Da Vernice n.43, Torino, luglio 2010

Verità e giustizia hanno il correlativo letterario nel binomio poiesis e polis • Poesia come filo rosso o work in progress dentro la storia della civiltà • Le metafore divergenti • Le tre stagioni umane e letterarie di un protagonista • Uno scelto repertorio poetico
Per un poeta il conseguimento della verità trova le basi in alcune scuole di pensiero, penso – ad esempio – alla “semantica della verità” di Alfred Tarski che si fonda su modelli, per cui le componenti del discorso hanno già in sé la condizione del vero.
Per me il vero estetico ed il giusto etico, due momenti complementari ma non sovrapponibili, possono essere sintetizzati nel binomio poièsis e polis.
Infatti nella stagione di Quartiere, primi Anni Sessanta, vasto fu il dibattito sui portati della teoria neopositivista (aveva cattedra a Firenze Giulio Preti, di cui si ricorda l’opera Praxis ed empirismo). Ebbene, mentre Luzi intensificava il suo laboratorio nell’ambito di una scrittura fenomenologico-paratattico (“non so più quel che volli o mi fu imposto, / entri nei miei pensieri e n’esci illesa. / Tutto l’altro che deve essere è ancora, / il fiume scorre, la campagna varia, / grandina, spiove, qualche cane latra / esce la luna, niente si riscuote, / niente dal lungo sonno avventuroso.”
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni da Primizie del deserto prendeva sostanza un analogo progetto di scrittura fondato sulle tessere di un trinomio “semantico-sintattico-pragmatico” volto a definire linguisticamente la dimensione del vero. Ricordo in proposito una precisa equazione di Wittgenstein volta a definire l’assoluto reale, per cui io potevo scrivere: “Siedo con gli altri, ripetuto esplode un clacson sulla curva, anche gli amici / simulati dileguano, da qui / bisogna iniziare a vivere, dove / un muro insormontabile è il silenzio”, Fuoriporta. Versi nei quali la prossimità tecnica con Luzi intendeva tuttavia a cogliere il vero per porre le basi ex imo della vettorialità del giusto.
Come si deduce, la mia poesia è frutto di un work in progress linguistico e di una presenza nella storia. Perciò, il percorso creativo conseguente può essere rivisitato per stagioni evolutive e complementari.
La neve di maggio, “summa” della mia poesia uscita nel 2001 per la Polistampa di Firenze, comprende i miei testi principali apparsi in volume fra il 1959 e il 1995 e sintetizza tre precise stagioni umane e letterarie.
La prima, fra il 1955 ed il 1965, è documentata dalle Poesie giovanili che comprendono una trilogia: Città e relazione, 1960; L’età forte, 1962; La macchina da oro, 1964.
In questi quaderni, editi da Quartiere, è espresso il tema dell’inurbamento e della sua problematica individuale e storica. In questa direzione, l’approfondita lettura della tradizione primonovecentesca mi iniziò ad una ricerca che andasse oltre una letteratura tematica e aprioristicamente valoriale.
Altro cardine dei miei inizi fu una tensione interpersonale umanistica, come risulta dai due exergo del primo libro Città e relazione, 1960 (dove il titolo è un programma).
Il primo exergo conferma la necessità di una poesia “solidale” (Occorrono troppe vite per farne una. Montale, Ossi di seppia, L’estate), che viene più ampiamente esplicitata nel secondo: «L’uomo ha bisogno di essere libero: ora, il presente, oltre alle costrizioni materiali, comprende, ultima e maggiore di tutte le costrizioni, la morte. Siamo condannati a morte, come è stato detto; e ci illudiamo di non esserlo soltanto perché una forza istintiva ci rappresenta l’avvenire come infinito e liberissimo. Ma l’uomo ha ben presto capito che non avrebbe vinto la propria morte che a patto di dimenticarla attraverso la vita altrui. In altre parole l’uomo cerca di assicurarsi la libertà di cui ha estrema necessità attraverso piani, azioni, opere; che leghino la sua vita a quella delle infinite generazioni future. Quest’operazione psicologica per cui l’uomo dimentica se stesso, ossia la morte a vantaggio dell’umanità intera, noi la chiamiamo propriamente speranza» (Alberto Moravia La speranza, 1944 casa editrice Documento).
La speranza è il frutto di quelle verità conseguite in itinere dove la poesia conserva la sua centralità metaforico-divergente, come si conferma in queste citazioni distillate allo scopo e connesse alla parola “sacro-frattalica” erba: “Il grande Bertold Brecht non capiva le cose più semplici / e sulle più difficili, l’erba ad esempio, meditava” Bertold Brecht, da Grandi uomini. Oppure: “… eppure le più care al mio cuore, foglie che confermate tutte le altre, / le più fedeli – tenaci – le estreme.” Walt Whitman, da Rade mie foglie in Foglie d’erba. Ancora: “Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che trema. / E la mia Patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano.” Rocco Scotellaro, La mia bella Patria, in È fatto giorno. E infine “Cessate di uccidere i morti, […] / Hanno l’impercettibile sussurro, / non fanno più rumore / del crescere dell’erba, / lieta dove non passa l’uomo”. Giuseppe Ungaretti, da Non gridate più, in Il dolore.
Ciò vuole significare che la poesia del Novecento procede per intuizioni ed illuminazioni “singolari” che vengono dal profondo.
Appena trascorsi i vent’anni, avevo messo a fuoco con spirito “ludico” i temi di verità e giustizia proposti in questo numero di Genesi con spirito giovane. Già dal 1964, con La macchina da oro, erano avvertibili i segni di questa “erosione”, come conferma Emilio Isgrò “Un’aria di giovinezza corre in questo libro… in questo caso, è chiaro, la parola giovinezza non è posta come un limite; ma, piuttosto, come il segno caratteristico di un poeta che fa della spavalderia e della spericolatezza la sua bandiera. Manescalchi predilige i ritmi aperti e variabili della ballata, per calare in essi tutta la sua esperienza del mondo.” (Emilio Isgrò, sul Gazzettino veneto del 5 ottobre 1965).
Giuseppe Zagarrio individua in me tale istanza “come dura, asciutta volontà di resistere a tutto ciò che del sistema è ingiusto e ossessivo; come irta capacità di “erosione”: appunto, da eros-ione, come dice il poeta; e vuole intendere non solo il modo di una violenza straordinaria che esalti o di una distruzione che costruisca, ma anche, nello specifico rapporto col sistema, l’unico mezzo oggi disponibile per roderne gli schemi…» (Giuseppe Zagarrio, in Aut del 5 settembre 1972).
Tutta questa operazione nasceva non da una specularità solipsistica, ma dall’essere parte costitutiva di un “lavoro letterario” comune.
La poesia e la civiltà letteraria sono entrate a far parte della vita a partire dai diciotto anni. Nel 1956-57 salivo le scale della redazione della rivista Cinzia un paio di volte al mese, per dare corpo e forma al nuovo numero con l’entusiasmo di chi scopriva un nuovo mondo.
Nella piccola stanza della redazione, Carlo Galasso, editore, direttore, redattore della rivista, si muoveva con domestica naturalezza e riservatezza.
Il suo merito principale fu di avere aperto in modo incondizionato e indiscriminato le pagine della sua rivista a tutti coloro che avessero qualcosa da dire e che, in anni in cui prevaleva una visione scolastica della scrittura, lo dicessero con un certo garbo e con una certa novità. Lontano comunque dalla facilità di un movimento allora imperante, fondato e diretto da Aldo Capasso: il Realismo lirico.
Di particolare pregio fu la prima antologia stampata nel dicembre 1955, all’inizio della mia collaborazione, comprendente una serie di autori oculatamente scelti sia fra i giovanissimi che fra i poeti accertati e aperta dai versi di Giovanni Papini.
Oltre a ciò, partecipando alla vita artistica cittadina, aprii una rubrica di critica d’arte la cui attenzione era rivolta alle mostre di maestri ancora giovani come Vinicio Berti, Sirio Midollini, Fernando Farulli, amici e protagonisti di una stagione irripetibile.
Il ponte fra la prima e seconda stagione, dal 1960 al 1968, coincide con la partecipazione al sodalizio di Quartiere condotto da Gino Gerola e Giuseppe Zagarrio.
Gino Gerola inizialmente abitava in via delle Panche, in un quartiere al piano terra tirato a lucido dalla moglie Rita che gli stava continuamente a fianco. Durante il nostro primo incontro estrasse, da un cassetto della scrivania, il dattiloscritto del poemetto La valle che poi avrebbe pubblicato.
Fu un atto di considerazione nei miei riguardi che continuò poi nel tempo quando dalla poesia passò alla prosa chiedendomi consigli sul taglio della scrittura.
A partire dal 1961, quando tornai dal servizio militare, ci incontravamo periodicamente nella mansarda di Giuseppe Zagarrio per le riunioni di redazione della rivista Quartiere ed io, nonostante il mio noviziato, davo il mio contributo progettuale aprendo ai giovani e alla storia.
E, a dire il vero, il mio apporto assurse ad una sua evidenza anche scrittoria. Ricordo che una sera, nel riscontrare l’attenzione che la rivista trovava, Zagarrio fece presente che Giansiro Ferrata, redattore di Paragone, aveva manifestato apprezzamento per lo stile e il contributo al rinnovamento che emergeva dai miei scritti.
In queste riunioni, in mansarda, prima di iniziare, era nostra consuetudine ascoltare dischi di De Andrè, di Ignazio Buttitta e conversare su aspetti di poetica.
La mia amicizia con Giuseppe Zagarrio fu tale che nel 1994, quando, dopo la sua scomparsa, realizzammo il suo desiderio di costituire nella Biblioteca Nazionale di Firenze un fondo di poesia con i suoi libri e a suo nome, trovai ancora incredibilmente sulla sua scrivania il dattiloscritto della mia Città e relazione del 1959.
A volte, dopo avere programmato materiale per il numero in preparazione, uscivo con Gerola, facendo un tratto di strada insieme fino alla sua casa nuova in via degli Artisti.
Quella era divenuta per me, nei limiti dell’ospite, una seconda casa, condividendo con lui la passione a conoscere e catalogare le riviste di letteratura militante.
Non a caso nelle 1966 collaborammo ad un numero della rivista La Regione, redigendo un panorama dei periodici che, a partire dal 1945, avevano dato a Firenze un volto di grande rilevanza nazionale.
In conclusione, il pregio del gruppo di Quartiere, nonostante l’impostazione storicistica, consisté nel confronto attivo con Luzi, Bigongiari, Parronchi e Betocchi, a conferma che la ricerca di sviluppi nuovi non nasceva da una sterile competitività ma da un confronto attivo all’interno di una civiltà letteraria.
La seconda, fra il 1966 e il 1980, è documentata dalla trilogia Il paese reale, 1970; La nostra parte, 1977; Il delta degli anni, 1981. In questi quaderni, editi da Collettivo R, è espressa la “resistenza” dall’interno all’alienazione del sistema neoindustriale.
Il paese reale, dando forma alla poetica “aperta” di Quartiere, ebbe molto successo, ma proprio per questo trovò in Pier Paolo Pasolini (iconoclastico verso ogni riferimento al primo Novecento) un fiero oppositore. Infatti mi dedicò l’editoriale Cos’è un vuoto letterario del numero 21 di Nuovi argomenti: “I ricordi della lotta recente e, mettiamo, l’immagine di Che Guevara, si son fatti… crepuscolari! Cito da Il paese reale di un ragazzo, Franco Manescalchi (edito secondo l’esigenza vigente da certo Collettivo R); con i suoi bravi teppismi linguistici dell’irrisione della neoavanguardia ludica, mescolate, col massimo candore, alle più serie professioni di fede e di impegno marxista” (Pier Paolo Pasolini Cos’è un vuoto letterario editoriale del numero 21 di Nuovi Argomenti, gennaio-marzo 1971 ed ora nel Meridiano Mondadori Pasolini Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, 1999).
Gianni Toti, su Paese sera, rispose direttamente a questa “lettura”: “Franco Manescalchi non è un ragazzo come l’ha visto Pier Paolo Pasolini […] Perché non leggere invece con spirito di critica militante non stroncatoria la consapevole ironia delle anafore e delle citazioni? “Del nostro grande amore mi chiedi cosa fu”: comincia così il libretto, ma è già in questa andatura di ballata popolaresca messicana che la ironia linguistica si esprime per precipitare poi nei colpi d’accetta lessicali, nella ri-combinatorietà delle parole fatte a pezzi e ricucite…” (Gianni Toti, su Paese sera del 27 agosto 1971).
Ma fu Gino Nogara, sull’Avvenire a cogliere esattamente la sintesi interna fra poiesis e polis: “Siamo di fronte ad un temperamento lirico che alimenta la materia espressiva di una schietta, virile commozione. La testimonianza si appoggia, confortandosene, a due componenti portanti: l’evocazione del paesaggio naturale e urbano, di un elegiaco contratto, e il sentimento amoroso… manifesto di un’accorata gentilezza. Coscienza e responsabilità regolano il discorso, sostanzialmente politico, in questa tramatura di affetti e di interessi interiori…” (Avvenire del 12 settembre 1971).
In questa stagione, a conferma che il lavoro del poeta e del critico (quando si è tali) sono due facce di una stessa medaglia, potei mettere in evidenza alcuni nuovi poeti nei quaderni di Collettivo r.
Fra questi si devono evidenziare come mio rilevamento critico i testi di Paolo Della Bella, Mauro Falzoni, Ivo Guasti, Bruno Francisci, Giancarlo Viviani, Ida Vallerugo, Filippo Nibbi, Carla Mazzarello, Paolo Albani, Rosa Maria Fusco.
Egualmente mi sembra necessario evidenziare come, in tal modo, si ponessero le basi per una civitas letterarum futura, dove potevano convivere una città multietnica e a una letteratura multietnica. Se per Gianni Toti è “in questa andatura di ballata popolaresca messicana che la ironia linguistica si esprime per precipitare poi nei colpi d’accetta lessicali…” ciò deriva da un lavoro di internazionalizzazione della nostra poesia che già in quegli anni sia Quartiere che Collettivo R svolgevamo, mentre personalmente non trascuravo le affinità antropologiche fra le diverse civiltà con ricerche sulla nostra cultura popolare pubblicate dall’editore Vallecchi e con traduzioni, ad esempio, dei corridos messicani con l’amico Ubaldo Bardi. Si potrebbe parlare, usando un recente neologismo, di una progettualità “glocale” ante litteram.
La terza, fra il 1980 e il 1995, è documentata dalla trilogia Le scapitorne, Esuvia, 1987; Aria di onfine, Libria, 1991; La casa delle comete (inedito ora inserito nell’antologia La neve di maggio).
Questi ultimi quaderni esprimono le dissolvenze di un mondo che si rigenera e motiva nell’azione poetica nel quadro già indicato per il precedente ciclo da Gino Nogara “l’evocazione del paesaggio naturale e urbano, di un elegiaco contratto, e il sentimento amoroso… manifesto di un’accorata gentilezza.”
Ma la stagione viene definita in modo perfetto dal discorso epistolare di Oreste Macrì: “Lei credo si sia salvato in grazia di un fondamento di dimora vitale, prima radice della poesia; mi appare dai profondi pagi toscani, rilevato dal Riviello nelle “blande memorie contadine”, nel “territorio evangelico e tribale”. Sì, “evangelico”, ma di un cristianesimo anteriore al Cristo, forse protoetrusco, come quello di Caproni, cui lei è affine per certa facilitas di gomitolo ritmico. Sua dimora vitale coincidente con quella dei grandi poeti ermetici (pur aggettivo convenzionale e senza senso) meridionali…”
Tre fasi del secondo Novecento, della storia del “secolo breve”, tre stagioni di una “vita d’uomo”, tre cicli letterari diversi ma connessi da una loro interna progressione. Ed in quest’ultima è emerso con maggiore chiarezza, sulla base di un risultato dove esperienza e stile si sono immedesimati, il riferimento alle “letture” di cui ho accennato all’inizio. Ogni poeta ha i suoi modelli, ma certamente, se per poesia moderna si intende quella istituita nel nostro Novecento, io credo non si possa esimerci dai testi della triade Ermetica, con i loro rimandi al Simbolismo e con i suoi sviluppi europei primo novecenteschi.
I miei libri sacri credo li abbia elencati Oreste Macrì. Continuo a citare dal suo scritto epistolare: “il suo ricordo simpatetico di Gatto (strofetta betocchiana, elementarismo aereo…), la Lucania sinisgalliana d’epigrammatico incidere scrittorio, la luna di Bodini, la versione metrica del Viajero di Machado andaluso, reduce nel “nido” familiare (tema del “viaggio”), l’Orsa e il “nido di fame” del primo Quasimodo. […]
La resa ai padri è sempre un rischio per la poesia, ma conta sincerità e verità di coincidenza tra le proprie forze poetiche e qualche possibile illuminazione pur discontinua dell’enigma. […] Essenziale è recuperare il “seme” del tempo vero pagando con la propria sofferenza accettata tra “metamorfosi inconclusa” e “patria del nulla” come colpa della indicibilità (“né verso né prosa”) di essa x, la nonsoluzione come testimonianza.”
Come si può notare, la fruizione dei “libri sacri” passa attraverso una serie di mediazioni che, nel mio caso, consistono nel modernismo mediterraneo aperto alla poesia ispano-americana sempre mossa fra metafora ed allegoria.
E qui stanno le specifiche diverse che il linguaggio poetico manifesta rispetto al linguaggio della comunicazione ordinaria.
Ma ci si domanderà: la poesia può essere un “discorso oscuro” ovvero è meglio che sia una “carta scoperta”? In cosa consiste “la x, la non-soluzione come testimonianza” che ti caratterizza.
La mia opera nasce sul confine fra realtà e scrittura, da ciò scaturisce “un’aria di confine” naturalmente ambigua. Ma lascio concludere a Oreste Macrì il senso di tutto ciò: L’“aria di confine” del titolo emblematico sinonimizza il “paese reale”, contro il “lager”, non più polemica, ma in luce-ombra; “l’aria” limite concreto,insulare, arcaico-rurale. Da esso l’ascesa al cielo e la discesa nell’“ade”, l’impennata astrale e la morte sotterranea. […] Infine, è una specula da cui contemplare e ridurre le “forme”, cui s’intitola la poesia che mi ha colpito, Forme: “di tempo in tempo vagano le forme / dell’essere profondo”. Credo che la cifra risolutrice sia in questi versi di Eugenio Montale: “Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. Non una carta scoperta ab initio, come nella “comunicazione ordinaria”, ma una chiara specularità della “specula”.
A dare forma a questa esperienza del profondo che si fa parola giova anche l’attività di critico-poeta, ovvero di lettore attento a decriptare e commentare la poesia.
In effetti, a conclusione di questa fase, dal 1995 fino a oggi, ho intensificato il mio lavoro critico-editoriale con la casa editrice Polistampa di Firenze mettendo in evidenza poeti di tutto rilievo come, fra gli altri, Alfredo Allegri, Alma Borgini, Marco Di Bari, Annamaria Guidi, Ivo Morini, Mario Sodi, Francesco Giuntini, Fornaretto Vieri.
Intendo dire che la critica poetica è un’attività anche creativa ed è bene che un poeta eserciti abitualmente anche la critica professionale della poesia. Con maggiore precisione: nel secondo Novecento parlando di “critica militante” si faceva riferimento ad una vasta area di poeti-critici impegnati a evidenziare e mettere in qualche modo in ordine l’attuale, a differenza degli accademici che rivolgono i loro interessi a un più ampio e istituito campo di ricerca.
Col degrado di una civiltà letteraria e con la riduzione di riviste e piccoli editori qualificati e qualificanti anche la critica militante è limitata e svolge ormai un’attività ridotta ai singoli e sempre meno si considera la poesia come frutto di laboratorio, affidandosi invece ad uno spontaneismo privo di fondamenta.
Con tutto ciò, nel contesto “fiorentino” – come ho accennato sopra – è rimasta viva una “nicchia ecologica”.
Per tracciare una mappa dei poeti a Firenze che hanno rinnovato la tradizione rimanendo nel solco dell’immaginario lirico filosofico fondato su un cristiano (ma anche laico e civile) sentimento della vita non si ha guida migliore di Mario Luzi, il quale, con uno spirito attento e partecipe, ha prefato le opere di numerosi poeti fiorentini di origine o di “adozione” con note che hanno permesso al lettore di apprezzarne
la crucialità del discorso. E questo anche quando le note sono state espresse in forma epistolare, allo scopo comunque di essere rese pubbliche.
L’influenza di Luzi era tangibile già sul versante di Quartiere, rivista storica che operò a Firenze fra il 1959 e il 1968: Gino Gerola e Giuseppe Zagarrio ne condivisero l’aspetto umano e tecnico pure – ripeto – con dei distinguo di natura storicistica.
In quegli anni l’uscita de L’onore del vero (1957) e l’antologica della sua opera Il giusto della vita (1960) rappresentarono due cardini dell’intera poesia del Novecento, evidenziando proprio il senso del “giusto”e del “vero” che un poeta può esprimere con la propria opera.
Successivamente, a partire dagli Anni Ottanta, Mario Luzi ha svolto una preciso Magistero, con Carmelo Mezzasalma, Renzo Ricchi, Paola Lucarini Poggi, già operanti nel gruppo di “Hellas”, oltre a Franca Bacchiega, Caterina Trombetti, Maria Grazia Maramotti.
Da Carlo Betocchi, che pure non ha avuto una sua “scuola”, discende tuttavia un poeta rilevante come Sauro Albisani, mentre Alba Donati e Alessandro Ceni credo possano avere un qualche riferimento nell’aperto laboratorio bigongiariano.
Verso la fine del Novecento si è poi confermata una pluralità di voci: Giuseppe Baldassarre, Giuseppe Panella, Liliana Ugolini, Alberta Bigagli, Anna Maria Guidi, Mariagrazia Carraroli, Giovanna Fozzer, Mario Sodi, Giancarlo Bianchi, Giovanni Commare; Lia Bronzi, Alma Borgini, Leandro Piantini, Anna Balsamo, Duccia Camiciotti, Anna Vincitorio e altri che sarebbe troppo lungo elencare, a rappresentanza di una civiltà letteraria operante sul territorio e che nel Pianeta Poesia trova una cornice in cui confrontarsi per costruire un progetto culturale per una nuova comunicazione letteraria.
Infine, col nuovo Millennio c’era bisogno di uno sguardo alla tradizione, dalla più prossima alla più lontana, con un’elaborazione eteroclita di neolingua. Non a caso si sono affermati giovani che ho definiti Neoteroi o Nuovissimi, con una formula che ritengo calzante per il loro specifico espressivo.
Certamente, in questo ultimo ambito generazionale, si sono avuti sviluppi molteplici e differenziati fino a motivare il discorso individuale che, alla fine, è quello che conta.
Alcuni operano in ambito universitario ed elaborano una poesia “culta”, quasi tutti si dedicano alla multimedialità, aspetto quest’ultimo, sul quale varrebbe la pena soffermarsi.
In ogni caso, conviene ricordare che la poesia multimediale attiva dal futurismo ai nostri giorni, a Firenze già dal 1963 viene proposta da due poeti del gruppo di Quartiere, Lamberto Pignotti ed Eugenio Miccini, col manifesto della Poesia visiva.
Anche il corso di poesia multimediale di Pianeta Poesia, un ambito del lavoro della nostra associazione (Novecento Poesia, centro di studi e documentazione), che dal 1991 ha ospitato i maggiori performers italiani, ne è una conferma.
Infatti, è chiaro che non si può pensare alla poesia senza riferirsi ai linguaggio e al più complesso evolversi della lingua nei suoi vari codici.
In breve, sarebbe riduttivo delimitare la poesia in due sole dimensioni, la pagina e la voce (e forse, a ben pensarci, questo non è mai stato), in quanto molti sono i sensi ed i segni che devono essere attivati per rispondere creativamente ed in modo coscienziale alla polimorfìa anestetizzante della comunicazione di massa che intende sostituirsi al farsi del reale e al suo linguaggio epifanico e cosmogonico.
Per concludere, detto tutto ciò, è chiaro che il valore conoscitivo e interpretativo alla poesia ha spazio nella cultura moderna. Dal momento in cui il reale viene anestetizzato e trasformato in reality mediatico dalla comunicazione di massa, l’opera del poeta, calato nel suo hic et nunc, fa emergere, talvolta in aenigmate, quanto di vero e giusto appartiene alla vita.
Infatti, se, da un lato, il Novecento può lasciare la lezione eroica dell’uomo che, tramite la figura del correlativo oggettivo, si identifica con “l’agave che s’abbarbica al crepaccio / dello scoglio / e sfugge al mare da le braccia d’alghe […] e nel fermento / d’ogni essenza, coi miei racchiusi bocci / che non sanno più esplodere oggi sento / la mia immobilità come un tormento” (per citare ancora Montale, da Scirocco, Agave sullo scoglio), dall’altro, lo stesso poeta ci offre la chiave per attingere infine alla Verità.
E qui, pur non chiedendo noi “le parole che squadrino da ogni lato / l’animo nostro informe…”, è il poeta stesso “rimasto senza fiato” a dirci che le parole della “venditrice d’erbe” sono la Verità. E non si tratta di un correlativo oggettivo, come nel suo e nostro “male di vivere”, ma di un Verbo inascoltato nella moderna Cafarnao.
Sandro Gros-Pietro

Questa è il sito del poeta Franco Manescalchi, che è venuto a mancare il 29 settembre 2023.

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