Da “Incontro/a Guido Manescalchi”, Firenze, ottobre 1989

I genitori di Franco Manescalchi sono di origine contadina; di quei contadini di lusso che avevano una grande anima e la esternavano dando vita a rispetti, strofe, poesie, proverbi che formavano il tessuto di una cultura che purtroppo va lentamente scomparendo.
Essi dovevano fare i conti con una società in certo modo asburgica, che non aveva pietà né di loro né dei loro figli e li metteva alla frusta per ottenere il massimo rendimento nel lavoro. Ma possedevano un’intelligenza particolare, uno spirito indomito che poteva superare tutti gli ostacoli che si frapponevano davanti. Non c’era grandine, né pioggia violenta, né vento strapazzone che li piegasse. Erano sempre nel podere a lavorare, a renderlo bello e fiorito come un giardino, in mezzo ai peschi, ai peri, agli albicocchi in fiore che nella buona stagione spandevano, come per incanto, luce e colore da tutte le parti.
Contadini che avevano vissuto in un periodo storico burrascoso: la Prima guerra mondiale, il fascismo, la guerra d’Abissinia, la guerra di Spagna, la Seconda guerra mondiale e la Resistenza, senza tentennare, senza mai perdere la speranza nella libertà e nel lavoro. Gente che conservava nell’animo il proprio bagaglio umano ricco, la propria cultura ed una lungimirante saggezza.
Una volta mia madre fu ospite della famiglia di Franco per un periodo di tempo e ne tornò a casa entusiasta, conquistata specialmente da sua madre, di cui divenne amica e che ricorderà fino alla morte.
Anch’io ho frequentato per anni il babbo di Franco Manescalchi e lo “rivedo” spesso sotto i portici di piazza della Repubblica conversare con un altro amico della mia giovinezza, il Razzolini, socialista e burbero benefico di un’epoca vicina al nostro cuore. Lui faceva larghi gesti con la mano, ma il babbo di Franco l’ascoltava, e lo guardava fisso con quello sguardo fiero e pulito che neppure gli anni avevano domato. Era, come sentivo dire da mio padre, il prototipo di una civiltà che aveva retto al tempo e che si era sviluppata producendo e arricchendo il paese.
Spesso andavo a trovarlo nella sua casa lungo la strada che porta alla Nave a Rovezzano, dove hanno costruito un brutto ponte dell’autostrada e rovinato il paesaggio. Erano lì il suo regno, le sue memorie, i suoi “fatti” più usuali; lì lo incontravo in serate luminose dove il cielo sembra si allontani dalla terra. Parlavamo seduti su due sedie impagliate, due sedie di antico pelo, che facevano da corona all’ambiente; si parlava di cose eterne e che eterne durano; c’erano i ricordi dei campi, di un tempo favoloso in cui la terra era l’anima della vita e delle “cose”, ma anche di quelli allegri delle battiture, delle vendemmie, delle potature; la sua voce calda ed intonata t’avvolgeva, ti carpiva l’attenzione, ti metteva a tuo agio, e poi, come un temporale improvviso, scoppiavano i proverbi, adattati al discorso, quei proverbi che sono il sale della vita e del mondo. Il babbo di Manescalchi aveva un sorriso buono, direi quasi dolce, come di protezione verso gli amici che lo confortavano con le loro visite.
Quel sorriso non me lo posso scordare, mi è rimasto negli occhi come una visione angelica.
Spesso si parlava, e perché no, di donne, d’ avventure favolose, di viaggi – io ne avevo fatti tanti – e lui mi ascoltava attonito con una faccia che esprimeva meraviglia e interesse. Chi lo avrebbe detto che Guido apprezzasse certi discorsi d’arte e di letteratura, di poesia; eppure era così, seguiva pazientemente talvolta intervenendo, talvolta ascoltando. I suoi occhi brillavano, esprimevano quell’ansia di conoscere che è insita in quella razza che ha dominato per tanto tempo la natura, attraverso il lavoro dei campi. Nessuno poteva dirgli di più, bastava che ci si arrestasse perché spuntasse fuori un discorso pacato e vivo che puntualizzava la situazione. Alto, robusto e vivace; era una fucina di sapienza popolare, una fucina che mi ha sempre meravigliato e mi ha riportato alla mia giovinezza quando andavo dai contadini del Valori e di Montisoni, in quell’epoca di ferro, allorché il fascismo imperava, in cerca di verità e di libertà; erano i loro discorsi che mi facevano pensare ad un futuro possibile, un futuro dove la libertà fosse davvero una parola concreta.
E quell’uomo dallo spirito giovane, mi incuteva rispetto quando mi parlava di quei tempi, in quel rodio che aveva a vedere partire tanti amici, e a sentire canti di gloria che sapevano di morte.
Era così persuasivo, che confesso, spesse volte mi sono commosso; era un tuffo nel passato necessario per riconsiderare uomini e cose di un secolo tumultuoso come il nostro. Sua moglie lo adorava; erano una coppia singolare che destava simpatia e suscitava amicizia. Un uomo capace di riconoscere a distanza una fronda, che dico, un alberello da una foglia che pende nel vuoto; una donna dal cuore d’oro, colta, di una cultura contadina che ti fa rabbrividire. Vicino all’Arno, se ne sentiva in inverno il rumore cupo, come un sordo boato, ma in estate c’era un venticello fresco, un venticello pieno di sogni. Sembrava di stare in una bella casa colonica dal tetto rosso spiovente, fra le cose eterne che la natura ti pone davanti.
Certe volte, quando gli affari andavano bene, i suoi occhi esprimevano felicità; una felicità che voleva dire vita, voglia ancora di lavorare, voglia di vedere il mondo come andava. Mi ricordo che una sera insieme a Franco andai a trovarlo e siccome avevamo da lavorare lo vedemmo un po’ di tempo intento a tagliare certi rametti di un albero che era vicino alla casa. Era, ripeto, alto, robusto, ma agile e vivace, con una mente così lucida, che, certe volte, mi spaventava per quella sapienza che esprimeva, una sapienza fatta di parole che avevano un loro significato, parole che ti prendevano come ti prendono i versi di una poesia.
Camminava ogni giorno per il centro, prima di ammalarsi; l’ho visto varie volte, a testa alta, ma sempre presente e vigile come quei personaggi dei poemi omerici che tanto ci hanno affascinato. Era il prototipo di una razza che si va lentamente estinguendo, una razza che ha fatto l’Italia, attraverso il lavoro, non attraverso le armi; il lavoro era sempre presente nei suoi discorsi, il lavoro che tanto aveva amato e sofferto fin quasi a distruggere una parte di se stesso.
Durante il ventennio fascista passò brutti momenti, perché vedeva le camice nere come degli insetti che gli rovinavano il raccolto, insetti che avrebbero voluto si prostituisse alle loro mene patriottiche, alle loro guerre, alle loro crociate. Lui non volle saperne, e siccome era un contadino, duro a morire, lo lasciarono, dopo vari tentativi, un po’ in pace.
Ricorderò sempre quelle serate passate nella casa tutta linda e precisa dove non mancava mai un sorriso e una buona parola. Poi Guido, nel luglio del 1986, ci lasciò.
Della mamma di Franco, la Bruna, ricordo il primo incontro in una giornata di sole e di caldo di un luglio più antico, che faceva valere le sue prerogative, invitato ad una villa d’amici in via Bolognese. Ne provai una favorevole impressione, mi sembrò una donna eccezionale per bontà ed intelligenza.
Poi l’andai a trovare a Villamagna, dove abitava in una casa esposta al sole con l’orto-giardino riboccante di fiori e di piante da frutto, quando c’incontravamo mi chiedeva sempre del mio lavoro, di quella mia intensa passione per la Spagna e la sua civiltà, e mi parlava di lei, quando chinava la schiena sul campo e lavorava indefessamente dalla mattina alla sera.
Con Bruna s’apriva un spicchio di cielo; i ricordi venivano fuori come l’acqua da una sorgente. Era una donna vera, un’enciclopedia di una civiltà che va scomparendo. Per ogni gesto della sua vita, ella sapeva rispondere con un motto, un proverbio, un racconto di quella sapienza antica che è il sale della terra.
I suoi occhi vivaci ti scrutavano come se volessero carpirti ciò che nascondevi, per poterti poi consolare e alleviare i dolori che la vita ti dava.
Con lei si stava bene, ci si trovava a nostro agio, c’era sempre qualcosa che ti apriva la vita alla speranza.
Fino agli anni Settanta, suo marito andava alla mattina al mercato per affari e lei se ne stava in giardino a curare le sue piante che le stavano particolarmente a cuore. Quando il caldo sole di giugno sfiorava la finestra che dava nel giardino, Bruna metteva una tenda per ripararsi dalla luce troppo violenta e godere di un’ombra leggera che sembrava accarezzarti. Girava per la casa come una buona fata in cerca di fare del bene, e lo faceva a suo modo parlandoti di sé, del paese dove viveva non appena sposata, della nipote, della sua buona prestazione a scuola, del romanzo che leggeva su Famiglia Cristiana, che lei puntualmente comprava ogni settimana.
La sua vita era puntualizzata dal ritmo del tempo e su quello ha costruito un’asse che le ha dato la possibilità di appoggiarsi durante i duri e terribili anni della guerra.
Quando si parlava dei vecchi tempi, sospirava, credo di nostalgia, come se intravedesse azioni e vittorie di favolosi guerrieri.
Ripeto, ospitò anche mia madre, quando la mia famiglia andava in vacanza, e fu trattata con la gentilezza dei tempi passati.
Mia madre si era trovata a suo agio e si è sempre ricordata di lei e delle sue acute battute ad ogni discorso.
In lei viveva quella sapienza contadina che è la vita vista nell’andare del tempo, un’esperienza che la portava a divenire il centro e il fulcro dell’attenzione.
I suoi occhi esprimevano umanità, fierezza, ma anche bontà, e lei che si vedeva coccolata si difendeva con battute e sentenze, come un antico patriarca.
Ora, dopo anni di convivenza col marito, era rimasta sola ed aveva accettato quella dipartita con forza e coraggio. “Bisogna andare avanti…”, par che dica a noi ora che anche lei non c’è più.
Bruna è stata un personaggio, un qualcosa di vivo e bruciante che tirava, ti portava a considerare le cose del mondo con un metro sicuro.
La rivedo in quel grande letto, con accanto il gatto e una poltrona nella quale, dolente, soleva sedere in quei momenti di pausa del male.
Il suo ricordo rimarrà costante, pieno di quegli insegnamenti che erano la sua forza.
Che dire di Guido, di Bruna, di quel mondo di cui lei era rimasta l’estrema custode? Si è spento un raggio di sole.
Ubaldo Bardi

Questa è il sito del poeta Franco Manescalchi, che è venuto a mancare il 29 settembre 2023.

La famiglia vuole lasciare visibili i contenuti del sito, come testimonianza della sua attività culturale che ha coltivato nel corso di tutta la sua vita fino alla fine.