“Se è difficile scrivere poesia, ancor più difficile è viverla. Dunque bisogna cominciare da qui e viverla, nella parola, naturalmente” È quello che Franco Manescalchi ha fatto e continua a fare a Firenze, da più di cinquant’ anni. Da quando per la prima volta lo incontrai nei corridoi ampi e luminosi dell’Istituto Magistrale Pascoli, alto e pensoso, gentile e riservato, quasi trasognato, come se di lassù lui vedesse cose che noi non riuscivamo a vedere. Per noi ragazzi di allora i poeti erano fatti così.
“La città scritta” è l’ultimo suo lavoro, importante per chi vuole capire la Firenze della seconda metà del Novecento. È la narrazione del suo percorso individuale di artista dentro un percorso collettivo che è la storia di una comunità intellettuale dentro una città. È una narrazione che ha il colore e il calore della vita vissuta, scritta con “intelletto d’amore” e rappresenta bene le modalità con cui l’esperienza culturale di questi fiorentini si è realizzata, la trama e l’ordito di questo tessuto: i molteplici intrecci che hanno caratterizzato i personaggi, i luoghi e gli eventi, una mescolanza di molte diversità, fatta di scambi e contaminazioni, incontri e scontri. La sua biografia intellettuale è la biografia della “città scritta” e delle sue molteplici intersezioni: poesia e arti varie, arte e impegno civile, scrittura “alta” e scrittura “di base”, ricerca e didattica, lingua e vernacolo. La tastiera di questo pianoforte è stata percorsa in tutta la sua ampiezza. I poeti e gli artisti citati in questo libro sono quasi un centinaio, e poi gli editori, grandi e più spesso piccoli, piccolissimi, spesso gli stessi autori che in certi anni ricorrono al ciclostile. Tante anche le testate delle riviste di poesia, spesso espressione di un artigianato di qualità. È la storia di una comunità intellettuale profondamente legata alla città e alle sue vicende sociali e culturali, vista nelle sue diverse fasi e generazioni, gente che a partire dal dopoguerra frequenta i diversi luoghi che portano il segno di questa avventura: dalle Giubbe Rosse a Paskowski, da alcuni bar minori del centro al Bar della Stazione di Santa Maria Novella, dalla Casa del Popolo Buonarroti a quella di San Bartolo, dalle scuole elementari e medie al carcere di Sollicciano. Franco Manescalchi la può raccontare bene questa storia perché lui è “ tutte queste cose qui”. Dalle scuole, dove ha insegnato, ai cenacoli letterari e alle riviste di poesia, dalle case del popolo ai doposcuola di quartiere, dall’editoria autogestita alle ricerche con gli operai sulla loro memoria storica, ai laboratori di poesia. Non c’è luogo significativo della città in cui Franco non abbia vissuto la sua esperienza poetica e civile. Ma è leggendo questo suo ultimo libro che si capisce bene come questa “socialità della poesia” non è il risultato di una somma di esperienze ma “lo sguardo” con cui lui ha visto Firenze e l’ha vissuta fin dall’inizio. Uno sguardo che è quello di una generazione di poeti fiorentini o meglio del gruppo che forse ha rappresentato il punto di vista più alto negli anni a cavallo tra il cinquanta e il sessanta: “Quartiere” la rivista diretta da Giuseppe Zagarrio, il loro grande maestro. “Struttura e impegno: la poesia” è il manifesto del gruppo che proprio in quegli anni apre una serrata polemica letteraria con “Officina”, la rivista del gruppo bolognese in cui opera Pierpaolo Pasolini. Essi hanno una diversa concezione del rapporto tra società e intellettuali. I fiorentini guardano di più ad una funzione che si inserisce nello sviluppo complessivo, nelle diverse articolazioni del sociale di cui l’intellettuale si sente parte piuttosto che ad un ruolo di provocazione e di rottura in cui si riconoscono i bolognesi. C’è dietro una diversa lettura di Gramsci e soprattutto un’altra esperienza con la città concreta. Quella che ritroviamo poi, lungo tutto l’arco della seconda metà del secolo, fino ai giorni nostri.
Franco Quercioli