramaste le foto sul muro dove appare di tre quarti col bastoncello in mano e lo sguardo perduto oltre le linee nemiche.
Ma sono se stessi, contadini ed ora operai fermi e pesanti nella loro stazza di pietra, in una periferia schiva e sboccata dove tutto somiglia ai miei anni che si aprono al mondo.
A volte capita anche a me di trovarmi di fronte al baracchino di un cantastorie che vende lamette e altre minuterie. Allora mi tocco le guance, non ho ancora bisogno di radermi ma rimango ad ascoltare, un po’ fuori dal cerchio, il nascere dell’allegria in cuori semplici e, non so perché, sento odio per chi divide il mondo in due: da una parte Tonio, la Beppa, Beppe, Gosto e Maso e dall’altro il sor Antonio, la Signora Giuseppina, il sor Giuseppe, il dottor Augusto ed il marchese Tommaso. Sto con i primi, un po’ fuori dal cerchio, e non so perché.
Forse perché la distinzione in uno stesso nome, negli stessi atti, negli stessi abiti era il segno più evidente dell’ingiustizia sociale.

V

Ecco, la vita di prima era veramente finita. Allora il tempo fra Settignano e la Ferrovia, il Loretino e Coverciano non aveva principio né fine.
Alla domenica ci vestivamo a festa ed aspettavamo sotto al portico l’arrivo dei parenti, poi ci perdevamo per le viottole con i cugini ad inseguirci senza un motivo; per gli altri giorni contavano il sole e la pioggia, il vento e le nubi, la fame e l’allegria, la vita nuova invece non aveva orizzonte, usavamo l’orologio e seguivamo gli orari del lavoro delle botteghe. Imparai così i giorni della settimana e gli orari di apertura e chiusura del cancello.
A volte , cercando di farmi coraggio con le risposte del babbo gli chiedevo ;
– Ma non stai meglio qui? – .
– Stavo bene anche quando eravamo tutti insieme – rispondeva senza dare peso al tono della domanda, ma si capiva in lui una lontana malinconia.
– Alla domenica, quando esci con gli amici, si va sulle panchine del Pellegrino con la mamma – aggiungeva ed io avvertivo l’abbandono di quel girovagare senza gioia.. Allora provavo un senso di colpa, come se io avessi dovuto portare la felicità ai miei, e forse era davvero così. Mi sentivo sbriciolare dentro come una foglia secca.
Meglio “la vita di prima” quando fuggivo scalzo sulle stoppie puntute senza ferirmi, piuttosto che partecipare a questo rito domenicale.
La felicità era stare scalzi: il bisnonno, il Rosso, quando comprava un paio di scarpe, le calzava soltanto all’ingresso in città dopo averle sporcate di cenere perché non si vedesse che erano nuove. La mia felicità diveniva subito il mio incubo quando immaginavo di camminare scalzo fra la gente della città, scandalizzata come di fronte ad uno che tira resìe in chiesa.
Anche il babbo avrebbe voluto tornare indietro nel tempo,ma cercava di farmi coraggio:
Questa donna, tua madre, l’ho trovata a Compiobbi perché le fiorentine non volevano i contadini. Per quelle dei paesi era diverso: venivano in città. Gli uomini dei paesi andavano in montagna a cercar moglie e fra le foglie lunghe rimanevano i più coglioni – .
Quando il morale scendeva sotto i piedi, prendeva a parlare con la sua bella voce armoniosa improvvisando ed il cuore tornava a battere nel petto. Se stavamo sotto un albero del giardino, in» mezzo alle frasche più basse, gli capitava di raccontare:
Le corna delle bestie, quando battevano ai rami, si sgusciavano perché sono di corno sottile e dentro c’è il midollo. A noi servivano per tenerci alla cintura la pietra viva di Scarperia con cui si affiliavano le falci dopo averle battute.
Le corna si prendevano anche quando si andava ai macelli. Se c’era ancora midollo si mettevano nella concimaia a svuotarsi. Poi le pietre divennero artificiali, di mistura; si compravano al Consorzio in San Firenze. –

Io lo ascoltavo come un assetato beve acqua di sorgente e le sue parole erano davvero acqua
Mi scintillavano agli occhi i bagliori argentini del filo arcuato della falce battuta nei caldi meriggi e rivedevo il gesto alto degli uomini che l’affilavano poi con la pietra osservandone il taglio nella luce.
Ora alla domenica ci mancava qualcosa. Allora un giorno decidemmo di andare alla Nave, dov’era il traghetto del Moro che io passavo con la mamma per andare alla Torre Rossa prima della guerra. Allora era una cosa meravigliosa:- lo stradone della Nave a Rovezzano era disegnato fra i poderi degli ortolani e l’acquedotto. Sterrato, diritto, fra due mura senza intonaco. Aveva a che fare con la poesia. Il babbo, per evitare di pagare il traghetto, allungava la strada fino al ponte di Ferro, spingeva la muletta lungo il vialone.Le ruote del calesse cigolavano, la casa della nonna Emilia, alta sul colle di Rimaggio, svettava rossa.
Proprio lì, qualche anno prima della guerra, aveva abitato un famoso pittore. In un libro si legge una sua lettera: “Torno di studio in via Villamagna 118. E’ un vecchio casotto del dazio, piccolo ma situato in un punto delizioso. È a lato dell’Arno e sotto alle colline dell’ Incontro, viale dei Colli, Montececeri, Fiesole. Qui, spero, tra una scappata e l’altra nella campagna, di lavorare molto.”
Ora dovevamo andarci in tram e ce n’era di strada da fare a piedi, dopo il capolinea.
Quella è la casa di Dono – indicò il babbo – dove si andava a comprare i maiali per allevarli, te lo ricordi il Nino? –
Anche il Nino era una parte di me che se ne era andata e perciò non risposi. I poderi all’intorno errano meno curati di un tempo. In molte famiglie erano rimasti solo i vecchi,mentre i giovani lavoravano nell’industria. Già si parlava di monocolture di grano, mais, girasoli. Nei campi di grano verde-spigato le lancette, i tulipani selvatici, si appuntavano verso il cielo. Il maltempo aveva disordinato le messi.
Grano pesto grano a cesto – sentenziò la mamma ed a me veniva da abbandonarmi in quell’onda perché anche se la mente accetta, ce ne vuole a convincere il cuore.
Lo stesso podere degli Allori, a Rovezzano, dove ero nato e cresciuto, sarebbe stato spianato. Questione di anni, ma quello era il metodo dei padroni per scasare i contadini; e così le belle geometrie delle viottole e dei filari, dei poderi e dei vigneti, sarebbero rimaste solo nella memoria.
In qualche aia un erpice arrugginito, una seminatrice sventrata, erano i segnali della fine.
A metterci le mani, fra quei rebbi, per levare l’erba – mormorò il babbo al ricordo dei rischi corsi in tanti anni. Intanto eravamo giunti al traghetto; sulla destra la Sardigna, bombardata durante la guerra, ancora una rovina.
E’ chiamato il Morino, questo posto – concluse la mamma quando giungemmo alle case.
Dall’Arno, dov’erano gli orti e le baracche degli ambulanti che si piazzavano a vendere alle uscite della città (Sant’Andrea, La Certosa, Novoli) il canto stizzoso di un galletto mugellese e l’abbaiare rumoroso di un cane dietro ad oche starnazzanti. Tornare in quel passato, ci sentimmo come pesci fuor d’acqua, fu la prima e l’ultima volta.
Poi con la Pinzani, pedalavo per il quartiere; il babbo se ne andava sotto i Portici, dove il tempo non muore, a parlare con gli amici; la mamma riceveva i nipoti che odoravano di verde.
A volte offrivo la bicicletta al babbo: – Puoi adoprarla anche te – . – Sì- rispondeva franco e presente, facendomi certo che l’uomo è uno, ma continuò sempre sui suoi passi.
Dopo non ci fu più niente da ricordare. Mi accadeva però di entrare in un tempo senza principio né fine: mi pareva di essere in un campo, di alzare al sole un avambraccio (ad angolo retto) per leggere l’ora nell’ombra proiettata al suolo. L’ora del ritorno per dividere il pane e prenderci la mano. E questo mi accade anche oggi.

Per la quarta di coperta
I GIORNI DELL’ESODO è un libro-verità, ovvero la narrazione a viva voce dei tre protagonisti dell’abbandono del podere negli anni Cinquanta.
Ma è anche un poema in prosa in cui ognuno narra a “cuore aperto” la perdita del rapporto con la terra, con le stagioni, così come fino ad allora era avvenuto.
Guido, il capoccia, narra della sua vita libera, anche se faticosa, con tutti gli sviluppi e i coinvolgimenti in una società dove tutto veniva messo in gioco, di giorno in giorno, fra terra e cielo, ai confini della città.
Bruna, la moglie, descrive i duri momenti di vita che la donna era costretta a vivere nel mondo contadino e tuttavia non le manca la nostalgia per un mondo talmente imprevedibile che, essendo lei poetessa, poteva anche essere messo in versi.
Franco, il figlio, e curatore di questo libro, che riviveva in sé le memorie ataviche e che cercava di salvare, nella vita della città, il grande respiro verde delle stagioni nel podere.
Il libro, che riporta le voci in prima persona, si compone di due parti: il momento del trasloco (detto comunemente sgombero) in cui tutto il passato confluisce, e il tempo dell’inurbamento nel quale campagna e città ancora episodicamente convivono.
La scrittura, mutuata direttamente dal parlato, scorre sul binario del diario colloquiale in cui si parla col cuore, per essere subito capiti e partecipati. Non a caso all’inizio abbiamo definito l’opera come un poema in prosa.

Questa è il sito del poeta Franco Manescalchi, che è venuto a mancare il 29 settembre 2023.

La famiglia vuole lasciare visibili i contenuti del sito, come testimonianza della sua attività culturale che ha coltivato nel corso di tutta la sua vita fino alla fine.